La Stella del Mattino

n°1 luglio - settembre

 

Sommario

 

Presentazione

Federico Battistutta: 

La stella del mattino e le foglie ingiallite

 

In cammino

Michael Amaladoss: 

La doppia appartenenza religiosa

 

Raimon Panikkar: 

Vangelo e Zen

 

Kosho Uchiyama: 

Zazen come Buddhadharma

 

Jiso Forzani: 

Premessa e poscritto a Uchiyama

 

Canzoniere

Nazim Hikmet: 

Il mio funerale

 

Fabula

Mauricio Y. Marassi: 

A gennaio perché

 

Voci

Cecilia Pallottino, Raffaella Scabelloni: 

Cammini laicali in dialogo

 

Schede

A cura di Massimo Beggio e Silvia Papi

 

 

La Stella del Mattino

Laboratorio per il dialogo religioso

nuova serie - trimestrale

n. 1 - luglio/settembre 2001

Redazione: Federico Battistutta e Giuseppe Jiso Forzani (coordinatori), Alberto Braida, Luciana Della Flora, Emiliano Ferrari e Silvia Papi.

Grafica: Gabriella Barbieri

Sede: c/o Libreria "L’equilibrista", via Gaffurio, 11, 26900, Lodi

Tel. e fax: 0371.424801

E-mail: laequilibrista@libero.it

Abbonamento ordinario: L. 30.000

Abbonamento sostenitore: L. 50.000

Conto corrente postale: 38216206

Stampa: Cooperativa sociale "Eredi Gutemberg", Piacenza

Sito web: web.tiscalinet.it/stellamattino, a cura di Andrea Zaniboni

 

 

Supplemento a "Un futuro per l’uomo", n. 1, 2001, periodico semestrale - Aut. Tribunale di Verona n. 1429 del 02.03.2001. Direttore responsabile: Ennio Brovedani, s.j.

 

 

Arretrati:

 

Opuscolo di gennaio - marzo

Opuscolo di aprile - giugno

 

 

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Presentazione

 

La stella del mattino e le foglie ingiallite

Federico Battistutta

L’equinozio d’autunno è uno dei periodi maggiormente critici dell’anno. Il sole viene crocifisso sull’equatore celeste, anche se in senso inverso rispetto a quello di primavera. Ci capita di percepirlo nelle giornate che cominciano ad abbreviarsi, nell’indebolirsi del calore e nell’approssimarsi delle perturbazioni del cielo che porta con sé lunghi giorni di pioggia insieme ai primi freddi. Dopo la pausa estiva si riprendono le consuete attività, si spera un po’ più riposati e rinfrancati. L’immagine, un po’ retorica però rappresentativa, delle foglie ingiallite e cadenti nei mesi autunnali indica assai bene il termine di una stagione e l’appressarsi di un lungo periodo di riposo. Proprio in questo periodo è maturato e vede la luce la ‘nuova serie’ de "La Stella del Mattino".

Dico subito che c’è un lieve imbarazzo e un po’ di emozione nel presentare questo numero. Si apre infatti con alcune novità importanti e, affrontando questo giro di boa, è doveroso illustrare ai nuovi come ai consueti lettori che cos’è e quale cammino intende percorrere "La Stella del Mattino". Stiamo parlando, come recita il sottotitolo, di un laboratorio per il dialogo religioso. La parola ‘laboratorio’ vuole indicare innanzitutto che si tratta di un luogo di ricerca e di esperienza; il vocabolario spiega anche che è un posto dove si svolgono attività di carattere artigianale, e questo aspetto, che non partecipa alla produzione anonima e in serie destinata ai grandi mercati, ci piace pensarlo anche in relazione a ciò che s’intende come dialogo religioso. Dove ‘dialogo’ e ‘religioso’ sono termini che vanno considerati insieme. Infatti non desideriamo riferirci solamente a un’accezione ristretta, per quanto importante, quella relativa al dialogo fra le religioni, ma, prima di ogni altra cosa, desideriamo rivolgerci alla natura intima del dialogo e a quella sensibilità nei confronti della vita che ne manifesta l’aspetto religioso, precedente ogni dichiarazione di appartenenza a questa o quella confessione. E allora in questo campo, laboratorio vuol dire esplorare il senso genuino di cosa intendiamo dire quando parliamo di religione, esponendoci in prima persona, senza adagiarci ricorrendo a definizioni predefinite con il risolvere in questa maniera, prima ancora di iniziarla, una ricerca diretta con il rischio di impoverire il proprio cammino, il quale trova senso e spessore nel venire percepito non tanto come un tragitto - più o meno rettilineo - che conduce da un punto di partenza ad uno finale, d’arrivo, ma come un percorso che ha valore in sé, con tutte le curve, gli andirivieni, gli arresti, comprendente al suo interno le infinite vicissitudini che danno forma alla vita dell’uomo.

Non solo. E’ un laboratorio nel momento in cui l’interrogazione si apre al dialogo con l’altro, misurandosi con le domande radicali e gli interrogativi essenziali che l’uomo si pone lungo in questo suo tragitto. E’ questo un campo aperto, una radura spaziosa dove nessuna persona sinceramente motivata è esclusa e nulla è aprioristicamente precluso allo sguardo che si domanda. In questa prospettiva, molte distinzioni come ad esempio quella fra credenti e non credenti appaiono steccati rigidi, privi di senso, che è bene abbattere.

L’immagine della stella del mattino è un’espressione ricorrente in diverse tradizioni religiose e, osservando il cielo, sta a indicare la fine della notte e il preludio del giorno che arriva, nella consapevolezza che il passaggio dal buio alla luce avviene ogni giorno, per sprofondare poi nella notte, e così via, nel cielo come nella nostra vita.

Per finire c’è un’altra spiegazione, breve, da fornire. Questa pubblicazione compare con la dicitura ‘nuova serie’, poiché in forme diverse è esistita come opuscolo o bollettino di collegamento interno dell’associazione religiosa "La Stella del Mattino", fondata e animata dal missionario saveriano p. Luciano Mazzocchi e dal monaco buddhista zen Jiso Forzani, nel comune sentire l’importanza del dialogo religioso. L’auspicio e la novità di questo numero risiede nel fatto che la rivista rinnovata sia in grado di aprirsi ai nuovi lettori e sensibilità, ricevendo a nostra volta stimoli e salutari provocazioni, al tempo stesso consolidando e approfondendo quel rapporto, costruito nel corso di questi anni, con gli amici che da tempo ci seguono e che hanno vivificato queste pagine.

 

Il presente numero si apre con la sezione ‘In cammino’ che riporta gli interventi di due religiosi in prima linea nel campo della riflessione sul dialogo religioso, Michael Amaladoss e Raimon Panikkar, entrambi indiani. Il primo affronta con apertura e senso critico il tema legato al fenomeno della doppia appartenenza religiosa, mentre il secondo sottopone ai lettori alcune considerazioni partendo dalla presentazione di un libro sul Vangelo di Giovanni, letto e commentato attraverso un dialogo vivo con la tradizione del buddhismo zen.

Segue poi la traduzione di una delle ultime interviste rilasciate da Kosho Uchiyama, già abate del monastero di Antaiji e una delle figure più significative del buddhismo zen contemporaneo, scomparso alcuni anni fa. Il testo è seguito da alcune riflessioni di Jiso Forzani, il quale ebbe modo di conoscere di persona gli insegnamenti di Uchiyama in Giappone.

Sotto la dicitura ‘Canzoniere’ e ‘Fabula’ si aprono due sezioni nelle quali proponiamo ai lettori una pausa rispetto ai testi a taglio saggistico che a qualcuno potranno forse apparire un po’ impegnativi o ardui. Nel primo caso si tratta di poesie, nell’altro di racconti, con l’augurio che possano, attraverso l’uso di differenti pratiche linguistiche, offrire oltre al piacere ottenuto dalla lettura di un testo, anche spunti, diretti o indiretti, per una personale riflessione sui momenti cruciali in cui si svolge un’esistenza.

Nella rubrica ‘Voci’ viene riportata una sintesi di un seminario svoltosi quest’estate avente come tema il cammino religioso dei laici. Si tratta della prosecuzione di un dibattito già avviato su queste pagine e che ci proponiamo di proseguire nei numeri a venire, anche con la collaborazione dei lettori.

La sezione ‘Schede’, in cui vengono segnalati alle lettura alcuni libri di recente pubblicazione, chiude il presente numero.

 



In cammino

 

 

Michael Amaladoss

 

La doppia appartenenza religiosa

(traduzione di Federico Battistutta)

 

 

 

Pubblichiamo l’intervento del gesuita indiano Michael Amaladoss tenuto nel corso delle "Assises Pastorales Europèennes" a Bruxelles nel 1999, per iniziativa della rivista "Voie de l’Orient". M. Amaladoss è docente di Teologia e autore di diverse opere sul tema del dialogo interculturale e interreligioso. In italiano è stato tradotto il volume Rinnovare tutte le cose, pubblicato dell’editore Arkeios di Roma.

Il fenomeno della doppia appartenenza può essere discusso a più livelli. La religione è una sorgente profonda d’identità personale e sociale, anche all’interno delle società dette secolarizzate. Siamo dunque nel diritto di domandarci se una persona può percepire la sua identità partecipando a due tradizioni socio-religiose nello stesso tempo. Credo che potremo discuterne in modo pienamente valido solo al termine di uno studio sul campo.

Ecco perché limiterò qui la mia riflessione all’esperienza personale di individui che sentono di appartenere, in un modo o nell’altro, a due tradizioni religiose. Si pongono due domande: 1) E’ possibile? 2) Questa situazione ha un senso? La mia riflessione non ha altro scopo che quello di iniziare una discussione all’interno di un gruppo di persone con alcune esperienza in proposito.

Cominciamo con alcune affermazioni. Non c’è che un solo Dio/Ultimo. Le differenti religioni permettono delle esperienze di questo Dio/Ultimo. Ogni religione porta con sé degli elementi discutibili, ma parimenti delle esperienze autentiche. Un’esperienza religiosa è in generale quella di una persona-in-comunità. Non voglio escludere le esperienze puramente personali. Ma la mia riflessione attuale concerne il fenomeno della doppia appartenenza, la quale presuppone due comunità.

 

L’esperienza religiosa è di ordine simbolico

 

Gli esseri umani, in quanto spiriti incarnati dentro corpi, vivendo all’interno di comunità, sono degli esseri che dipendono dall’ordine simbolico. Ogni esperienza, compresa l’esperienza religiosa, è di ordine simbolico. Si comunica attraverso dei simboli. Anche le esperienze del vuoto sono i corrispondenti negativi di simboli positivi.

Nessuno fa l’esperienza di Dio o dell’Ultimo in quanto tale. Si fa l’esperienza di Dio attraverso un’esperienza o un avvenimento particolari. Ciò si produce in un contesto storico e culturale definito. Questa esperienza è di conseguenza vissuta, espressa e comunicata attraverso dei simboli. Queste esperienze spesso si autenticano da sé stesse.

I simboli non sono produzioni arbitrarie, convenzionali, come sarebbero i segni. In una qualche maniera, si ricollegano al medesimo tempo alla realtà sperimentata, alla persona-in-comunità che fa questa esperienza e al contesto nel quale questa esperienza ha luogo. I simboli sono dunque radicati. Non sono come le parole di una lingua, che possono essere raccolte e utilizzate in qualunque modo. I simboli possono anche essere "reali" (nel senso fisico) e/o personali.

Tutte le religioni possiedono delle esperienze primordiali o fondatrici che prendono corpo nei racconti e nelle azioni socio-simboliche (i rituali). Questi formano una tradizione che ha per fine far rivivere e riattualizzare quelle esperienze fondatrici. La memoria svolge un ruolo assai importante.

Poiché l’esperienza religiosa è di ordine simbolico, essa è dunque limitata. E’ un’esperienza della Realtà Ultima; non è però un’esperienza di questa Realtà allo stato puro, bensì attraverso la mediazione delle circostanze della sua manifestazione. E pur essendo un’autentica esperienza dell’Ultimo, ciononostante non è l’esperienza di questa Verità allo stato puro. Ogni simbolo esprime una correlazione tra la realtà sperimentata e la persona-in-comunità che ne fa l’esperienza. Si tratta di un assoluto-nel-relativo. Un simbolo non è relativo: è relazionale.

Ogni simbolo possiede una dimensione apofatica che gli è inerente. Significa che anche se siamo molto attaccati a un simbolo, sappiamo e sentiamo che la Realtà è al di là di questo simbolo. Non si relativizza il simbolo, ma lo si sperimenta come limitato. Questa esperienza lascia allora posto a nuovi simboli. E’ senz’altro possibile che non si percepisca l’esperienza nel suo limite prima di aver incontrato un altro sistema simbolico.

Poiché i simboli sono limitati, può essere che si abbia un pluralismo di simboli per la stessa realtà, anche all’interno della stessa tradizione religiosa. Questo pluralismo può anche segnare un progresso o uno sviluppo della tradizione. Tutti i simboli in una tradizione possono non essere ugualmente adeguati. Possono non essere tutti ugualmente portatori di significato per quella tradizione. Alcuni simboli possono svolgere un ruolo-chiave. Può anche essere che io non mi senta a mio agio con tutti i simboli, anche all’interno della mia propria tradizione.

 

I simboli e il pluralismo delle religioni

 

Le differenti religioni sono esperienze ed espressioni simboliche differenti della stessa Realtà Ultima, vissute da comunità umane differenti in contesti storici e culturali differenti. Ciò non significa che sono tutte uguali o che hanno lo stesso valore, ecc. Simili formulazioni comparative dovrebbero essere evitate. Talvolta sento dire che i mistici fanno tutti l’esperienza dello stesso Dio, ma che il modo di esprimere questa esperienza sono differenti. Penso che proprio le loro esperienze differiscono le une dalle altre. Per due ragioni. Da un lato, i contesti storici e culturali degli individui e delle comunità che fanno l’esperienza sono differenti, il che vuol dire che le mediazioni simboliche sono differenti. E, d’altro canto, la stessa Realtà ultima, soprattutto se la crediamo personale, può manifestarsi diversamente a persone diverse in circostanze diverse.

Ogni religione ha la sua pertinenza in sé stessa nella misura in cui è mediazione per i suoi seguaci dell’esperienza dell’Ultimo. Le differenti religioni possono essere percepite come differenti paradigmi dell’incontro tra il divino e l’umano.

Poiché è una comunità umana che si trova impegnata nell’esperienza e nell’espressione simbolica dell’Ultimo, non solamente i limiti, ma anche il peccato, sotto una forma o l’altra, possono ledere le strutture simboliche. Nondimeno, esistono sempre degli elementi profetici all’interno di ciascuna tradizione religiosa.

Se è vero che le differenti religioni costituiscono differenti esperienze simboliche dell’Ultimo, una particolare esperienza simbolica non può servire da criterio per giudicare l’autenticità e la pertinenza delle altre. Peraltro possiamo parlare di un criterio negativo: se tutte le manifestazioni simboliche hanno una certa autenticità, non possono essere in contraddizione l’una con l’altra. Non bisognerebbe d’altronde attribuire troppo presto né con troppa facilità tali contraddizioni. La scoperta di criteri comuni di giudizio in proposito dovrebbe costruirsi attraverso il dialogo.

In un senso, ogni tradizione religiosa è unica. Se, oltre a ciò, una particolare tradizione religiosa rivendica un certo carattere unico nel contesto della totalità, non può trattarsi che di una affermazione di fede e non di un’asserzione comparativa. In quanto affermazione di fede, non è evidentemente intelligibile per gli altri. Nondimeno, anche questa fede deve divenire portatrice di senso in un contesto storico, se deve avere senso per la vita della comunità e non restare una dichiarazione a priori e astratta. Una simile ricerca di senso non può effettuarsi a spese delle altre comunità religiose.

Giudicando dall’esperienza indiana, sembra possibile, per delle tradizioni religiose differenti, stabilire un dialogo che superi la semplice comprensione per raggiungere una domanda e un arricchimento reciproci. Il fondamento di questo dialogo risiede nella presa di coscienza dei limiti storici e culturali della propria esperienza, nel momento in cui una comunità culturale e religiosa entra in un contatto vivente e non polemico con un’altra. Ma la crescita deve venire dall’interno stesso della tradizione.

Nessuna religione può pretendere che le sue strutture simboliche siano, non solo simboliche, ma reali, che rappresentino la Realtà ultima tale quale essa è, mentre le altre religioni non presenterebbero che dei simboli. Il pluralismo religioso non è relativista, perché il fondamento della verità delle religioni non riposa sul carattere limitato degli esseri umani, bensì sull’Ultimo in quanto Assoluto. Combinata con l’adesione della comunità nel suo impegno di fede, una struttura simbolica può avere un valore completamente normativo per quella comunità.

 

La doppia appartenenza

 

Dopo queste messe a punto, ritorniamo alla mia domanda iniziale. Una persona appartenente a un gruppo socio-religioso determinato può sentirsi a proprio agio in un altro e parteciparvi? Non affronterò questo interrogativo in maniera teorica, ma piuttosto in riferimento ad alcuni esempi concreti. Quando pensiamo alla doppia appartenenza, immaginiamo immediatamente dei cristiani che s’impegnano nella meditazione Zen, oppure a degli indù che partecipano a un culto cristiano. Ma vi sono altri livelli di questo fenomeno che meritano essere esaminati.

Gli antropologi, per esempio, ci parlano del fenomeno della religione doppia o parallela all’interno della religiosità popolare. Conosciamo, a questo proposito, i culti afro-brasiliani, in Brasile, e numerose Chiese indipendenti in Africa. Alcuni li considerano, dall’esterno, come sistemi religiosi paralleli o sincretisti. Tuttavia i loro seguaci sembrano del tutto a proprio agio con essi. Certi teologi, come Aloysius Pieris dello Sri Lanka, trovano non solamente normale, ma anche inevitabile e necessario, una combinazione – anzi perfino una integrazione – tra la religiosità cosmica locale con elementi delle soteriologie meta-cosmiche e "pan-locali". Si riscontra questo fenomeno nel mondo intero. Il fatto che i diversi elementi siano di natura cosmica e meta-cosmica non pone alcun problema per la loro coesistenza, né per la loro integrazione. Le genti vivono in differenti mondi simbolici e sembrano passare senza grande difficoltà da uno all’altro. Il contesto locale, storico e sociale, ha sovente influenzato la coesistenza, se non l’integrazione, tra questi due tipi di elementi.

Da alcuni anni, numerosi cristiani praticano metodi orientali di meditazione e di concentrazione. Un metodo non è una semplice tecnica. Conduce a fare un’esperienza. Queste esperienze rivestono, all’interno di una tradizione religiosa data, un significato spirituale e teologico particolare. Alcuni possono praticare questi metodi a un livello superficiale al fine di trovare una certa calma mentale e sono soddisfatti del fatto che questi metodi, a un tale piano, non sembrano dipendere da una pratica religiosa. Si può anche promuovere questi metodi di meditazione fini a se stessi.

Altri cristiani rimangono fermamente radicati nella propria tradizione religiosa, ma sembrano trovare un nutrimento nella bellezza di certi testi, simboli e pratiche di un’altra tradizione religiosa e cercano di integrarle nella loro tradizione. La questione della doppia appartenenza neppure qui si pone.

Ma ce ne sono altri, infine, che vivono la tensione dei significati spirituali e teologici delle due religioni, come per esempio Swami Abhishiktananda. (L’abate Monchanin era assai reticente riguardo allo sforzo di Abhishiktananda). In un altro senso, sembra che persone come Gandhi non abbiano avuto difficoltà a riferirsi a Gesù e ai Vangeli, pur restando indù.

Gli atti simbolici e socio-religiosi sembrano essere di tre ordini. Certi sono fondati sui nostri bisogni. Riguardano i problemi e le tensioni ordinarie della vita. In questo campo, le persone sembrano superare senza problemi le frontiere tra le religioni. I centri di pellegrinaggio e i santuari attraggono ogni sorta di gente. Parimenti, un certo ricorso ai metodi di meditazione non richiede di andare più lontano dal livello di una risposta al bisogno di serenità mentale e personale.

Ma altri rituali segnalano la relazione di un individuo a un gruppo sociale, nei momenti importanti della sua vita. Questi sono chiamati riti di passaggio. Sono così intimamente legati all’identità di una comunità e all’integrazione in essa che nessuno, al di fuori di quella comunità, non avrà l’idea di praticarli. D’altra parte, fuori da quella comunità non avrebbero alcun senso.

Un terzo tipo di rituali riguarda i rituali di trascendenza, che mettono una persona-in-comunità in relazione con l’Ultimo. Ugualmente a questo livello, alcune persone sembrano disposte ad attraversare le frontiere tra le religioni. Così, dei cristiani, che non sono forse interessati ai rituali popolari in uso nei templi indù o buddisti, praticano senza problema differenti forme di yoga e di meditazione proposte da queste due tradizioni. Nello stesso modo, credenti di altre religioni possono sentirsi a casa propria pregando con dei cristiani. In India, per esempio, numerosi indù non vedono alcun problema a partecipare all’eucaristia, se li si accetta, e d’altro canto numerosi cristiani sembrano pronti ad accoglierli, allorché ciò non è proibito da una "regola". Infatti, alcuni hanno suggerito la possibilità di partecipare all’eucaristia prima del battesimo. Una simile facilità ad attraversare le frontiere, per dei rituali che non sono strettamente socio-strutturali, merita la nostra riflessio

 

 

Il seguito di questo articolo sulla rivista


 

 

 

Vangelo e Zen

 

Raimon Panikkar

 

 

 

Quanto segue è la prefazione che Raimon Panikkar ha scritto al testo Il Vangelo secondo Giovanni e lo Zen, in uscita presso le edizioni Dehoniane di Bologna. Il libro è stato scritto da p. Luciano Mazzocchi in collaborazione con Jiso Forzani e comprende commenti e meditazioni ai brani evangelici. Si tratta del secondo volume dedicato al Vangelo di Giovanni (il primo era uscito nel 1999 con il sottotitolo ‘Meditazioni sull’esistere’). Giovedì 25 ottobre, a Milano, presso la nuova sede de "La Stella del Mattino" in via Cipro 10, alle ore 18,30, ci sarà la presentazione al pubblico del nuovo libro. Oltre agli autori parteciperà all’incontro anche Panikkar.

 

Chi ha orecchi, intenda (Mt. 13,43)

 

L’ideogramma giapponese di kiku (ascoltare) è composito, essendo formato dall’accostamento di tre ideogrammi semplici, precisamente quelli di orecchio, occhio e cuore. Ciò evidenzia come ascoltare non sia soltanto capire, né soltanto leggere. Il libro che ho il piacere di presentare, é, come tutti i libri, un testo scritto; ma andrebbe piuttosto ascoltato e non semplicemente letto. Essere un vero lettore di un libro autentico è esserne coautore. All’espressione sanscrita itivuttaka (così fu detto), che apre una intera raccolta di testi attribuiti a Buddha, la tradizione buddista giapponese aggiunge, in giapponese antico, nyoze gamon (così udii), come Jisô Forzani, coautore discreto del libro, con amore e precisione annota altrove.

Il Vangelo esige l’ascolto, lo Zen richiede l’esperienza. Ascoltare è sperimentare. La comprensione dei messaggi religiosi del Vangelo e dello Zen consegue dall’ascoltarli e dal metterli in pratica; quindi avviene solo in un secondo o terzo tempo. Con questo secondo volume sul Vangelo di Giovanni, come con gli altri volumi di commento ai Vangeli sinottici, l’autore (gli autori) porta a compimento un’impresa straordinaria: quella di dilatare e approfondire il messaggio evangelico, senza tradirlo. Per dei lettori occidentali, ma anche per quelli non occidentali, una simile lettura è una vera boccata d’aria fresca. Infatti il più delle volte il nostro entrare in contatto con le Sacre Scritture cristiane è condizionato da strati di storia non sempre cristiana, che finiscono per seppellirne il senso originario sotto parole fin troppo abitudinarie, se non addirittura riduttive. I dati forniti dalla sociologia evidenziano come le vecchie cristianità oggi registrino una certa fiacchezza. Leggendo queste pagine, non sempre facili da capire, vi si coglie il soffio dello Spirito rinnovatore. È vero: non sono facili da capire! Ma nemmeno il Vangelo è facile da capire, a meno che lo si metta in pratica.

Sono consapevole della differenza che passa tra una prefazione e un’introduzione. Questa mia non vuole essere un’introduzione del lettore ai contenuti profondi del libro; ma si limita piuttosto a una riflessione teologica, a mo’ di prefazione.

 

* * *

 

Ravviso una sfida teologica profonda dietro queste pagine belle e apparentemente semplici. Con poche eccezioni che sempre ci furono in tempi e luoghi diversi, la maggior parte dei cristiani ha pensato di possedere i diritti d'autore dei Vangeli e, quand’anche li usò in ambiente non-cristiano, lo fece per evangelizzare; la qual cosa, se non viene confusa con l’indottrinamento, è di per sé un intento del tutto legittimo. L'autore è un cristiano dichiarato, tuttavia egli ha imparato come ascoltare il messaggio con altri orecchi, occhi e cuore, diversi da quelli ereditati dalla cultura nella quale è cresciuto, senza per questo rigettarla. Ci troviamo qui di fronte ad un esempio vivente di interculturalità, che è un imperativo religioso dei nostri tempi.

La normale esegesi cristiana dei Vangeli per lo più è consistita in una interpretazione degli stessi all’interno del contesto storico della cultura giudeo-ellenico-romana dei tempi in cui essi furono scritti. Per una corretta ermeneutica di un testo si richiede la conoscenza del suo contesto e, aggiungo io, quella dell’intento dello scrittore. Sui Vangeli sono stati scritti migliaia di libri, al punto che è proprio dall'interpretazione della Bibbia che la moderna scienza ermeneutica trae le sue origini. Si è venuto formando perfino un corpus di interpretazioni della Scrittura, che ha avuto l’approvazione ecclesiastica e costituisce quella che è chiamata la tradizione cristiana, una cornice obbligata per ogni interpretazione cristiana che voglia essere ortodossa. Mi sta bene! Le Sacre Scritture cristiane non possono ignorare il corpus della tradizione che le accompagna. Il Sola Scriptura, piuttosto che un'eresia tipica di un periodo storico di individualismo moderno, è un'impossibilità, perché una Scrittura scritta pressoché venti secoli fa non è sola; strati di polvere l’hanno ricoperta e fasci di luce l’hanno illuminata. Di più, le nostre stesse lenti hanno uno spessore di due mila anni.

Parimenti la tradizione buddista Zen ha prodotto migliaia di libri, e annovera un gran numero di scuole e interpretazioni diverse, caratterizzati da un tocco esistenziale ed esperienziale tutto suo. Così fu detto! Ma quando ciò che fu detto viene udito, allora è questo e quello. Il nostro autore ama dire: Quidquid recipitur ad modum recipientis recipitur (ognuno riceve secondo la capacità che ha di ricevere).

Per la maggior parte del tempo queste due branche della sapienza sono vissute indisturbate, in splendido e placido isolamento vicendevole. Oggi questo non è più possibile. Nessuna religione può ignorare chi le vive accanto. Noi veniamo come rimbalzati l'uno contro l'altro; e ogni coesistenza comporta i suoi problemi!

Quando, quasi mezzo secolo fa, stavo per accingermi a tradurre una parte notevole di Sacre Scritture Hindu, alcuni amici cristiani mi misero sull’avviso che queste non avrebbero dovuto essere usate per la preghiera cristiana. Evidentemente si possono usare i salmi e gli inni anche di origine non-cristiana o pagana; ma mai e poi mai i Veda! Alcuni amici hindu, sull’altro versante, mi fecero osservare che un prete cattolico romano non poteva pretendere di capire i mantra hindu e, strettamente parlando, neppure leggerli, a scapito di profanarli. Conoscere una cosa è entrare dentro quella cosa; per capire una cosa bisogna esserne parte in qualche maniera. Solo così si può sperimentare la sua vera essenza. È certamente corretto affermare che senza fede uno non può capire adeguatamente un testo sacro. Ma la fede non va confusa con credenza. Io ho introdotto anche la nozione di pisteuma nella fenomenologia religiosa, in contrapposizione con il noêma della fenomenologia tradizionale. Pisteuma (da pistis, fede) è ciò che il credente crede; noêma (da nous, mente) è ciò che un osservatore capisce. La fenomenologia religiosa si incarica di descrivere ciò che il credente crede e non quello che l'osservatore osserva. Se l'osservatore, un outsider, si limita a descrive quello che osserva, è certo che non descrive quello che il credente crede.

La risposta che io davo ai miei critici era che i Veda appartengono all’umanità e che la mia ermeneutica (come qualsiasi traduzione) era legittima, a patto che io partecipassi di quello spirito umano che aveva ispirato la sruti, la rivelazione vedica. Sorprendentemente, a lavoro finito, fui riconosciuto da molti pandit come un rsi reincarnato, uno dei saggi che per primi cantarono i Veda. Come avrei potuto altrimenti, dissero, scrivere ciò che avevo scritto? Dico questo, per sottolineare insieme sia la diversa reazione dell’altra cultura, come la sfida teologica del libro di p. Luciano e di Jiso.

Sono perfettamente d’accordo che un testo sacro debba essere maneggiato con rispetto, che una certa disciplina dell’arcano sia giustificata e che un certo tipo di iniziazione sia richiesto per accostare con frutto qualsiasi testo sacro, il che assurge a un atto liturgico. La democrazia è un buon antidoto alla teocrazia, ma ha un effetto collaterale rovinoso se distrugge ogni senso di gerarchia. Non è il mio ruolo qui quello di prescrivere degli antidoti. Dobbiamo rispettare la tradizione; eppure le tradizioni viventi non sono mummie ibernate. Abbiamo bisogno del soffio vitale dello Spirito; e non di stare attaccati a tradizioni senza vita, solo perché esse erano considerate vive in un certo passato (cfr. Mt. 15, 2 ss.; 23, 25 ss. ecc.).

Proprio qui sta la sfida teologica di questo libro. L'autore, un uomo di fede, legge e spiega i Vangeli al di fuori del loro contesto proprio. È ciò appropriato? La proprietà intellettuale dei Vangeli non appartiene forse alla specifica tradizione cristiana? Il contesto storico proprio del periodo temporale in cui essi furono scritti non è essenziale e normativo? Qui sorgono due domande. Una filosofica: i Vangeli sono solo racconti intellettuali e storici? L'altra strettamente teologica: il messaggio evangelico è essenzialmente legato ai figli naturali o a quelli adottivi di Israele o di Abramo, come dir si voglia?

Senza alcun dubbio i Vangeli intendono trasmettere ben più che la semplice informazione storica e intellettuale. Le prime parole pubbliche di Gesù invitavano alla metanoia (conversione), al trascendimento del nous, al superamento dell’intelletto, anche della struttura mentale del ceppo di Abramo. Se a Paolo fu ordinato di andare ai gentili, fu solo per addottrinarli nelle maniere culturali ebraiche o non piuttosto per rendere possibile anche altrove l'Incarnazione della Parola? L’interpretazione spirituale è più che legittima. E dicendo spirituale mi riferisco a quello Spirito che soffia dove, quando e come vuole.

La sfida cui ho fatto cenno all'inizio, deve essere collocata nella situazione nuova del nostro terzo millennio. Dobbiamo conoscere i segni dei tempi. E qui trovo l'importanza di questo libro, insieme con altri studi che cominciano discretamente ad apparire. Mi sia permesso formulare questa precisa domanda: i Vangeli fanno riferimento soltanto alla figura storica di un Uomo chiamato Gesù, oppure parlano fin dall’inizio del Cristo Gesù, che l'arcangelo Gabriele descrisse come Figlio dell’Altissimo e ai pastori fu annunciato come Salvatore, Unto e Signore? Certo, il Cristo risorto era il Gesù storico, ma l’argomento-materia dei Vangeli non è la storia di colui che veniva creduto figlio di Giuseppe, bensì la preistoria e il racconto del Figlio di Dio che cammina come vero Uomo, in una particolare terra e in un determinato tempo. La tendenza moderna per il Gesù storico ha portato in superficie interessanti caratteristiche di quell’ebreo di paese e taumaturgo mediterraneo; ma ha anche distolto specialmente esegeti e studiosi da quello che è il cuore dei Vangeli, senza per questo dover cadere nella superstizione. Alessandro il Grande, Gengis Khan e Napoleone hanno cambiato anche il corso della storia e, come ebbero a dire gli storici contemporanei, la faccia della terra. Di quale terra? Sono i Vangeli solo libri storici?

In altre parole, per ragioni storiche e altri motivazioni che la sociologia della conoscenza ci aiuta a scoprire, la visione del mondo dei primi secoli cristiani era ferma a una nozione geografica e storica assai ridotta dell'oikumene: nessuno oggi oserebbe sostenere che i sei giorni di Mosé erano di ventiquattro ore o che la terra dei Vangeli includesse anche la Patagonia. Eppure, questa sindrome di un solo mondo, che equivaleva al nostro mondo, ha persistito fino ai nostri giorni. Durante i primi secoli cristiani si pensava che l'Impero romano fosse l’intero mondo civilizzato; la formula urbi et orbi, che più tardi divenne la formula usata dal Romano Pontefice, era una abituale espressione latina, che rifletteva la mentalità imperiale: orbis in urbe iacet (il mondo intero giace nella città di Roma), e potrei moltiplicare gli esempi, su su fino a Copernico e alla moderna ideologia globale. Quello che accade per lo spazio, similmente accade col tempo, anche se non è ora il caso di fare disquisizioni sul tempo delle aspettative escatologiche o della risurrezione. Che la rivelazione termini con l'ultimo degli Apostoli è stata una credenza teologica cristiana senz’altro utile, naturalmente, per considerare l’Islam un'eresia e i Bahâ'i in errore. Ma disquisendo così noi restiamo rinchiusi nella cultura del ceppo di Abramo. Come possiamo giustificare queste nostre estrapolazioni? È il tempo escatologico la fine di una temporalità lineare?

Non c’è alcun dubbio che le Sacre Scritture cristiane appartengano al ceppo culturale abramico, innestato sulla cultura ellenica. C’è da dire qui che questa inculturazione o mutua fecondazione tra le culture ebraica ed ellenistica, è un fenomeno precristiano, come testimonia la straordinaria attività interculturale degli autori dei Settanta nell'Alessandria del III secolo prima di Cristo, che ha avuto il suo culmine in Filone, pressappoco contemporaneo di Cristo. Ciò che Filone fece con il giudaismo, divenne modello per i Padri della Chiesa dei primi secoli. Tuttavia sembra che quel movimento creativo si sia fermato lì, a parte alcuni cambiamenti accidentali introdotti dalla cultura europea posteriore. Richiamo questi fatti perché da ben più di mezzo millennio sembra proprio che l’ascolto dei Vangeli debba ridursi ad ascoltare gli echi di periodi passati.

È un fatto che al di fuori dell’area ellenico-semitica, la Bibbia ebraica suoni esotica, estranea e qualche volta incomprensibile, per non dire scandalosa. I Vangeli greci nella loro semplicità sono più congeniali alle altre culture, ma la teologia susseguente, costruita su di loro, è incomprensibile al di fuori degli schemi mediterranei di intelligibilità. Devono forse, gli altri popoli del mondo subire una circoncisione della mente dopo che la circoncisione del corpo fu abolita dal I Concilio di Gerusalemme? Credo in quel sacramento primordiale di Jahve con il suo popolo; ma anche qui non possiamo fare estrapolazioni. Il Giudaismo sta in piedi da solo e non ha bisogno della protezione, meno ancora dell'assorbimento da parte di una religione nuova che la Sinagoga ha rigettato. Ma questo non è il luogo per parlare di pluralismo.

La mia questione non è se i cristiani debbano impiantare dappertutto i semi del Vangelo, benché mi sorga il sospetto che per taluni inculturazione non significhi piantare dei semi (simboli), ma far crescere piante (sistemi concettuali). Nessuna meraviglia che quei semi (semina Verbi) producano pochi frutti, non perché la terra non è buona, ma perché il sottosuolo è diverso. Non tutte le piante possono crescere nello stesso suolo e sotto lo stesso clima. Parlo, invece, di interculturazione, cioè di fecondazione mutua. La mia questione è se le Sacre Scritture cristiane hanno qualcosa da dire, in quanto Scrittura religiosa, a popoli che non sono né figli di Abramo, né nipoti delle culture europee. Dovremmo noi leggere i Vangeli come documenti culturali interessanti o come messaggi religiosi (spirituali)?

La mia questione riguarda l'identità cristiana. Vogliono i cristiani mantenere la propria identità, salvaguardando le differenze (principio di non-contraddizione)? Oppure sottolineando la auto-comprensione (principio di identità)?

Entrambe le risposte, sì o no, sono sensate e del tutto legittime. Per dare una risposta dal versante cristiano, per decenni ho invocato un II Concilio di Gerusalemme, dal momento che io non ho alcuna autorità per decidere del destino della Chiesa cristiana. Questa si trova di fronte a un bivio: deve decidere se la comunità cristiana è il resto di Israele, il piccolo gregge; ovvero se ha il coraggio di seguire l'esempio del I Concilio che ruppe con il giudaismo ed abolì il patto fondazionale di Jahve con il suo popolo (la circoncisione), liberando il Cristo kenotico, simbolo universale di risurrezione, liberazione, realizzazione, salvezza, pienezza, destino della realtà intera. Uso un simbolismo cristiano molto tradizionale: come Maria, la Madre di Dio (theotokos), diede la nascita a Gesù e Gesù fece poi il suo percorso di adulto, allo stesso modo la Chiesa del terzo millennio, quale icona di Maria, partorisce il Cristo che si incarna nei figli dell’Uomo in modi che non spetta a noi determinare o persino prevedere. Potrei insinuare di passaggio che se una Chiesa adulta avesse tagliato il cordone ombelicale con il giudaismo e avesse riconosciuto il valore indipendente della Bibbia, senza pretendere di averne un'interpretazione più autorevole di quella giudaica, l’ondata antisemita non sarebbe mai sorta. L’eredità giudaica del cristianesimo è un dato di fatto innegabile. Per quanto concise e poco elaborate possano essere queste mie note, non sono marginali: mirano a mettere in risalto l'importanza di questo libro e il suo rischio, se mal compreso.

 

* * *

 

Non so se l’autore abbia inteso avventurarsi fin qui; certo è che io trovo in ciò che scrive una profonda empatia con le questioni che ho sollevato. È evidente che del contenuto di una prefazione è responsabile chi la scrive. Tuttavia mi preme sottolineare che la decisiva sfida teologica che fa capolino nell’opera dell’autore è la stessa che qui io ho appena abbozzato. Soltanto di un abbozzo si tratta e niente più, come si addice in questo contesto.

In realtà, l’autore che cosa sta facendo? È una domanda legittima! Non sta forse presentando una figura di Gesù alla luce di una cultura e religione straniera, in modo che sia significativa tanto per il buddista come per il cristiano? Così facendo, i Vangeli, come illuminati da una nuova luce, rivelano aspetti nuovi dell’Uomo Gesù: quindi nuovi significati per i cristiani e contemporaneamente messaggi che parlano anche a quelli che si trovano fuori dei confini della Chiesa visibile.

Ma altri, al contrario, si domandano se l’autore non stia forse travisando l'immagine di Gesù, che dopo tutto non era un guru orientale. Cerca forse, si chiedono, di smussare gli aspetti acuminati della spiritualità Zen, per adattarli a un pubblico occidentale? E se togliendo la polvere dei secoli finisse per buttare via autentici tesori della tradizione cristiana? Serve mai a qualcosa l’eclettismo? Anche queste sono voci da ascoltare!

Uno dei miei critici mi scrisse una volta che al posto di cristianizzare l’induismo, che era quello che avrei dovuto fare, stavo induizzando il cristianesimo, il che era una eresia. Ho gentilmente risposto che il cristianesimo era vivo grazie alle simbiosi operate con la Grecia, Roma, l’Europa, la Modernità e simili. Perché dovremmo fermare il vento, meglio, la brezza dello Spirito? Uno Spirito che fa muovere tutte le cose e che millenni fa ha spazzato via il sogno umano di una sola lingua universale, come riferisce l'episodio della torre di Babele narrato nella Genesi.

I problemi ingigantiscono. Non traviserei forse l'immagine di Napoleone, se ignorassi la storia europea che lo precede e lo assimilassi a Tipu, il Sultano dell’India Meridionale, suo contemporaneo? Entrambi erano grandi guerrieri e personalità straordinarie, entrambi hanno pronunciato frasi memorabili. Ma se li isolassi dai rispettivi mondi storici favorirei la comprensione di questi due capi politici? Il Gesù storico è davvero il giudeo della Palestina occupata di due mila anni fa, così come Hui-neng, il sesto Patriarca, è un’altra figura storica del VII secolo. Detto ciò, ancora ci domandiamo: ma lo Zen e i Vangeli sono solo documenti storici?

L’etnocentrismo ebraico è perfettamente comprensibile. Jahve è il Dio di un popolo, il suo popolo che Egli ha difeso contro i suoi nemici. Ancor più è comprensibile la tragica grandezza di tale popolo che visse nella diaspora, senza armi e spesso senza potere, circondato da gentili non sempre troppo gentili. La sua unica speranza era stata la protezione del suo Dio. L'inizio della Lettera agli Ebrei esemplifica quanto fosse drammatico il dilemma dei primi cristiani ebrei. Non c'è dubbio che secondo la Lettera, i Profeti che Jahve aveva inviato al suo popolo fossero solo ebrei. Immaginare che l'autore della Lettera avesse potuto sognare altri profeti, di altre tradizioni, come ho fatto io, non è storicamente corretto. Ma la Lettera va avanti e parla del Figlio (di Dio) che frantuma i particolarismi degli Ebrei. Questo Figlio è creatore dei mondi, splendore di Dio e substrato di tutte le cose per il potere della sua Parola. Da una parte è scritto che questo Figlio è più grande degli angeli, per cui la sua gloria e potere, non vi è dubbio, non sono limitati ai figli di Israele. Dall’altra si può capire anche l’orgoglio presente in tutta la Lettera, per il fatto che l'apparire storico di quel Figlio – apparizione storica che a sua volta era stata iniziata dalla figura di un non-ebreo, di Melchisedech - sia strettamente connesso al popolo ebreo, nonostante le dure requisitorie dei profeti circa l'infedeltà di quel suo popolo. Jahve avrebbe potuto fare come un padre che castiga i suoi figli. Ma non è corretto utilizzare le dure parole dei profeti ebrei contro il popolo di Israele, per denigrarlo dal di fuori o per difendere l'interpretazione cristiana; così come non è corretto invocare lo scandalo della Croce per difendere gli insegnamenti cristiani, come se lo scandalo non fosse tale anche per i cristiani stessi. È chiaro che non sto parlando della teocrazia secolarizzata del moderno Stato di Israele.

Insomma, la tensione si avverte fin dall'inizio. La Bibbia, come libro religioso appartiene indubbiamente alle tribù di Israele; ma le Sacre Scritture cristiane, fosse anche come semplice libro religioso, non appartengono a nessuno in particolare. Il Cristianesimo non è una religione etnica, e questo è il mio punto. Non era ovvio all'inizio. Che diritto abbiamo di pensare che il messaggio di quell’ebreo trascenda i confini della Giudea e della Galilea? Non si fece forse discepolo di Giovanni il Battista per percorrere il sentiero della conversione del cuore? Ricalco: del cuore. Non fu forse anche lui un giovane rabbino che pensava di essere stato mandato solamente per il popolo di Israele, per cui ci fu bisogno dell’amore di una madre per il suo bambino per frantumare quella sua rigida ortodossia (Mt. 15, 22 ss.)? Non crebbe anche lui in sapienza (Lc. 2, 51)? Non fu forse rigettato dal proprio popolo e crocifisso fuori della Santa Città, come non a caso i cristiani della prima generazione sottolineano? E soprattutto, non dovette risuscitare il terzo giorno? Eppure in Cristo non ci sono né giudei, né greci, né schiavi o liberi, e neppure uomini o donne (Gal. 3, 28). I Vangeli non sono la storia di Gesù, l’ebreo; sono invece i racconti di Gesù, il Cristo, cioè il Risorto.

Il Cristianesimo non è una religione del Libro, bensì della Parola. La parola ha bisogno di essere ascoltata. C'è una certa ironia nel fatto che la divina Provvidenza abbia disposto che noi di fatto non conosciamo una sola frase di Gesù. Tommaso d'Aquino sostiene magnificamente che Gesù non avrebbe dovuto scrivere alcunché, altrimenti il suo messaggio vivente si sarebbe convertito in mera dottrina (Summa teol. III, q., 42, un. 4).

Sto riportando il discorso a quanto ho detto all'inizio. C'è un profondo e, oserei dire, per molti un disturbante problema, già nell’intento stesso di questo libro. È comprensibile che coloro che si sentono investiti della responsabilità di custodire la purezza della dottrina, non si lascino convincere facilmente dalle buone intenzioni di quei teologi che vanno oltre le frontiere stabilite. È una situazione analoga a quella della donna siro-fenicia: le disquisizioni in cui manca l’amore creano confusione, se non danno. Voglio dire che non dobbiamo accostarci al problema dialetticamente, cioè dottrinalmente. Le parole di vita eterna sono concesse gratuitamente a quelli che ne hanno sete vera. Per i dotti e i ricchi è più difficile. Noi non possiamo, naturalmente, né ridurre il cristianesimo a una dottrina, né eliminare dalle Sacre Scritture il loro contenuto mistico, senza con ciò trascurare la stessa dottrina. L’unico messaggio che il Cristo risorto instilla in noi è quello della pace e del non avere paura.

Lo dico in maniera più accademica. Stiamo assistendo alla crisi del mito che ha prevalso in occidente: il mito che una sola cultura sia sufficiente per abbracciare l’intera gamma dell'esperienza umana. In base a tale mito re, imperatori, papi, presidenti, governi ed eserciti, in buona fede, hanno fomentato il progetto di unificazione politica, religiosa o economica del mondo. Un nome passato del progetto è stato colonialismo; ora ha preso altri nomi: globalizzazione, etiche globali, scienza universale e simili. Ora, il mito è in crisi, se non in procinto di crollare.

 

* * *

 

Non pretendo che l’autore insegua queste tematiche, una a una, per risolverle. Tuttavia deve sapere che il suo lavoro è senz’altro importante. Esso rappresenta un passo nuovo nella auto-comprensione cristiana e apre scenari nuovi per un ecumenismo veramente ecumenico per il terzo millennio cristiano. Nonostante le provocazioni di questa mia prefazione, l’autore non si lascia frastornare dalle problematiche, ma continua sereno il suo lavoro. Gli dovremmo essere grati.

 

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Una prefazione non è una introduzione. Di fatto, con queste considerazioni non ho introdotto il lettore al libro; non ho sottolineato le inaspettate ricchezze che l’esegesi ivi contenuta può portare in superficie; né ho sottolineato che senza esperienza personale la lettera uccide. Il lettore scoprirà tutto questo da solo.

Questa mia prefazione in tono teologico voleva solo mettere in rilievo l'importanza teologica della ricerca che ha accompagnato questo libro e gli altri dell’autore. L'idea che vi soggiace è che il messaggio religioso di Cristo non appartiene ad alcun particolare gruppo umano. Quindi lo stesso significato del nostro essere cristiani è sempre aperto a nuovi raggi di luce.

 

 

 

 

 

Zazen come Buddhadharma

 

Un’intervista con Uchiyama Kosho Roshi a cura di Takamine Doyu.

 

Presentazione

di Jiso Forzani

 

 

Il testo che segue è la traduzione dall’inglese, pubblicata sulla rivista The Open Gate edita a Kyoto da Takamine Doyu e Daitsu Tom Wright, del resoconto di un incontro fra Uchiyama Kosho Roshi e Takamine Doyu. Alcuni cenni di presentazione appaiono necessari per chiarire il contesto al lettore.

Uchiyama Kosho Roshi (quest’ultimo è un termine di rispetto che significa anziano maestro) era un monaco buddista zen che ha dedicato la propria vita alla pratica, allo studio e alla trasmissione dell’insegnamento di Buddha. Il suo stile di vita molto sobrio e il suo rapporto molto concreto con il dharma buddista hanno attirato, fin dagli anni settanta, l’attenzione di numerosi giapponesi e occidentali, alcuni dei quali si sono recati nel piccolo monastero di Antaiji, a Kyoto, per condividere con lui la pratica religiosa e per ascoltare la sua esposizione dell’insegnamento buddista. Uchiyama Roshi rifuggiva da qualunque forma di imposizione della propria personalità, tentazione latente del rapporto maestro discepolo che pure è parte non accessoria della via buddista, e proponeva come capisaldi dell’esperienza religiosa una pratica costante e intensa e un rapporto diretto e non settario con lo studio dei testi religiosi. Autore di numerosi libri, ha sempre dedicato un’attenzione instancabile a far sì che la dottrina venisse ascoltata in modo non condizionato da pregiudizi e riconsiderata alla luce della propria effettiva esperienza di vita. Ne deriva un’esposizione semplice in termini di linguaggio e profonda in termini di significato. Dove per semplicità non si intende riduzionismo ma intelligibilità, perché rifugge dalla terminologia tecnica e stereotipata, che spesso è un alibi per celare la mancanza di comprensione di chi la usa; e per profondità non si intende indederminatezza e oscurità, ma spessore e pluralità di livelli, perché così è la vita, che nell’apparente similarità dei casi che produce ha una ricchezza inesauribile che si svela solo vivendola con attenta adesione. Lungi dal voler fare un’apologia della persona, che non sarebbe che un estremo torto, dico però con convinzione che Uchiyama Roshi è stato, per molti di coloro che hanno avuto l’occasione di conoscerlo e di frequentarlo anche solo un po’ come è il mio caso, uno stimolo che continua a operare a non sprecare la propria vita ed anzi ad onorarla fino in fondo. Con questo spirito, di essere veicolo, anche attraverso le parole scritte, dello stesso rispetto verso la totalità dell’esperienza di esistere cui Uchiyama Roshi ha dedicato la sua vita, proponiamo la lettura delle sue parole, nella speranza che il loro vero significato rieccheggi nel cuore di chi legge.

 

N.d.R.

Quanto segue è una traduzione di uno degli ultimi discorsi tenuti da Kosho Uchiyama Kosho. L’autore dell’intervista ha fatto una breve visita ad Uchiyama nella sua residenza di Noke-in, in Giappone, il 6 di Gennaio del 1998. Egli parlò di alcuni aspetti più di tutti essenziali riguardo la pratica dello zazen come Buddhadharma. Il 13 marzo seguente, all’età di 86 anni, Uchiyama morì nella sua casa, poco dopo aver finito la sua poesia Tada Ogamu – Solo inchinarsi. In traduzione italiana è possibile leggere di Uchiyama: Istruzioni a un cuoco zen (un commento al Tenzo Kyokun di Doghen), pubblicato da Ubaldini (Roma, 1986) e La realtà della vita (Bologna, EDB, 1993).

 

Doyu: Roshi, quale deve essere la nostra maggior attenzione per ciò che riguardo lo zazen come Buddhadharma? Per esempio, come dobbiamo considerare il satori?

Roshi: Sedersi in zazen per raggiungere una qualche esperienza tipo satori, è questione di umana voracità. Solo quando andiamo al di là delle ambizioni e degli affanni umani, iniziamo ad indirizzarci verso il buddhadharma. Andando oltre questi appetiti, ci chiediamo naturalmente dov’è che stiamo andando verso… è dentro la profondità della vita. Sedere in zazen significa sedere al cospetto della profondità della vita. Sappi che zazen non è un’attività che si trova nel regno dei valori semplicistici, monodimensionali; cioè i valori di guadagnare anziché di perdere, di vivere anziché di morire. Al contrario, zazen è il fatto di sedersi al cospetto della profondità della propria vita, che è una profondità pluridimensionale.

Lo zazen inteso come insegnamento non è un argomento che concerne gli esseri umani in genere o come categoria particolare. Questo pare essere un punto difficile da comprendere per un molti Europei e Americani, che sono troppo abituati a pensare soltanto in termini di bianco o nero, questo o quello. È solo andando oltre la discriminazione che inizia il discorso dello zazen come buddhadharma. Non è un trasparente criterio di giudizio per decidere fra questo e quello. Praticare zazen come buddhadharma significa stare realmente di fronte alla profondità della tua propria vita.

Doyu: Numerosi stranieri sono venuti nuovamente a sedersi con noi a Seitai-an. So che si siedono con molta serietà, ma è realmente difficile comprendere quello che stai dicendo. É davvero un errore sedersi con qualche proposito in mente?

Roshi: Proprio per questo io dico sempre che zazen non è un tipo di disciplina. Fintantoché tu siedi cercando di disciplinare la tua mente o qualsiasi altra cosa, ci sarà sempre un risultato atteso dalla disciplina, che tu vedi e di cui ti senti bellamente soddisfatto. Invece, fare zazen significa solamente sedersi al cospetto di una profondità insondabile, è un Sé totalmente contenuto, non vi è una scala esterna di misurazione. Sedersi come disciplina, invece, implica l’assunzione di un metro di fronte a sé con cui misurarsi, provando soddisfazione nel vedere quanto sono "progredito" rispetto a prima, o valutando quanto sono avanti rispetto a qualcun altro. Con lo zazen, invece, non c’è metro. Siccome stiamo parlando di un Sé che è completo in sé, ciò di cui parliamo è solamente sedersi. Attualmente, si sente molto parlare di yoga o di concentrazione dell’energia e di come ci faccia star bene o come abbia reso possibile la nostra guarigione da una malattia, ma zazen non ha nulla a che fare neanche con questo .

Doyu: Quindi da come tu lo descrivi zazen appare identico allo shikantaza di Dogen Zenji – semplicemente seduto. Sembra che in Europa o negli Stati Uniti lo Zen sia presentato assieme a queste discipline o terapie il cui stile pare simile allo Zen; per esempio, lo yoga, così che molte persone credono che lo Zen sia solo una sua diramazione.

Roshi: Nell’antichità, i Bramani o altri praticanti l’ascesi facevano zazen; si sedevano nella posizione del loto. Lo fecero molto prima della venuta di Shakyamuni. E anche Shakyamuni si sedette e praticò zazen, ma quando divenne Risvegliato, guardando la stella del mattino, si intende che diventò Risvegliato al fatto che era seduto in sé stesso.

Non è questione del fatto che egli abbia assunto un metro di misura esterno a sé. Quando semplicemente si sedette in sé stesso senza misurare, i suoi occhi si aprirono, e con grande fatica, passò il resto della sua vita a spiegarlo. Questo è ciò che è così difficile.

È una cosa di questo genere: le persone passano tutta la loro vita volendo questo o quello, o cercano di sfuggire da qualcosa di doloroso. Ciò condusse alla spiegazione di Shakyamuni delle quattro nobili verità (la vita è piena di sofferenza, la causa della sofferenza è l’avidità e le passioni cieche, la liberazione dalla sofferenza viene dal recidere l’attaccamento – la base del satori - ) in modo da raggiungere la condizione ideale necessaria a seguire l’Ottuplice Sentiero. Queste quattro verità sono abbreviate in Giapponese come ku (sofferenza), shu (origine), metsu (estinzione), do (via).

Le spiegazioni circa le Quattro Nobili Verità predominano le prime Scritture. Gli Agama Sutra tornano più e più e più volte sulle Quattro Nobili Verità. Alla fine di questi sutra se ne trova uno breve chiamato in giapponese Yugyokyo – Il discorso finale di Buddha. È qui che io credo si trovi l’essenza complessiva del sutra. È il racconto della morte di Shakyamuni Buddha. Questo solo è importante nell’intero sutra.

Doyu: Cioè le ultime parole di Buddha appena prima di morire.

Roshi: Sì, questa è la sola cosa importante che vi è scritta. "Prendi rifugio nel jiko, prendi rifugio nel dharma, prendi rifugio in null’altro". E un’altra espressione che ci urge a non essere negligenti con la nostra vita: fuhoitsu. "Prendi rifugio nel jiko – la nostra identità universale, prendi rifugio nel dharma – l’universale forza vitale". I preti buddisti oggigiorno parlano molto di dharma, ma prova a domandargli di spiegartelo. Pochissimi di loro sono in grado di definirlo chiaramente.

All’inizio dell’Abhidharmakosa troviamo la definizione di dharma. "Poiché tutte le cose conservano un’identità propria, sono chiamate dharma". Qui, identità propria significa jiko o un’identità che tutto abbraccia. Così la definizione di dharma deriva dal fatto di custodire un’identità propria.

Prendere rifugio nel dharma, nel passo citato sopra, significa che il dharma è in te – è la forza vitale vera e propria che è connessa a tutte le cose. Questo è ciò che dharma e jiko significano qui.

Così per Buddha dire, "Con Sé al cospetto di Sé, non essere auto-indulgente", non è qualcosa che produce un effetto. Ciò di cui qui si tratta è il nostro atteggiamento di vita. A mio avviso, Dogen Zenji lo insegna nel modo più diretto. Con le espressioni "pratica al di là della realizzazione" – shojo no shu – e "pratica e realizzazione non differiscono" – shusho ichinyo, Doghen esprime chiaramente l’essenza dell’insegnamento di Shakyamuni. Se così non fosse, e se egli avesse semplicemente parlato di fare zazen per conseguire un’esperienza di qualche tipo di satori, il suo insegnamento non sarebbe diverso da ogni altro discorso ordinario incentrato su perdita o guadagno materiale. Le persone che fondano la loro comprensione della vita sul razionalismo dualistico non lo capiranno mai. La sola cosa che continuerò a dire finché avrò fiato, è che nessuna spiegazione del buddhadharma può mai essere un discorso che tratta di discriminazione e di distinzione. Io penso che pochissime persone lo capiscano.

Doyu: Tu spesso citi i passi della Bibbia dove è detto: "Pentitevi, poiché il Regno dei Cieli è vicino" e "Il regno di Dio è con voi". Il senso di questi passi non è forse simile a quello che stai dicendo?

Roshi: Sì, certamente, il punto in comune è che Gesù non dice che noi stiamo vivendo nel Regno dei Cieli; tu non puoi dire che il Regno dei Cieli è qui. La Bibbia dice, "Il Regno dei Cieli è vicino". Questo è vicino rappresenta qualcosa a cui Gesù dedica, in modo evidente, molta attenzione .

Doyu: Sarebbe corretto dire che il Regno dei Cieli è vicino ha lo stesso significato dell’espressione di Dogen Zenji shikantaza (semplicemente sedere)?

Roshi: Sì, il nostro essere seduto proprio così è identico a il Regno dei Cieli è vicino. Consulta la Bibbia, leggila da cima a fondo. Più di ogni altra cosa, essa riguarda il Regno dei Cieli che è vicino. Queste sono fra le più importanti parole di Gesù, "Il Regno dei Cieli è vicino". Se leggi la Bibbia con l’intenzione di cogliere la sostanza dell’insegnamento di Gesù, leggila con quelle parole nella mente e giungerai a comprendere quanto siano importanti. Esse compaiono anche all’inizio del Vangelo di Marco, appena dopo il digiuno di quaranta giorni nel deserto, nel periodo in cui viveva vicino al fiume Giordano.

Doyu: Sì, ho letto anch’io quel passaggio. Dice proprio che il Regno dei Cieli è vicino.

Roshi: Queste furono le prime parole di Gesù dopo aver interrotto il digiuno appena uscito dal deserto. É il suo primo sermone, l’essenza del suo insegnamento. Se analizziamo questo brano, esso si rivela equivalente al messaggio di Dogen Zenji che la pratica si basa sull’essere fondamentalmente illuminati e sull’identità di pratica ed illuminazione.

Doyu: Quando diciamo che qualcosa si sta avvicinando o (a seconda della diverse traduzioni) che è vicino, ciò sembra implicare un movimento da qui a lì o viceversa. Ma, in questo caso, tu affermi che ciò che veramente significa è un approfondimento o un’intensificazione di jiko – l’identità universale, ovvero nello stabilizzarsi nella vera realtà della vita.

Roshi: "Dio" non è qualcosa unidimensionale, Dio è tutte le cose. Non c’è nulla che non è Dio. Ecco cosa è vicino. Perciò, dire che il Regno dei Cieli è vicino è un altro modo per dire che jiko si stabilizza in jiko ovvero che la nostra identità universale si stabilizza in se stessa. Per definire la nostra identità universale, posso dire che proprio perché io esisto, tutte le cose esistono in me.

Vediamo in che altro modo posso spiegare jiko? Siccome io sono vivo, c’è un mondo che appare dinanzi a me, giusto? Questo vale per te, per lui - per tutti. Ogni singolo essere umano ha il suo proprio mondo che gli sta di fronte. Ogni jiko ha il suo proprio mondo e quando noi cerchiamo di comunicare con qualcun altro, in realtà stiamo solo parlando di questo o di quello usando parole astratte. In realtà, ogni cosa concreta è solo nostra. Con le parole non comunichiamo realmente.

 

(traduzione di Emiliano Ferrari e Jiso Forzani)

 

Il proseguo di questa intervista sulla rivista

 

 


 

 

 

 

Poscritto

di Jiso Forzani

 

 

Quanto segue non vuole essere l’interpretazione corretta di quanto precede. Proponendo questo testo, non intendiamo diffondere una dottrina particolare per cercare di convincere qualcuno della sua bontà e quindi a seguirla. Non si tratta quindi di fare esegesi ed esercizi dialettici che diano al lettore chiavi interpretative convincenti. Ci auguriamo null’altro che fornire strumenti adatti a riflettere su se stessi, sul senso del proprio esistere. Operazione questa che dura una vita, perché inscindibile dalla vita stessa con tutte le sue fasi. Là dove il Roshi afferma che "ci sono molte cose, come le questioni di cui stiamo parlando, che ho iniziato a capire dopo molti, molti anni. Invecchiare è un bene, lo sai, e io mi sento grato per questi anni" si apre uno spazio dinanzi al nostro cammino, che spesso tendiamo a bloccare affermando comprensioni che invece non fanno ancora parte di noi, ma sono prese a prestito da dottrine orecchiate, suggerite da timori che non sappiamo affrontare e da speranze che desideriamo sentir confermate. La profondità di cui si parla nel testo è anche una dimensione prospettica e non solo un’insondabilità abissale o celeste. Essere consapevoli di non arrivare a comprendere fino in fondo non deve essere una resa all’ignoranza che stimola il rifugio in teorie indimostrabili o in superstizioni consolanti, ma un atto di onestà che apre la porta all’ascolto e all’approfondimento. Ogni stagione della vita ha un rapporto specifico con la problematica della vita e il livello di comprensione corrispondente. Per esempio, anche se il problema della morte riguarda tutti e ciascuno individualmente indipendentemente dall’età, perché si può morire e si muore ad ogni età, è evidente che il rapporto con quel problema di un bambino, di un giovane, di un adulto e di un vecchio è molto differente. Quello che si può capire della morte riflettendoci a trent’anni non è quello che si può capire guardandola in faccia a ottanta. Oggi la vecchiaia non è più compresa come l’anticamera della morte, ma come un prolungamento della giovinezza, soltanto con qualche acciacco in più. Questo appiattimento delle età della vita su un’unica stagione apparentemente appetibile (quella del vigore e della salute) lungi dal risolvere il problema del trascorrere del tempo toglie spessore (profondità) alla dimensione dell’esistenza.

L’intervista che abbiamo letto riporta le parole di un vecchio monaco non lontano dalla morte che a sua volta cita le parole di un vecchio antico saggio in procinto di morire. In questa luce, credo si possa dire che "il regno dei cieli è vicino" contenga, fra i suoi significati, anche quello di "la morte è vicina". Questo non significa assolutamente identificare il regno dei cieli con la morte, in un’idolatria dell’estinzione o dell’eterno riposo che attribuisce il valore della vita alla sua fine. Significa invece comprendere la vita (la propria e tutte le vite) in relazione alla vicinanza (ineluttabilità) della morte (propria e di ogni altra esistenza). La profondità è data proprio dal contrasto, che non è contraddizione di poli che si escludono ma relazione inscindibile di alterità non sovrapponibili, fra la realtà della vita e la realtà della morte. Ciò che appare come l’assurdo del non senso è la vera ricchezza (o se preferite la generosa povertà) dell’esistenza. Questa è la vicinanza che ci accompagna sempre, di cui sempre siamo al cospetto. Fare zazen non è altro che stare lì seduti: non c'è nulla da aggiungere, perché ogni aggiunta è comunque inghiottita da questa vicinanza. Così comprendo la profondità di cui parla il Roshi.

In questa luce vedo il problema fondamentale dell’identità. Una delle frasi più importanti del testo dice: "All’inizio dell’Abhidharmakosa troviamo la definizione di dharma. ‘Poiché tutte le cose conservano un’identità propria, sono chiamate dharma’. Qui, identità propria significa jiko o un’identità che tutto abbraccia. Così la definizione di dharma deriva dal fatto di custodire un’identità propria". Il concetto di dharma, che è la base del buddismo, viene assimilato da questo antico testo, che Uchiyama Roshi riprende, alla scoperta della propria vera identità. Cioè, il rivelarsi a me stesso di chi sono è il dharma, la legge costitutiva della vita/morte. O, in altre parole, il dharma non è altro da me stesso, non è una legge che cala su di me dall’esterno o che sorge in me dall’interno, né una norma che io devo applicare al mondo circostante e a me stesso. Ma se così è, allora devo comprendere cos’è questo io, che è il nome che do alla mia identità. Questo io così inteso, non è l’io della contrapposizione io/tu, né l’io di questo particolare momento, né l’io della memoria che collega tutte le mie diverse esperienze, né l’io di un’idea di me proiettata nel tempo e oltre il tempo. Questo io che è dharma (o jiko o identità universale che dir si voglia) è il mio essere qui ora tutto completo in virtù della relazione infinita con tutto che fa sì che ora io qui sia. Per questo abbiamo letto le parole "nessuna spiegazione del buddhadharma può mai essere un discorso che tratta di discriminazione e di distinzione". Di questo fatto io non ho una riprova scientifica, né posso farne una verifica dimostrativa. Mi rendo conto di non essere autogenerato e autosostenuto, so che sono grazie alla relazione di ciò che mi ha fatto nascere, di ciò mi circonda e mi sostiene, l’aria, il nutrimento, il rapporto con gli esseri e le cose che mi costituiscono così come sono… Ma il mio ambito non so se e dove finisce. Non so, perché non posso averne la prova, se e come il battito d’ala di una farfalla a Bogotà è costitutivo della realtà della mia vita. Ma non è questo il punto. Non si tratta di ricostruire la trama infinita delle cause e degli effetti in una visione meccanica dell’interdipendenza. E neppure si tratta di sapere, nel senso di conoscere, di acquisire conoscenza positiva. Si tratta invece, parlando di jiko – identità universale, di sapere (che qui è sinonimo di credere, non nel senso di aderire a un credo fideistico, ma, sapendo di non sapere, di rimanere in ascolto, di aprire le mani del pensiero, come direbbe il Roshi) che la forza vitale che fa vivere me nel mio mondo non è altro dalla forza vitale che fa vivere te nel tuo mondo. Per cui comunicare non vuol dire che io e te viviamo nello stesso mondo, che esiste una visione obbiettiva del mondo su cui dobbiamo concordare, e che scambiandoci le nostre opinioni sui nostri punti di vista del mondo finiremo per metterci d'accordo. Vuol dire invece che siamo comunicati (non distinti, non separati) dal fatto che la forza vitale che fa vivere me con tutta la trama delle mie relazioni non è altro dalla forza vitale che fa vivere te con tutte le tue relazioni.

Questo non è un discorso accademico. Oggi più che mai stiamo verificando che il confronto delle visioni, la dialettica delle ragioni, il riferimento alle idee sono mezzi di comunicazione quanto mai aleatori. Persino chi è consapevole che siamo tutti figli dello stesso Dio, sceglie di adorare non Dio ma il nome che lui gli dà. Ignorando Dio idolatra dio, god, gott, allah, yhwh... e in nome di quel nome si appresta a scannare (per amor di dio, ovviamente) chi crede in un nome differente. Lo stesso vale per concetti e parole quali giustizia, pace, libertà, che oggi la vergogna dovrebbe indurre a non pronunciare.

Non ci scandalizziamo, perciò, sentendo dire che "ognuno sta vivendo nel suo proprio mondo. Ancora, ognuno cerca di comunicare con ognun altro, e ciascuno lo fa con le sue proprie parole. Noi lo chiamiamo "comunicare", però, è in realtà una cosa del tutto diversa". Non è l'affermazione dell'incomunicabilità esistenzialista. È invece l'invito a riconoscere la propria identità (l'identità di ogni cosa) come dharma, cioè "un regno illimitato dove tutte le miriadi di cose sono reciprocamente interconnesse".

Allora prendersi cura del proprio mondo, non essere autoindulgente, è aver cura del mondo. Questa cura, questo rispetto per la propria vita che è la vita del mondo, parte da qui, dal sedersi al cospetto di questa scarna ricchezza, dal trovare in essa e non in orpelli aggiuntivi la motivazione e lo scopo per la propria pratica di ogni giorno.

Desidero concludere con alcuni versi, che traggo da un più lungo poema di Uchiyama Roshi, intitolato La profondità senza limite di vita/morte:

Per coloro che accettano così com'è il paradosso

di aver cara d'istinto la vita

ben sapendo innegabile la verità

che tu devi morire,

non c'è limite alla profondità della vita.

 

 

 


 

 

 

Canzoniere

 

 

 

Proponiamo una poesia di Nazim Hikmet (1902-1963). Oltre che poeta fu autore di teatro, romanziere, saggista e giornalista. Lasciata la nativa Turchia, durante gli anni venti visse in Russia, dove ebbe contatti con le avanguardie e in particolare con Majakovskij. Rientrato in Turchia, nel 1938 fu condannato a tredici anni di prigione per la sua opposizione al regime di Ataturk. Non trovò mai un editore nel suo paese. Soffrì per tutta la vita di cardiopatia e il suo cuore si fermò definitivamente il 3 giugno 1963. Proponiamo la sua ultima poesia dalla traduzione italiana Poesie d’amore (Milano, Mondatori, 1991).

 

Il mio funerale

 

Il mio funerale partirà dal nostro cortile?

Come mi farete scendere giù dal terzo piano?

La bara nell’ascensore non c’entra

e la scala è tanto stretta.

 

Il cortile sarà, forse, pieno di sole, di piccioni

forse nevicherà, i bambini giocheranno strillando

forse sull’asfalto bagnato cadrà della pioggia

e al solito ci saranno i bidoni per l’immondezza.

 

Se mi tiran su nel furgone col viso scoperto, come usa qui,

forse mi cadrà in fronte qualcosa di un piccione, porta fortuna,

che ci sia o no la fanfara, i bambini accoreranno

i bambini sono sempre curiosi dei morti.

 

La finestra della nostra cucina mi seguirà con lo sguardo

il nostro balcone mi accompagnerà col bucato steso.

Sono stato felice in questo cortile, pienamente felice.

Vicini miei del cortile, vi auguro lunga vita, a tutti.

 

 

 

 

Fabula

 

 

A gennaio perché

Mauricio Yushin Marassi

 

 

Il breve racconto che pubblichiamo è apparso sul libro Piccola guida al buddismo zen nel terra del tramonto (Genova, Marietti, 2000).

 

La strada, piena di pozzanghere in cui l'acqua rifletteva il cielo plumbeo quando non era intorbidata agitata dal passaggio dei rari veicoli, terminava all'incrocio con la statale numero sei. Dal lato opposto, pochi metri oltre le ultime case, si perdeva tra le erbe spinose di un terreno ingombro di materiali di risulta, assi da cantiere, una carcassa d'automobile. Un albero di ciliegio, solitario ricordo di un tempo in cui la terra non serviva solo per costruire o appoggiarvi rifiuti, allargava i rami spogli come tentando pudicamente celare lo sfondo di colline trasformate in quartieri senza sole.

In una delle casette ad un piano, separate dalla strada da un giardinetto pieno di erba gialla e di spunzoni anneriti dal fumo delle fabbriche, vi era un movimento insolito di persone, adulti ma anche molti bimbi. Tutti vestiti come la domenica in chiesa; anche i ragazzetti più scalmanati tenevano la testa bassa ed il berretto in mano. Solo qualche rapido sguardo di sbieco tradiva la loro voglia di correre e fare banda.

Medith sedeva sugli scalini freddi in cima al pianerottolo che dal giardino portava in casa. Salutava appena i visitatori che passandogli accanto gli davano chi una carezza sul capo chi una stretta alla spalla. Sentiva un peso doloroso allo stomaco; i pensieri, le sensazioni, i colori del giorno erano incupiti impregnati dalla percezione del dolore, a momenti pulsante a momenti più sfumata. Avrebbe voluto abbracciarsi da solo, essere in grado di dirsi parole tranquille e rassicuranti che lo conducessero fuori dalla gabbia penosa della sua vita.

Ogni tanto gli tornava alla mente il momento in cui ieri, tornando da scuola, aveva visto tutta quella gente che fitta fitta attorno all'ambulanza bloccava il traffico sulla statale. E poi subito sua madre con gli occhi spalancati quasi guardasse ad un futuro che le scompariva davanti, con le mani premute sulla bocca, e la zia Dora che lo abbracciava piangendo e lui a poco a poco capiva che Luca, suo fratello piccolo, era morto.

Medith aveva già conosciuto la rasoiata improvvisa e senza scampo della morte. Tre anni prima, al funerale di suo padre; ricordava come una spina angosciosa la fatica disperata che aveva fatto per cercare di non far entrare dentro di sé la consapevolezza che non lo avrebbe visto mai più.

Ora era diverso, lo feriva il dolore della perdita sapendo che non vi era assolutamente scampo. Ma vi era anche dell'altro. Si sentiva definitivamente tradito dalla vita, dall'esistenza tutta, dal suo essere che mentre anelava la pace e un sorriso in una casa serena lo ripagava con la disperazione della morte che era, già lo vedeva, la morte di tutti. Anche la mamma, anche lui stesso.

Non era più un dolore che schianta, quel dolore che dopo il pianto scompare come il temporale scacciato dai raggi del sole che riprende il suo dominio sul mondo.

La lama fredda della pena che accompagna il cammino dell'uomo ignaro dell'ignoranza era già penetrata a fondo nel suo cuore.

 

 

 

 

 

Voci

 

 

Cammini laicali in dialogo

Cecilia Pallottino e Raffaella Scabelloni

 

 

Nella prima settimana di agosto si è svolto a Galgagnano, in provincia di Lodi, presso la sede dell’associazione "La Stella del Mattino" un seminario rivolto a chi segue le attività promosse dall’associazione, dedicato al ruolo del laico nel cammino religioso. Sono state invitate a portare la propria testimonianza di laici sia persone che seguono il messaggio cristiano, sia chi segue gli insegnamenti buddhisti, accomunate comunque dal riconoscimento dell’importanza del dialogo interreligioso. Al centro c’è stato, più che lo svolgimento di una riflessione strettamente teorica, l’impegno diretto verso un’elaborazione personale di un’esperienza vissuta.

 

Il seminario è stato aperto da Giuliano Burbello, proveniente dalla provincia di Padova, in cui risiede con la moglie e due figli e dove vive il proprio cammino cristiano all’interno della sua comunità parrocchiale e del consiglio pastorale della diocesi. Giuliano ha raccontato la sua provenienza da una famiglia cattolica in cui i primi insegnamenti cristiani sono passati attraverso la realizzazione quotidiana di alcuni atti concreti. In questo senso il cammino religioso è stato sin dall’inizio un’esperienza trasmessa con autenticità da persona a persona. In seguito la sua esperienza religiosa si è sviluppata e approfondita nell’incontro con i Piccoli Fratelli di Spello e attraverso l’importanza crescente che ha assunto nella sua vita, oltre che nella pratica religiosa, il dialogo tra il cristianesimo e il buddhismo zen. In più momenti Giuliano ha rivolto l’invito ad abbandonare ogni immagine precostituita che ci siamo potuti fare della Chiesa, ponendo l’attenzione alla possibilità di vivere un’esperienza della fede in una comunità di persone, condividendo con altri qualcosa di più grande e che dà senso alla vita di ognuno.

Il Vangelo, ricordava Giuliano, è invito a convertirci, a voltarci e guardare da un’altra visuale, un vuotare sé per vedere nuove le cose. Le immagini semplici e poetiche del Vangelo possono far pensare ad una religione dei buoni sentimenti. Ad esempio, diventare come bambini per entrare nel Regno dei Cieli è senz’altro anche un’immagine poetica, ma è la cosa più difficile da realizzare poiché implica il rovesciamento della prospettiva da cui guardiamo la vita. Non vi sono rivelazioni particolari nel Vangelo, ma la richiesta a impegnarsi e guardare la vita ordinaria in modo nuovo. Ai discepoli Gesù dice di diventare il sale della terra: sapore, gusto, gioia sono allora gli ingredienti di un modo nuovo di vivere la vita, affidandosi ad essa prima di cercare di capirla, come fa il bambino. E in questa luce non vi è distinzione tra religioso e laico: il sacerdozio come rapporto tra uomo e dio non ha mediatori, appartiene a tutti e la Chiesa non è un luogo geografico o uno spazio di potere per qualcuno; tutti noi siamo Chiesa.

Della funzione e dei compiti del laico si parla nei testi ufficiali in termini spesso rigidi e onnicomprensivi. Sarebbe necessario un lavoro da parte dei laici per sviluppare una più profonda comprensione spirituale del proprio ruolo. Giuliano menziona Jacques Maritain, cattolico laico, il quale nel suo libro Il contadino della Garonna invita proprio al superamento della distinzione tra religioso e laico, poiché entrambi sono chiamati a riferirsi all’insegnamento e all’esperienza dei mistici e a vivere sulle strade come sconosciuti pellegrini, immersi nella contemplazione del Dio di Gesù di Nazareth. Giuliano termina la sua testimonianza dicendo di aver imparato che non ci si può difendere dalla vita, poiché ognuno è esposto a ciò che succede e il ritirarsi sul monte a pregare può diventare talvolta un modo di schermirsi, con il grave rischio di non vivere.

 

L’intervento successivo è stato quello di Luciano Mazzoni, vice-direttore della rivista interdisciplinare "Un futuro dell’uomo", la quale trae nutrimento dall’insegnamento di Teilhard de Chardin. Luciano vive in provincia di Parma con la famiglia. La sua è stata una testimonianza viva di un cristiano che ha vissuto gli anni del Concilio Vaticano II, con il loro carico di speranze, fervori, ma anche di contrasti e conflitti di una generazione. Una questione nodale del Concilio evidenziata da Luciano è stata la riflessione sul rapporto tra Chiesa e mondo, Chiesa e storia, e di conseguenza sul ruolo del laico nella vita della comunità cristiana. Viene approfondito il concetto di sacerdozio universale dei battezzati, riconoscendo e affidando al laico il compito della consacrazione del mondo. In questo modo non esiste più uno spazio sacro e uno profano, ma in Cristo, morto e risorto, tutto è ricondotto alla santità originaria dell’esistente. Superato il concilio di Trento, la Scrittura è ora di tutti.

Viene ricordata da Luciano una felice espressione di papa Giovanni XXIII che definì il concilio "primavera dello spirito". Tale fu veramente: e siamo ancora agli inizi, al punto che i frutti di quella primavera matureranno ancora per lungo tempo. Ma è stato altresì ricordato che l’ultimo concilio non fu solo un momento di novità nella vita della Chiesa, ma anche un ritorno alle origini, un abbeverarsi alle fonti della Tradizione antica più autentica.

Nella seconda parte dell’intervento Luciano ha aperto una finestra su una figura luminosa e profetica del nostro tempo, anche per quanto concerne il cammino religioso laicale. Ci riferiamo a Teilhard de Chardin. Negli scritti del padre gesuita – per anni avversati perché mal compresi – scienza, teologia, poesia e fede si fondono fino a farsi preghiera, adorazione del Cristo cosmico. Ma anche questo autore, pur così rivoluzionario, ha attinto a piene mani alla Tradizione. Infatti, negli antichi testi dell’oriente cristiano si parla di "liturgia cosmica" per indicare come, nel rito cristiano per eccellenza, l’eucaristia, è coinvolto l’umano e il divino, il mistico e il cosmico, il temporale e l’eterno. E con la lettura di una preghiera di Teilhard si conclude l’intervento di Luciano: "Mi prostro, o Signore, dinnanzi alla tua presenza nell’universo diventato ardente e, sotto le sembianze di tutto ciò che incontrerò, e di tutto ciò che mi accadrà, e di tutto ciò che realizzerò in questo giorno, io Ti desidero e Ti attendo".

 

Il terzo intervento è stato quello di Jiso Forzani, monaco zen della tradizione Soto, sposato con due figli, residente presso Lodi. Jiso inizia ricordando che nella visione buddhista tutto partecipa ad un’unica via. Quindi prima di fare distinzioni tra laico e religioso è fondamentale operare il ‘risveglio del cuore’, vale a dire prendere coscienza che la via è una sola e che dobbiamo orientare la nostra vita alla forma dell’unica via. Allo stesso tempo, ad ognuno di noi spetta anche il compito di contrastare la tendenza a farsi trascinare dalle cose, vivendo invece l’autentico spirito del cammino, per cui ogni cosa che facciamo è, in ultima analisi, frutto della nostra scelta di cui ce ne assumiamo fino in fondo il peso. Inoltre, secondo quel principio che viene espresso dal Vangelo con le parole ‘il Regno non è di questo di mondo’ è necessario operare una cesura perché possa rimanere vivo lo spirito del cammino. E questo spirito, ribadisce Jiso, è possibile mantenerlo vivo tanto all’interno di un monastero che nella vita laica. A questo proposito viene riproposta una suddivisione in quattro categorie di persone operata dal maestro zen Uchiyama: vi sono i monaci che rinunciano al mondo per dedicarsi integralmente al cammino religioso; vi sono anche monaci che per quanto vivano in monastero perseguono obiettivi mondani; vi sono poi laici che manifestano un cuore religioso, così come ci sono laici totalmente presi dagli interessi di questo mondo.

In un testo fondamentale di Doghen, Bendowa-Il cammino religioso, alla domanda se è possibile vivere lo spirito della via rimanendo immersi nel mondo, si risponde che il problema non si pone. Il punto non è l’abbandono delle cose del mondo, ma guardare ad esse con l’ottica della via. Allora, l’immagine dell’abbandono della casa sta a significare qualcosa di più dell’indicazione della scelta monastica, è la prospettiva generale che mette in moto l’atto di conversione, è un ‘lasciare casa’ per ‘tornare a casa’. E in questo contesto la pratica dello zazen, che può essere vissuta talvolta come ostacolo o disturbo rispetto ai diversi impegni che la vita quotidiana pone, la possiamo intendere come tempo intenzionalmente ‘sprecato’ rispetto alle cose del mondo per verificare la freschezza del cammino intrapreso.

 

L’ultima testimonianza è stata quella di Federico Battistutta, che vive con la moglie e due bambini in provincia di Piacenza. A differenza degli altri interventi che in maniere differenti si collocavano all’interno di un’appartenenza forte a una confessione religiosa, in quello di Federico, pur riconoscendo l’importanza di un dialogo costante con il mondo cristiano e con quello buddista, vi è stato l’impegno a situare la propria ricerca religiosa in quel comunissimo camminare che è l’esistenza di ogni essere umano. Cercare se stessi e dunque Dio percorrendo fino in fondo quel cammino che è la vita: è questo che accomuna tutti coloro che cercano. Il punto centrale di questo percorso è la consapevolezza, vissuta nel corpo come nel pensiero, della finitezza della propria esistenza. Vi è allora una sola domanda e questa riguarda il fatto di esistere, il senso della vita. Al riguardo Federico riporta la risposta ad una domanda intorno all’esperienza della propria finitudine fornitagli anni fa da Raimon Panikkar: "Tu cosa sei? La goccia d’acqua o l’acqua della goccia? La goccia d’acqua sparisce, l’acqua della goccia no (…) Maturazione è avere tempo per scoprire che siamo acqua". Ecco un’indicazione per il cammino: prepararsi al congedo da questa identità di goccia, per risvegliarsi al fatto di essere acqua, pur nella condizione paradossale di sentire di essere acqua e goccia.

Allora, se è vero che il cammino religioso non serve per trarre vantaggi personali - l’ambizione, il possesso e tutto ciò che esige la brama - , può solo aiutare a dare senso all’esistenza e a ciò che ci circonda. In una parola: a vivere, a sentirsi radicati con la pienezza della vita, nel bene come nel male, nella scoperta che è la vita che dà senso alla vita. Vivere, dove la religione, non dichiarata, è presente ovunque, come vita concreta che vive semplicemente, in modo discreto e silenzioso; e, proprio per questo, capace di trasmettere un genuino sentimento di radicamento con le viscere della realtà, rivelando che la vita, nella sua essenza non è altro che compiere con attenzione le piccole/grandi cose del vivere quotidiano.

Dunque il cammino dell’uomo religioso ("laico" solo per distinguerlo dal "religioso" ordinato) non è quello della religione come istituzione (più volte Federico ha evocato a questo proposito il nome di Simone Weil) che spesso genera divisioni, bensì quello di una religiosità discreta, sommessa, pudica, ma non per questo meno salda.

 

 

 

Schede

 

 

 

Flannery O’Connor, Tutti i racconti, Milano, Bompiani, 2001

Flannery O’Connor, Il cielo è dei violenti, Torino, Einaudi, 1994

 

 

San Cirillo di Gerusalemme, nell’istruire i catecumeni, scriveva: "Il drago è in agguato sul ciglio della strada e guarda quelli che passano. Attenti che non vi divori. Noi andiamo al Padre delle Anime, ma bisogna passare accanto al drago". Quale forma il drago possa assumere, è questo misterioso trascorrergli davanti, o finirgli tra le fauci, che le storie di qualsiasi profondità terranno sempre a raccontare, e laddove questo avvenga ci vuole un coraggio notevole, in qualsiasi momento, in qualsiasi terra, per non voltare le spalle al narratore. (Flannery O’Connor, Nel territorio del diavolo, tr. it., Roma-Napoli, Theoria,1997)

 

Il cielo è dei violenti è un libro bello e interessante, ma grottesco e inquietante allo stesso tempo. Vi è raccontata la storia di un ragazzo allevato in campagna, lontano da tutto e tutti, da un vecchio prozio visionario ed esaltato, il quale è convinto d’essere un profeta in attesa della fine del mondo e della resurrezione dei morti. Il romanzo si sviluppa a partire dalla morte dello zio e segue una sorta di "percorso di liberazione" del ragazzo che, affrontando ossessioni, fantasmi e crude realtà, in qualche modo cerca di trovare la sua strada.

Scritto da Flannery O’Connor (Georgia, U.S.A. 1925–1964) alla fine degli anni ’50, è stato preceduto da un altro romanzo e da una serie di racconti che recentemente in Italia l’editore Bompiani ha pubblicato raccogliendoli tutti in edizione tascabile.

Poiché mi è capitato di fare l’inverso, consiglio coloro i quali volessero avvicinarsi alla lettura di questa scrittrice americana di incominciare dai racconti. Proprio perché sono presentati in ordine cronologico segnano un percorso nella scrittura della O’Connor che via via diviene più intenso e crudo fino ad arrivare al succitato romanzo. Procedere per gradi, a mio avviso, può essere utile anche per comprendere meglio l’ordine mentale nel quale la scrittrice si muove.

Personalmente ho iniziato a leggere Il cielo è dei violenti senza saperne praticamente nulla e, soprattutto all’inizio, nonostante la splendida scrittura (e quindi l’ottima traduzione), mi sono trovata spiazzata, con il desiderio, sotto sotto, di interrompere la lettura. Ora mi sembra di capire che si trattasse di quel disagio che si prova quando un racconto ti stacca, con grande bravura ma non senza brutalità, dal tranquillo ordine nel quale crediamo di vivere e spalanca la porta su quel che di noi è più inquietante, che nella vita è più inquietante, irrazionale e illogico.

Flannery O’Connor mentre racconta mischia l’orrore alla comicità, il banale al paradossale, in un continuo senza soste che scardina ogni modo convenzionale di guardare il mondo da parte dei suoi personaggi ma anche, di riflesso, dei lettori. Quella che mostra con insistenza, pur nella normalità banale dei fatti raccontati, non è l’azione apparente in superficie, ma quel mistero senza risposte che vi sta sotto. E, secondo la scrittrice, per fare questo non servono il controllo della ragione o il buon senso, ma la perdita di entrambi nello scatenarsi delle passioni umane e della violenza che creano squarci su un vuoto che come tale viene lasciato in risposta.

Nessun racconto e nemmeno il romanzo infatti terminano con una soluzione. Ogni finale è una lacerazione e a me è sembrato che questo sia anche l’obiettivo esistenziale della O’Connor: una lacerazione, anche se dolorosa, è pur sempre un’apertura e, in certo qual modo, quello spazio vuoto alla fine creato è la sua risposta religiosa nel conflitto dell’esistenza.

 

"Dai giorni di Giovanni Battista ad ora, il regno dei cieli è assalito con violenza ( biàzetai) e sono dei violenti (biastài), quelli che se ne impadroniscono" (Matteo, 11,12).

"La legge e i profeti arrivano fino a Giovanni; da allora, è annunciata la buona novella del regno di Dio e ogni uomo lotta (biàzetai) per entrarvi" (Luca, 16,16).

 

Silvia Papi

 

 

 

 

Kobayashi Issa, Haiku scelti, a cura di L. Soletta, Milano, La Vita Felice, 2001

 

 

Luigi Soletta ha curato recentemente la pubblicazione di circa trecento poesie del poeta giapponese Kobayashi Issa (1763-1827), che insieme a Basho (1644-1694) e a Buson (1715-1838), è considerato tra i grandi poeti dell’haiku. Avevamo già avuto modo di leggere le sue poesie in qualche raccolta dedicata a queste brevi composizioni poetiche, ma questo libro ci offre l’opportunità di una migliore conoscenza di questo autore, sia grazie al considerevole numero di haiku tradotti che alla breve ma esauriente introduzione che accompagna tutto il lavoro.

Segnalare l’uscita di questo piccolo volume e raccomandarlo a chi ama questo genere di poesia mi permette di dedicare un pensiero a Luigi Soletta che, come già detto, ne ha curato la pubblicazione.

Soletta è un padre missionario del PIME che ha trascorso gran parte della sua vita in Giappone. Durante questa sua permanenza ha avuto modo di conoscere ed apprezzare la cultura giapponese e da tempo, grazie anche all’ottima padronanza della lingua, si è dedicato alla traduzione di alcuni autori classici di quel paese.

Ricordiamo le raccolte delle poesie di Ryokan e di Saigyo, entrambe pubblicate per le edizioni La Vita Felice, l’Hagakure – conosciuto come il codice segreto dei Samurai – pubblicato dalla AVE e lo Tsurezuregusa di Yoshida Kenko, recentemente pubblicato dalla EMI con il titolo Pensieri nella quiete. Si tratta di opere spesso poco conosciute in occidente che però fanno parte del grande patrimonio culturale del Giappone.

Ma la sua sensibilità lo ha spinto anche oltre la letteratura e la poesia. In Giappone si è avvicinato allo Zen e ne ha approfondito la conoscenza con la pratica costante della meditazione. Un’esperienza che lo ha toccato profondamente fino a portarlo a riconoscere nel buddismo Zen un’autentica Via di cammino religioso e a fare di lui un uomo del dialogo. Però non di quel dialogo "istituzionale" che si prende soprattutto cura dei rapporti di buon vicinato fra chiese diverse ma di quel dialogo che è invece prima di tutto "incontro" nell’intimità del proprio cuore. Là dove tradizioni, percorsi e visioni diverse perdono i loro confini culturali e si riconoscono, nella loro unicità e nella loro autenticità.

In p. Soletta (e in altri come lui) la Via cristiana e la Via dello Zen si incontrano in questo cuore profondo; per questo il suo cammino nel dialogo ha radici molto solide.

 

Qualche altro pensiero vorrei dedicarlo all’haiku, un genere di poesia che negli ultimi anni ha trovato molti estimatori anche nel nostro paese. Ne sono testimoni i numerosi libri pubblicati sull’argomento ed il fatto che in molti hanno cominciato a cimentarsi nella composizione dei classici tre brevi versi, la forma canonica con la quale, fatte salve rare eccezioni, le diciassette sillabe della tradizione giapponese sono da sempre tradotte nelle lingue occidentali.

Per la sua brevità e per la sua apparente semplicità l’haiku sembra prestarsi particolarmente allo scrivere in versi. Poche righe per descrivere una bella luna o una stagione che cambia, giocando sulla ricerca delle parole e sulla loro collocazione all’interno dello schema dei tre versi brevi. Forse l’haiku si porta dietro una specie di "peccato originale" che in qualche modo lo condiziona ancor oggi. Infatti affonda le sue radici in un certo manierismo poetico giapponese che intorno al XVII secolo sviluppò alcune forme di componimenti a catena scritti a più mani, come in un gioco. Ogni partecipante componeva a turno alcuni versi secondo uno schema sillabico fisso, prendendo spunto dalla composizione di chi lo aveva preceduto, in una sorta di catena poetica che poteva durare all’infinito.

In questo mondo poetico giapponese, verso la seconda metà del XVII secolo, si affaccia sulla scena Matsuo Basho: sarà un punto di svolta nella poesia giapponese dell’epoca. Basho cercherà di liberarla dalle preziosità che la appesantivano per renderla ad una bellezza più sobria e pacata.

 

Fu seguace dello Zen che lo ispirò nelle sue opere e nel suo stile di vita. Una vita condotta in semplicità e povertà alla ricerca dell’essenza delle cose. La sua poesia ne è uno specchio fedele. Basho è considerato il padre dell’haiku ed è anche giustamente ritenuto colui che ha saputo rendergli dignità e spessore

In uno dei suoi libri sullo Zen, il filosofo Alan Watts si lascia andare anche a qualche divagazione sull’haiku. Lo definisce "un sasso lanciato nello stagno della mente di chi ascolta", forse per significarne la sua caratteristica di opera aperta. Infatti, come altre espressioni artistiche tipicamente giapponesi, l’haiku tende a rappresentare una realtà ampia in pochi segni piuttosto che tentare di esaurirla racchiudendola in chissà quale discorso. In questo senso poteva essere solo figlio del Giappone e della sua cultura. Come il sasso tirato nell’acqua genera cerchi di onde, allo stesso modo l’haiku genera vibrazioni nel cuore di chi ascolta. Naturalmente in profondità e con ampiezze diverse. Molto dipende da come questo cuore è sintonizzato per ricevere l’eco delle vibrazioni della vita.

Ora, è possibile passare sopra il famoso balzo della rana di Basho e trovare il tutto un po’ monotono:

 

Antico stagno

Un tuffo – una rana

Rumore d’acqua

 

Oppure è possibile vedere, su uno sfondo immobile di silenzio, la vita che si manifesta e cogliere, in un balzo, l’infinito ed il limite, il presente e l’eterno. O altro ancora.

Certamente si possono leggere molte cose, ma è anche necessario guardarsi da ogni ansia interpretativa. Basho stesso diceva che la sua poesia ha lo stesso valore di "una stufa d’estate o di un ventaglio in inverno". Per dire che non c’è nessuna finalità. E quindi che non ci sono per forza significati nascosti o grandi verità da ricercare.

Questa idea di una verità ulteriore, di un valore aggiunto, che per forza "sta sotto" è il vizio antico di una mente complicata che, nella ricerca di altro ancora, non riesce a cogliere tutta la ricchezza presente nella semplicità delle cose. Una realtà questa che non appartiene solo all’arte ed alla poesia.

Anche nella forma dell’haiku non c’è complicazione.

In un suo saggio il semiologo Roland Barthes afferma che: "la sua brevità non è formale. Non è un pensiero ricco ridotto ad una forma breve, ma un evento breve che trova tutt’a un tratto la sua forma esatta".

E nel solco della migliore tradizione Zen, quasi in risposta ad Alan Watts, ribadisce che "la pietra della parola è stata gettata inutilmente, non ci sono né onde né colate di senso". Verrebbe da ripetere con Doghen che "ogni cosa canta la verità senza aggiungere nulla".

L’haiku che sa cogliere direttamente e con immediatezza la realtà ne accompagna bene il canto. Forse per questo lo sentiamo così vicino allo Zen. E non potrebbe essere altrimenti.

Secondo la tradizione il Buddha, sul Picco dell’Avvoltoio, in assoluto silenzio, mostrò semplicemente un fiore a coloro che si erano radunati per ascoltare le sue parole. Nessuno capì, tranne Mahakashapa che, per tutta risposta, sorrise. A lui il Buddha affidò la continuità del suo insegnamento. In questa storia semplice e poetica sono racchiuse le origini dello Zen. Forse anche le radici dell’haiku.

 

Massimo Beggio

 

 

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