La Stella del Mattino

Laboratorio per il dialogo religioso

nuova serie – trimestrale

n. 1 – gennaio/marzo 2002

 

 

Sommario

Presentazione

Jiso Forzani

Impara l’arte…

 

In cammino

Sodo Yokoyama

Sotto il pino

 

Olivier Clément

Poeti e profeti alla luce del Cristo veniente

 

Canzoniere

Kosho Uchiyama

Due poesie

 

 

Voci

Gabriele Levy

Alef, Bet, Ghimel

 

Silvia Papi

Il dito e la luna

 

Alberto Braida

Suono e silenzio

per leggere i testi di "voci" vedere la rivista

 

Schede

a cura di Luciano Mazzocchi e Federico Battistutta

 

 

Redazione: Federico Battistutta, Giuseppe Jiso Forzani (coordinatori), Alberto Braida, Luciana Mida Della Flora e Silvia Papi

Grafica: Gabriella Barbieri

Sede: via Gaffurio 11, 26900 Lodi

Tel. e fax: 0371.424801

E-mail: laequilibrista@libero.it

Sito web: web.tiscalinet.it/stellamattino, a cura di Andrea Zaniboni

Abbonamento ordinario: Euro 15,50

Abbonamento sostenitore: Euro 25,90

Conto corrente postale: 41527219 intestato a Associazione Culturale L’Equi-librista

Stampa: Cooperativa sociale "Eredi Gutenberg", Piacenza

Autorizzazione del Tribunale di Lodi n. 334/02 del 5.4.2002

Direttore responsabile: Federico Battistutta

Proprietà: Associazione Culturale L’Equi-librista

 

 

Arretrati:

 

Opuscolo di gennaio - marzo

Opuscolo di aprile - giugno

Opuscolo di luglio settembre

Opuscolo di ottobre dicembre

 

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Presentazione

 

 

Impara l’arte…

di Jiso Forzani

 

A partire da questo numero, l'insieme di fogli che da qualche tempo pubblichiamo fa un ulteriore passo di emancipazione formale e diviene una rivista a tutti gli effetti, anche quello editoriale. Possiamo così cogliere l'occasione e domandarci una volta di più il senso della nostra volontà di pubblicazione: esercizio sempre utile, quando non sconfini nel narcisismo e non sia un mezzo per celare la vacuità di quel senso.

Laboratorio per il dialogo religioso: così ci è piaciuto definire il lavoro che ci proponiamo di svolgere. Perché non resti solo un modo di dire, il cui significato il tempo consuma, è il caso di esaminare prima di tutto cosa con quel nome vogliamo dire. A volte infatti prende corpo una certa diffidenza verso definizioni del genere, encomiabili nella forma, ma che ben si prestano a fungere da alibi. Oggi il dialogo religioso è di moda, è diventato un optional del senso comune e già questo è legittimo motivo di sospetto: infatti mentre si celebrano convegni, tavole più o meno rotonde, seminari in cui stimati rappresentanti delle varie religioni si incontrano in nome della globalità, del fair play e della libera circolazione delle informazioni, le religioni mostrano il peggio di sé sul palcoscenico del mondo. Un elenco delle brutture commesse in nome della religione o da essa giustificate sarebbe inevitabilmente sommario e opinabile, ma certe aberrazioni sono, come suol dirsi, sotto gli occhi di tutti oltre ogni ragionevole dubbio. Il modo in cui sempre più spesso il "religioso professionista" invade ogni ambito (etica, politica, economia...) sentenziando con argomentazioni apodittiche (facendo cioè riferimento pre-giudiziale a un apriori che trascende la materia in esame e nel contempo determina il giudizio su di essa) e la prosopopea ricattatoria che ne consegue, la rigidità (quando non la ferocia) nel difendere lo status quo e la rendita di posizione invece di stimolare l'apertura alla novità e alla curiosità verso l'inaudito (per cui l'uomo nuovo che la religione rivendica come proprio figlio è già vecchio prima ancora di nascere) giù giù fino ai più squallidi giochi di potere su individui e su intere collettività, fino alle violenze inaudite, agli orrori da incubo: chi sente vivo dentro di sé lo spirito religioso deve per primo riconoscere che le religioni continuano fungere da alibi per i peggiori comportamenti umani. Macchiarsi di una colpa o addirittura compiere un delitto (lieve o aberrante che sia) in nome della propria religione dovrebbe costituire aggravante massima dal punto di vista penale e soprattutto da quello religioso: viene invece considerato attenuante o finanche nobile motivazione da un sentimento religioso perverso che le religioni coscientemente hanno nutrito nei secoli e continuano a nutrire nell'oggi. La responsabilità di questo spettacolo è così generalizzata e la sensibilità al riguardo così ipocrita che sarebbe qui deleterio l'invito al lancio della prima pietra a chi è senza peccato: nessuno si salverebbe dall'immediata fitta sassaiola, convinta com'è, ogni religione, di essere lei l'impeccabile. La litania del pentimento si inscrive, nonostante le apparenze, in quest'ottica: l'onere del peccato infatti è fatto ricadere tutto sull'uomo (o sull'istituzione composta di uomini fallibili) che travisa e mistifica il messaggio intrinsecamente senza errore: un pentimento di tal genere lungi dall'essere occasione di autentica catarsi, diventa il sistema per ristrutturare la facciata senza toccare le fondamenta, preparando il terreno a nuovi e consimili misfatti, come la storia insegna. Ma questo è un lungo discorso, che forse affronteremo un'altra volta.

Subentra dunque una pudica ritrosia a definirsi religiosi, si prova un sano malessere nel presentarsi come religiosi di professione, insorge il sospetto nei confronti dei propri simili, battenti altra bandiera e intenti a un dialogo, che è spesso più occasione di propaganda che spunto di riflessione in primis su di sé.

Stando così le cose, cosa può voler dire per noi "laboratorio per il dialogo religioso"? Oggi lo penso e lo descrivo così: laboratorio è l'attività vitale che mi corrisponde e compete come uomo o donna; dialogo è il rapporto non alienato della mia vita con la vita che è viva non solo in me; religioso è il riconoscimento della mia nullità intesa dentro il sentimento della mia totalità (il nulla che sono irradia dal mio essere il tutto di me). Queste le carte che ho in mano per giocare: chi vuol giocar con me con queste carte (abbiano pure le sue altri simboli, altri numeri e colori da quelli che utilizzo io, anzi ben vengano) è benvenuto al tavolo: giochiamo.

Questi pensieri che mi frullano in mente, sono stimolati anche dalla lettura degli articoli di questo numero della nostra rivista. La maggior parte di essi, infatti, tratta il tema religioso da una prospettiva particolare, che chiamerei dell'outsider: sia nel senso letterale di colui che guarda da fuori (ma c'è un fuori?) sia nel senso di colui che stando dentro si tiene (e è tenuto) in disparte. Impara l'arte e mettila da parte recita un vecchio adagio: ecco una cosa che ben pochi religiosi sanno fare, mentre dovrebbe essere una loro bandiera. L'esibizione di maestria, di padronanza della materia, in campo religioso sconfina quasi automaticamente nel millantato credito: un religioso non può ignorare, infatti, che l'arte a cui si dedica non si impara mai (o non si finisce mai di imparare, che è lo stesso) e che solo scordandola, sciogliendola senza residui nella propria normalità, può sperare di non contaminarla e non usarla per impropri fini.

 

Leggiamo così, tradotta e annotata da Mauricio Yushin Marassi, la testimonianza del monaco buddista zen Yokoyama Kodo, di cui si va perdendo anche il ricordo, cosa che certo non lo disturberebbe affatto: e ci pare soprattutto prezioso il suo richiamo a stare in disparte e a far sfumare le illusioni in sogno (altroché trasformare i sogni in realtà!).

A ponte fra colui che è in disparte (per vocazione e costrizione insieme, ché le due cose non si spaiano) e colui che guarda da fuori (ben sapendo che non è all'esterno, posizione che l'artista rappresenta in modo quasi emblematico) leggiamo l'illuminante breve scritto, su un poetare situato tra i bagliori della parusia da una parte e la bellezza e l’orrore del mondo dall’altra, del filosofo e teologo ortodosso francese Olivier Clément.

La presentazione dell'opera di Gabriele Levy, artista che lavora e plasma le lettere dell'alfabeto ebraico con il bronzo e la terracotta, componendo e scomponendo frasi tratte dalla Torah, ci introduce al rapporto mistico fra la scrittura e il significato, avventura inesauribile della vicenda umana.

Il dito e la luna, a cura di Silvia Papi, racconta attraverso le citazioni di scritti di grandi pittori vissuti agli inizi del secolo scorso (Kandinsky, Gauguin, Van Gogh, Klee, Jawlensky...) la ricerca di dire anche a parole il senso "religioso" dell'opera d'arte, dell'arte come opera dello spirito sulla e nella forma materiale.

Un lavoro analogo svolge Alberto Braida in Suono e silenzio, unendo insieme riflessioni raccolte da musicisti contemporanei (Scelsi, Schoenberg, Lacy, Cage...) e concluse da una bella poesia di Octavio Paz: dove risulta evidente quanto condizionato ed edulcorato sia il nostro orecchio, ammaestrato al conformismo uditivo e del tutto ineducato all'ascolto del suono e del silenzio.

Nella sua analisi del libro Orme del sacro di Umberto Galimberti, Luciano Mazzocchi si confronta a viso aperto, da prete cattolico, con una modalità del pensiero laico contemporaneo assai in voga, non aliena da un certo schematismo ma di cui il pensiero cattolico dovrebbe tener conto se non vuol perdere il treno.

Ascoltiamo a opera di Federico Battistutta, in forma di scheda propedeutica alla lettura di due libri di recente pubblicazione, l'eco del passaggio di due fuori casta del cristianesimo cattolico, voci di resistenza e profezia: Ernesto Buonaiuti "pellegrino senza tetto e senza viatico" coerente interprete di una visione religiosa svincolata da ogni dogmatica, tenace quanto discreto oppositore del regime politico e di quello clericale; Ferdinando Tartaglia, teologo ostracizzato fino alla cancellazione, in quanto portatore di una visione incompatibile con qualunque acquisizione rassicurante. Resistenza e profezia: due esercizi che stimolano da sempre l'accanimento "terapeutico" dell'istituzione religiosa.

Due brevi poesie di Uchiyama Kosho ingentiliscono il tutto: la prima, disarmante e pungente, è un canto di pace; la seconda è un elogio del muro, che ostruendo dischiude.

Buona lettura!



In cammino

 

 

Sotto il pino

Sodo Yokoyama

Accanto alla vecchia pietra

sotto a questo pino la mia pura terra.

Questa mia pura terra sotto il pino: la Pura Terra.

Sodo Yokoyama, il monaco del flauto d’erba

 

Sawaki rōshi, mia guida spirituale per molti anni, parlando di se stesso soleva dire: “Io sono l’essere eternamente illuso. Nessuno è così illuso quanto me. Io ho la palma d’oro dell’illusione. Questo mi è perfettamente chiaro durante zazen."

Che strano fenomeno, lo zazen! Sembra proprio che idee e fantasie di ogni genere, pensieri di poco conto, tutte le illusioni da cui è composta la natura delle persone ordinarie, durante lo zazen abbiano l’irrinunciabile tentazione di nascere ed affiorare. Così pure, di conseguenza, nasce il desiderio di sbarazzarci di questi pensieri: un desiderio imperioso al quale si uniformano i nostri sforzi. Queste sensazioni, queste esperienze mentali non esistono per coloro i quali non praticano zazen.

Come mai, non appena ci sediamo sullo zaffu, raddrizziamo la schiena e ci dedichiamo allo zazen, i pensieri si avvicendano uno dopo l’altro, senza posa? Il motivo, che possiamo comprendere nel fare zazen, risiede nel fatto che ciascuno di noi, principe o mendicante che sia, è una persona ordinaria. La tentazione di allontanare quel tipo di pensieri perché le illusioni interferiscono sconsideratamente con il nostro e l’altrui benessere, è anch’essa una pulsione nata all’interno del nostro zazen. In modo improprio noi chiamiamo Buddha questo zazen che ci guida nel nostro cammino.

Secondo il corretto insegnamento, la semplice consapevolezza di essere degli illusi, consapevolezza che sorge durante la pratica dello zazen, in realtà fa di noi dei risvegliati, dei buddha. E’ lo zazen ad insegnarci che anche noi siamo nella confusione e nell’ignoranza liberandoci, così, dall’inganno. Proprio nel momento in cui pratichiamo zazen ed osserviamo con attenzione tutte le idee, i pensieri che vengono a galla, ci rendiamo conto di quanto siamo ordinari, normali e di come non vi sia nulla di cui essere orgogliosi o di cui vantarci: null’altro da fare che rimanere quietamente lontani dalla ribalta. In definitiva, questo è tutto ciò che siamo.

Il satori consiste nel risvegliarci alla realtà della nostra illusione. Ecco allora, per quanto piccolo, il desiderio di arrestare quei movimenti auto-fuorvianti. Questo è il modo in cui le persone ordinarie vengono salvate dallo zazen. Così, aldilà di ogni dubbio, realizziamo la nostra ordinarietà nella pratica dello zazen ed ogni allontanarsi da zazen, dal Buddha, darà corso all’incapacità di venire a capo delle nostre idee illusorie, perderemo l’orientamento, ci troveremo fuori strada. Possiamo dire che questo mondo è traviato perché non è in grado di occuparsi delle proprie illusioni. Traviarsi, smarrirsi significa trasmigrare nei sei mondi (infernale, degli spiriti insaziabili, animale, degli spiriti combattivi, umano, celeste). Tutti i problemi del mondo (politici, economici ecc.) nascono in situazioni in cui è assente la consapevolezza della nostra ordinarietà .

Sawaki rōshi, mio defunto maestro, soleva dire: “Coloro i quali non sono coscienti della loro ordinarietà, da un punto di vista religioso sono sciocchi in modo addirittura comico."

Il diavolo… cioè illusione, quando è vista/o come diavolo non può più esibire i suoi poteri e scompare spontaneamente.

Shakyamuni si risvegliò, aldilà di ogni dubbio, alla realtà di essere una persona ordinaria: per questo divenne un buddha ed iniziò a vivere la vita di un buddha. Quando realizziamo la nostra ordinarietà siamo un buddha e quando siamo un buddha non importa quante fantasie o pensieri irrilevanti sorgano: non sono comunque un impedimento per un buddha, per cui non costituiscono più un ostacolo. Le illusioni che non ci ostacolano più sono dette sogni. La via del Buddha, la via della pace, è trasformare le fantasie in sogni.

Sebbene nella scuola Zen si insegni l’unità, all’interno di questa unità vi sono molti caratteri (differenze). Zen è la vita universale. E’ anche definito “il volto del Sé originale”. Sawaki rōshi, riguardo al volto del Sé originale, ossia riguardo allo Zen, ha detto: “Non c’è "illusione nel passato" e "illuminazione nel presente". Questo è il volto del proprio sé originale". Il satori, il risveglio, non implica necessariamente l’assenza di illusioni. Questo è il motivo per cui Sawaki rōshi diceva: "Va bene non realizzare l’illuminazione, il risveglio; solamente badate bene a non smarrirvi [nelle illusioni, badate bene a non deviare dallo zazen. N. d. tr.]. Se non correte di qua e di là dietro le illusioni: ecco il volto originario. Rimanete come siete, tutto di voi, siate voi stessi così come siete."

Badare a non smarrirsi è fare dell’illusione un sogno. Non importa quanti pensieri illusori voi abbiate, fintanto che non vi fate catturare. Questo è il motivo per cui nella scuola Zen è detto: "Non c’era illusione nel passato né satori ora." In altre parole, nello zazen non vi è illusione, né risveglio, né persone ordinarie, né Buddha. E’ per questa ragione - sin dal principio non essendoci nello zazen né illusione né risveglio né santi né peccatori - che vi è semplicemente lo star seduti. Poiché non vi era illusione nel passato né illuminazione nel presente, non vi è alcun bisogno di cercare di diventare Buddha e neppure vi è alcun inferno nel quale si possa cadere. Per questo vi sono espressioni categoriche come: "Anche se precipitassi nell’inferno, non importa."

Il patriarca Sekito Kisen espresse in questo modo il senso di "shikantaza" (semplicemente star seduto): "Anche se, per esempio, cadessi nelle tenebre per l’eternità, giuro che non cercherei mai di ottenere la salvezza dei santi."

Vi sono Buddha e inferno nello stare semplicemente seduti? Vi è solo lo star seduti attenti e concentrati. Sekito si è espresso in modo veramente potente. Nell’insegnamento buddista sedersi con questa forza di spirito è detto "retto sforzo". Dōghen descrive questo “retto sforzo” con: “Nove per nove ottantadue.” Normalmente diciamo “nove per nove ottantuno”, tuttavia uno sforzo normale, ovvero uno sforzo distratto o negligente, non è sufficiente per trasformare le illusioni in sogni. Se fin dall’inizio vi applicate in uno sforzo sufficiente a far sì che nove per nove sia ottantadue, non sarete preda dei vostri pensieri, per quanti possano essere.

In un’altra occasione Sekito si espresse in modo più delicato e poetico. Riferendosi allo stesso insegnamento disse: "Il vasto cielo (zazen) non ostacola le bianche nuvole fluttuanti (pensieri illusori)".

A sua volta Dōghen disse: “Tra le fronde dei pini il vento [il flusso dei pensieri, delle convinzioni, delle avversioni. N. d. tr.] fischia invano per le orecchie di un sordo (colui che pratica zazen)”. Sebbene, per le orecchie di un sordo (ottantadue), il vento soffi invano tra i pini, tuttavia continua a soffiare (sebbene le illusioni siano infinite, faccio voto di liberarmi da tutte). Proprio perché in noi mai cessano le illusioni, così pure lo zazen non ha fine. E se noi ci risolviamo, ci impegniamo a praticare zazen non solo in questa vita ma in tutte le innumerevoli vite a venire, allora percepiamo un maestoso sentimento di pace.

Nell’insegnamento buddista pratica ed illuminazione sono un tutt’uno. Una mente che discerne solo tramite la conoscenza non può essere detta illuminata. Vi è un sentiero, un passaggio, per il quale il progredire verrà naturalmente con la continuità della pratica dello zazen.

Nel componimento chiamato Zuimonki, Dōghen non fa menzione di alcun tipo di autoperfezionamento naturale ma dice che attraverso la costanza dello zazen vi sarà un naturale miglioramento.

Vi è un poema che illustra l’insegnamento "pratica e illuminazione sono un tutt’uno":

"Raccogli un poco d’acqua e avrai la luna nelle tue mani.

Giocherella con un fiore e sarai avvolto dalla sua fragranza."

Anche nella pratica del kendō non si insegna ad impegnarsi solo nella vita presente ma, piuttosto, a decidere risolutamente di praticare per tutte le innumerevoli vite future, e questo dona un maestoso sentimento di pace.

Ancora, a proposito di shikantaza, zazen, stare semplicemente seduti:

"Zazen: una persona comune, così com’è, diventando un buddha."

Anche qui si dice che diventiamo un buddha nella misura in cui progrediamo in armonia con noi stessi, sedendoci con energia. Se non fosse così, anche zazen sarebbe una pratica di mortificazione ascetica. Lo zazen di "diventando un buddha" è detto l’insegnamento dello zazen della quiete nella pace.

Praticare nella concentrazione, senza distrazioni è quiete in pace.

Dal momento che zazen è diventare Buddha nelle proprie condizioni ordinarie, così come siete, non è semplicemente il Buddha che è solamente il Buddha. E dal momento che è una persona comune a diventare Buddha, non si tratta solamente di una persona comune, ordinaria. Sebbene sia Buddha non è Buddha. Questo insegnamento è riassunto nell’espressione: non uno, non due. Oppure, più semplicemente, è l’insegnamento del "non due". La via di Buddha è l’insegnamento del non due.

Se parliamo del kendō in termini di buddismo, possiamo dire che il kendō non è per uno né per due. Vi è solo un unico sforzo che è quiete nella pace. Se il kendō non è per uno né per due, per chi (o per che cosa) è? E’ lo stesso per ciò che riguarda lo zazen. Zazen non è né per i buddha né per le persone ordinarie. Per che cosa (o per chi) è lo zazen? Non di meno vi è semplicemente zazen. E’ da questo punto di vista che possiamo comprendere shikantaza, lo zazen che è "star semplicemente seduti". In termini buddisti possiamo dire che anche il kendō è shikankendō: solamente, semplicemente non altro che kendō.

Il mio insegnante soleva dire: "Non risparmiate alcuno sforzo. Di solito, le persone mantengono qualche riserva quando compiono uno sforzo o un’impresa. Se trattenete in questo modo la vostra disponibilità qualsiasi cosa facciate i vostri sforzi saranno di poco conto. Mantenete questo tipo di riserve ogni volta che dite: "Non è giusto, non mi piace, non ce la posso fare".

Quando dite: "Va bene! Ci voglio proprio provare!" ed esercitate lo sforzo necessario affinché "nove per nove ottantadue", non vi è nulla che non possiate fare. Questo è possibile perché noi esseri umani, signori di tutta la creazione, siamo in grado di porre in essere sforzi che sono al di là delle nostre capacità normali. Nei termini dell’insegnamento buddista possiamo dire che il segreto che svela se una persona ha risvegliato dentro di sé la Mente di Buddha è la sua volontà di farlo.

Una sera, nel monastero di Shōrin,

al limitare del bosco coperto di neve

il freddo acuto che penetra nelle ossa, cosa rara tra gli uomini

si tagliò un braccio e raggiunse l’intima essenza.

Solo coloro che sanno, avendo messo da parte il proprio corpo, sono ammessi.

 

Bodhidharma viaggiò dall’India alla Cina. Siccome l’India si trova ad Ovest della Cina, quell’avvenimento è detto: "Il viaggio dall’Ovest". Dopo aver viaggiato dall’Ovest, si stabilì in un’ala del monastero Shōrin. Dove si sedette con il volto verso il muro. Eka Daishi fu il primo a praticare sotto la direzione di Bodhidharma. Bodhidharma fu il primo patriarca cinese e Eka il secondo.

Nevicava la sera in cui, per la prima volta, il secondo patriarca si recò a Shōrin per incontrare Bodhidharma. Non fu ammesso al suo cospetto e tutto quello che poté fare fu starsene in piedi, fuori, nella neve. Si dice che venne la sera e che la neve avesse raggiunto l’altezza del suo petto prima che gli venisse rivolta la parola. In risposta alla replica di Eka che affermava di essere venuto in cerca del Dharma, il fondatore disse: "Non è una questione semplice". Il secondo patriarca che aveva ben compreso ciò, come prova della sua determinazione si tagliò un braccio e lo offrì a Bodhidharma. Il quale disse: "In questo caso…" e lo accettò come discepolo. Questo è il racconto di come il secondo patriarca giunse alla realizzazione del Dharma, del vero insegnamento. Sebbene si dica "si tagliò un braccio" credo si tratti di un’espressione simbolica per "solo coloro che sanno, avendo messo da parte il proprio corpo, sono ammessi ". Mettere da parte il proprio corpo significa mettere in atto uno sforzo al di là delle proprie normali capacità. Dōghen, riferendosi a questo aspetto, dice “gettare via il corpo”, così come nove per nove diventa ottantadue. Nove per nove è ottantuno, ma noi pratichiamo la Via con l’energia che occorre per far sì che sia ottantadue. E’ l’energia che in termini buddisti è chiamata retto sforzo (impegno).

Nel buddismo l’impegno, lo sforzo, non è limitato a questa vita. Comprende la risoluzione di praticare per innumerevoli nascite e morti, per l’eternità. Anch’io devo avere la risolutezza di praticare in questo modo. Se sarò in grado di assumere questa risolutezza, un senso di pace trascendente sarà il risultato. Proprio perché questa mente in pace e il satori, la comprensione, sono uno, sono identici, non è questione di comprendere qualche cosa, di essere illuminati o risvegliati a qualche cosa, piuttosto è richiesta la risolutezza di praticare la Via di Buddha con il giusto impegno – ricavando ottantadue da nove per nove – per l’eternità. Se sarò in grado di vivere con questa saldezza dentro di me, io stesso sarò eterno. Ecco quindi che il satori, la mente e il cuore della pace, è diventare l’eternità: l’eternità universale senza limiti.

Quando nove per nove è ottantuno vi è una restrizione. Ciò che ha restrizioni è limitato (cfr. nota 24). Nel kendō, quando si dice “se raggiungi quel livello sarai al top", ecco questo è kendō limitato. Così pure, se qualcuno si sente soddisfatto perché in un grande torneo è risultato essere il numero uno in Giappone, per quanto questo possa sembrare magnifico, dopo tutto non è che autolimitarsi. Per liberare il kendō dai suoi limiti dobbiamo praticarlo non solo per questa vita ma per l’eternità. Se faremo ciò, il kendō, come il buddismo senza limiti, perderà i propri limiti. Sarà kendō illimitato. Anche un bambino che impugni una spada di bambù per la prima volta sta praticando il kendō privo di limiti.

Poiché zazen è zazen eterno e senza limiti, è così anche per chi si sieda per la prima volta. Non è una pratica limitata ad un periodo che noi decidiamo con noi stessi pensando: "E’ necessario sedersi per tot anni e così farò". L’unico satori veramente effettivo, per così dire, è zazen eterno e senza limiti praticato con costanza ad ogni istante per sempre. Tutti gli altri ottenimenti e tutte le altre apparenze che puzzano di satori non valgono nulla. Quando qualcuno studia il buddismo perché vuole ottenere questo e quello, o vuole diventare così e cosà, stabilisce da sè il proprio recinto. Questo non è il "senza limiti".

Spero sinceramente di essere pronto a compiere lo sforzo necessario e ad avere la risolutezza di praticare la Via del Buddha. Una via in cui bisogna essere pronti a praticare per innumerevoli rinascite e uno sforzo che non si limiti a realizzare che nove per nove è ottantuno ma, piuttosto, a raggiungere l’ottantadue privo di limiti e di restrizioni.

Se volessimo porre una condizione limite a questa pratica, dovrebbe essere la risoluzione di proseguirla per l’eternità. Dal momento che questa è la condizione della pratica del vero zazen, che cosa ne pensa di prendere questa risolutezza come “limite” per la pratica del kendō?

Questo è l’illimitante limite.

Lettera al signor Masanori Yuno, vice presidente della federazione di Kendō di Tōkyō.

Komoro, 28 Febbraio 1977

 

(traduzione e note a cura di M. Yushin Marassi)


per le note vedere la rivista

 

 

 

Poeti e profeti alla luce del Cristo veniente

Olivier Clément

 

Il testo che segue costituisce la parte conclusiva di un breve saggio Il potere crocifisso, del noto filosofo e teologo ortodosso francese Olivier Clément, tradotto nel 1999 per le edizioni Qiqajon della Comunità di Bose, che ringraziamo per aver consentito la pubblicazione.

 

E’ compito del poeta – e attraverso questo indubbiamente egli profetizza – provocare un risveglio. I vecchi asceti dicevano che il più grande dei peccati è l’oblio: quando l’uomo diventa opaco, insensibile, talora indaffarato, talaltra miseramente sensuale; quando diventa incapace di fermarsi un istante nel silenzio, di meravigliarsi, di vacillare davanti all’abisso, per l’orrore o per il giubilo; quando diventa incapace di ribellarsi, di amare, di ammirare, di accogliere lo straordinario negli esseri e nelle cose; quando insomma diventa insensibile alle sollecitazioni segrete, anche se così frequenti, di Dio.

Allora interviene il poeta, e citerò per primo il grande, il tragico Pier Paolo Pasolini:

 

Per me c’è un vuoto nel cosmo

un vuoto nel cosmo

e da là tu canti.

Questo può urlare, un profeta che non ha

la forza di uccidere una mosca – la cui forza

è nella sua degradante diversità.

 

O ancora, in modo più pacificato (apparentemente), Stéphane Mallarmé:

Balbetto, ferito: la Poesia è l’espressione, attraverso il linguaggio umano ricondotto al suo ritmo essenziale, del senso misterioso dell’esistenza. Essa conferisce quindi autenticità al nostro soggiorno sulla terra e costituisce l’unico compito spirituale.

 

Perciò la poesia – più in generale l’arte – ci risveglia. Essa ci cala più in profondità nell’esistenza. Fa di noi degli uomini e non delle macchine. Rende solari le nostre gioie e laceranti le nostre ferite. Ci apre all’angoscia e alla meraviglia.

La poesia profetica di domani, nell’irradiante luce della croce pasquale, non sarà più quella volontà di auto-deificazione, di auto-trasfigurazione, di conquista prometeica del Wonderland (Paese delle meraviglie) che ha segnato l’"alchimia della parola" in occidente dal romanticismo tedesco fino al surrealismo: "Il vero poeta è onnisciente" diceva Novalis, "il filosofo poetico è nelle condizioni di un creatore assoluto…la poesia è il reale assoluto". E Rimbaud: "Svelerò tutti i misteri:…morte, nascita, avvenire, passato, cosmogonie, nulla. Sono maestro in fantasmagorie". E Nietzsche: Da quando l’uomo si è identificato con l’umanità, esso mette in movimento la natura intera…sono io stesso il fato e, dall’eternità, sono io che determino l’esistenza". Ma il mito del Wonderland si è dissolto nelle camere a gas di Hitler, nelle nevi della Siberia dove tanti cadaveri sono stati abbandonati, con una targhetta di legno alla caviglia. Un filosofo tedesco ha potuto dire che dopo Auschwitz non avrebbe potuto più esserci poesia. Eppure ora noi sappiamo che molti scampati alla shoah hanno resistito recitando a se stessi dei poemi, recitandoli ai loro amici: poemi del Wonderland, di tanto in tanto, ma spogliati del prometeismo, restituiti alla loro nostalgia fondamentale. Poemi anche di quei "traghettatori", di quegli stalkers (nel senso che Tarkovskij ha dato a questa parola) tra i bagliori della parusia da una parte e la bellezza e l’orrore del mondo dall’altra. Penso per esempio a Baudelaire, Eliot, Mandel’stam, Pasternak e la Achmatova.

Echi della liturgia in Pasternak:

 

Ma ogni carne dopo mezzanotte

improvvisamente farà silenzio.

La primavera diffonderà la notizia

che dalla prima schiarita

la morte sarà alla mercé

del grande grido di Pasqua.

 

Umiltà dell’ultima rosa in Achmatova:

 

Signore, tu vedi quanto sono stanco

Di risuscitare, di morire e di vivere.

Prendi tutto, ma di questa rosa rossa

Possa sentire ancora la freschezza.

 

In seconda istanza, spero che in futuro si sviluppi una poesia liturgica illuminante che, pur attingendo alla grande tradizione d’oriente e d’occidente quale viene conservata nei monasteri benedettini o esicasti, ricorderà, che Cristo continua a scendere agli inferi e che il nichilismo occidentale, planetario nel prossimo futuro (gli integrismi che pretendono di resistergli in realtà non ne sono che lo specchio), sì, che proprio il nichilismo è certamente oggi l’unico luogo possibile della risurrezione. Una poesia liturgica di questo tipo si staglierà come un’alta montagna dove l’azzurro si condensa nella neve, che fa nascere i ruscelli, i torrenti, le praterie, i frutteti.

Perciò sta nascendo, al di là del Wonderland, al di là anche del sarcasmo e dell’ironia contemporanei, una poetica umile e austera delle cose, delle sostanze, che parte dalla concretezza del loro apparire per scoprirvi la trans-apparizione della Sapienza, quella Sapienza, dice la Bibbia, che continuamente gioca con Dio nella creazione. Ogni cosa contemplata con l’occhio del cuore, si apre allora su orizzonti infiniti. Semplicità così profonda di un Giorgio Mozzanti, ne Il canto della Madre:

 

Oh il vento

sulle foglie degli olivi,

oh la luce dei mattini

terreni –

lo splendore dei tramonti.

 

Poetica delle cose, avvenire dei volti, giacché il mondo, il mondo di Dio e dell’uomo, il mondo di Dio fatto uomo e dell’uomo chiamato a deificarsi, esiste solo nello spazio dell’incontro tra gli sguardi, della comunione tra i volti. L’arte astratta di Kandinskij ha permesso al suo amico Alexei von Jawlensky di accedere al mistero del volto, alle sue strutture segrete, al suo lik, dicono i russi, cioè alla sua potenziale icona (per distinguerlo da licina, che significa maschera):

 

Sentivo il bisogno di trovare una forma per il volto, perché avevo compreso che la grande pittura è possibile solo se si ha un sentimento religioso, e questo potevo esprimerlo solo attraverso il volto umano.

 

Tanti accenni in un Berdjaev, un Athenagoras, più recentemente in Emmanuel Lévinas, annunciano questa poetica dei volti e ogni tanto, anche alla televisione, in mezzo a tante facce, raffinate o bestiali, s’impone un volto di verità, di santità, come Veronica nella scena della passione di Hieronymus Bosch…Allora l’essere profondo dell’uomo si mette in movimento, ogni cosa, ogni persona sembra un miracolo.

Una poesia di questo tipo è profetica. Non che essa indovini o predìca l’avvenire. Nella sua umiltà, nella sua spoliazione, nella sua gloria segreta, essa non decifra l’avvenire, lo rende possibile. Pro-feta significa "colui che parla a favore di". Colui che parla a favore di ciò che è più segreto, più inosservato, più disprezzato, più debole – quel Dio che Elia intuisce non nella tempesta, né nel terremoto, ma in un mormorio "al confine del silenzio" -.

Dobbiamo allora perseverare. Oggi tutto ciò che è essenziale sembra sotterraneo, come la grotta della natività, come la grotta del cuore. Bisogna che lo sia. Bisogna che il Dio della libertà e della gioia s’incontri con l’uomo "postmoderno", che è adulto e nel contempo non accetta di esserlo, che è potente e insieme disperato, nel punto più segreto della sua angoscia e del suo desiderio.

E’ il grido profetico di Dimitrij Karamazov condannato al bagno penale, a lavorare nei sotterranei, anche quelli dell’anima, condannato per un crimine che ha consumato senza commetterlo, come tutti noi:

 

Se si scaccia Dio dalla terra, lo incontreremo sotto la terra…Allora noi, gli uomini sotterranei, intoneremo nelle viscere della terra un inno tragico al Dio della gioia. Viva Dio e la sua gioia! Io lo amo!

(traduzione di Laura Marino)

 

 

Canzoniere

 

 

 

 

Due poesie

Kosho Uchiyama

 

Proponiamo la prima poesia di Uchiyama Kosho perché adatta ai nostri giorni agitati da venti di guerra: può essere usata come specchio a una certa chiassosa categoria di pacifisti. La pace non può avere come fondamento che se stessa, non può basarsi su tesi preconcette, dipendere da stati emotivi, aver bisogno di dialettico argomentare: servono la pace le persone pacifiche, non i pacifisti agitati. Si vis pacem para pacem, come dicevano gli antichi (o no?).

La seconda è un piccolo inno allo zazen, un delicato omaggio alla più nobile delle arti: lo stare seduti.

Entrambe le poesie sono tratte dal volume Inoci no uta (Il canto della vita) una raccolta di poesie di Uchiyama, curata da Kobayashi Daiji, apparsa nel 1993 per conto della casa editrice Ryugensha di Tokyo.

 

 

Sekai heiwa

 

Kantan na koto desu

hitori hitori ga

heiwa na ningen ni nareba

sekai wa

heiwa ni narimasu.

 

Pace nel mondo

 

É cosa semplice:

uno per uno

ognuno in pace diventando

il mondo tutto intero

pace diviene.

 

Menpeki

 

Kagami niwa

karada shika

utsuranai noni

kabeni mukauto

inociga mieru

 

Faccia al muro

 

In uno specchio

il corpo soltanto

si riflette

mentre di fronte a un muro

veder si può la vita

 

 

 

 

 

(Traduzione di Jiso Forzani)

 

 

 

Schede

 

 

 

 

Umberto Galimberti, Orme del sacro, Milano, Feltrinelli, 2000.

 

1. In una conversazione telefonica dell’autunno scorso, Umberto Galimberti, professore di filosofia all’Università di Venezia e noto critico del quotidiano "La Repubblica", mi aveva notificato la sua intenzione di recensire sullo stesso giornale i due volumi de Il Vangelo secondo Giovanni e lo Zen; promessa di cui tuttora attendo l’adempimento. Stimolato anche da questo breve contatto, con lena mi sono accinto alla lettura del suo libro, Orme del sacro, di cui vari quotidiani e riviste avevano parlato abbondantemente. È impossibile riassumere in poche frasi i messaggi di cui tratta, anche per la sua particolare struttura. Infatti il libro è formato dagli articoli scritti dall’autore nell’arco degli anni novanta, e pubblicati su "Il Sole 24 ore" e su "Repubblica". Ogni articolo di giornale, quindi ogni capitolo del libro, intende trattare un argomento in modo piuttosto esaustivo, affinché anche il lettore sporadico del giornale ne cogliesse il senso. Per lo stesso motivo i messaggi dei capitoli che si susseguono nel libro appaiono fra loro più delle coordinate che delle subordinate a un tema unico. Ciò snellisce la comprensione e la lettura; ma rende ardua l’impresa di fare una sintesi dell’intero contenuto. Tenendo presente questo e in accordo con l’argomento predominante in questo numero di "La stella del mattino", intendo soffermarmi sulla IV parte del libro, dedicata ad Arte, musica e danza: le ultime tracce del sacro. Mi auguro di avere in seguito nuove occasioni per scrivere ulteriori riflessioni sulle altre parti di questo libro, che ritengo molto valido, seppure non condivida tutto quanto vi è affermato. Infatti, a volte mi sembra che Galimberti tratti l’Occidente o la Chiesa secondo categorie troppo categoriche. Afferma ripetutamente che il Cristianesimo cattolico, con la sua visione escatologica, ossia con quel vedere tutto in funzione di una meta da raggiungere, ha dotato l’Occidente della visione storica della realtà. Ma già Erodoto aveva scritto la storia della Grecia e delle guerre persiane; già Cesare, Livio e Tacito avevano scritto la storia di Roma; già Virgilio aveva interpretato la pace di Augusto come il punto d’arrivo di un evolversi e di un progredire graduale verso quella meta fin dalla distruzione di Troia, introducendo anche il mito nel processo storico. Ugualmente alcune affermazioni di Galimberti sulla desacralizzazione operata dal Cattolicesimo sembrano drastiche, o almeno troppo drastiche. È pur vero che la Chiesa cattolica ha conservato non pochi valori che non appartengono alla sfera della ragione, ma del mistero; non ultimo il valore del celibato e della verginità come via ordinaria di santità, e il ministero del sacerdote che nel chiaroscuro del confessionale ascolta l’aspetto opaco dei fedeli, i peccati, per riversarvi sopra la grazia del perdono. Endo Shusaku, uno dei più noti scrittori giapponesi del secolo scorso, cattolico, riconosce nella grata che separa e unisce il penitente e il confessore il velo sacro che unisce e separa Dio e l’uomo, senza corrompere il volto di Dio né accecare l’occhio dell’uomo.

È comunque un libro che ha turbato fortemente il modo scontato con cui sono solito guardare il mio Cristianesimo e la chiesa di cui sono prete. Mi auguro che anche altri preti lo leggano: infatti ci vuole molta onestà per stare in ascolto di chi ci critica così radicalmente. Per fortuna Galimberti sa scrivere il suo pensiero con molta limpidezza, senza passionalità; e ciò dovrebbe favorirne la lettura! In particolare la parte V, dal titolo Fede e ragione: una controversia priva di sacralità, sferra una serie di critiche acute agli atteggiamenti di questo mondo della Chiesa moderna, protesa a fare da padrona sulla storia e sui suoi problemi, tradendo il sacro per adottare l’intelligenza del mondo, i suoi schemi, le sue strategie. "E così il Dio dei cristiani è divenuto il risultato di mille dimostrazioni e controdimostrazioni, come se il volto di Dio fosse più affine al tratto dei geometri che al vissuto dell’anima, dove paure abissali, angosce, depressioni, incubi, patiti in radicale solitudine, mal si accordano con la natura spassionata del geometrico ragionare." (p. 201) Mi sovviene della proposizione che fu inserita nella seconda edizione del Catechismo della Chiesa cattolica circa la pena capitale. Vi fu inserito che qualora una società civile non abbia altri modi per difendersi, può ricorrere alla pena di morte. Un inserimento di vera profanazione del Vangelo! Infatti il Vangelo comanda di perdonare sempre, di essere misericordiosi come il Padre che è nei cieli! Coma mai la Chiesa ha innaffiato il Vangelo, richiudendolo dentro il limite della storia della civiltà dell’uomo? Un Vangelo che funziona soltanto in quanto è accettato dal mondo? Ciò dissacra il Vangelo, il quale invece comanda il perdono incondizionato, anche se l’uomo non riesce ad attuarlo subito, completamente. Ma non si può ridurre il cielo all’orizzonte degli occhi dell’uomo!

In questo libro il vocabolo ‘religione’ per lo più è riferito al Cristianesimo nella sua versione di Chiesa cattolica, come si addice per il pubblico italiano. Tuttavia non mancano riferimenti al Cristianesimo protestante o ortodosso, e nemmeno alle religioni non cristiane, fra cui l’Islam e l’Ebraismo. Striminzito invece è il breve capitolo dedicato al Buddismo, dal titolo: Il Buddhismo e l’incontaminato fiore del loto. L’autore non si dimostra profondo conoscitore delle religioni che provengono dall’Oriente, almeno nel contesto di questo libro. Anche verso il Buddhismo di versione italiana od occidentale ha le sue critiche. "Il Buddismo allora come rifugio per tutti i delusi della storia? No, o per lo meno non solo. C’è qualcosa di più, che per strano che possa sembrare, rende affine il Buddismo alla tecnica. La tecnica, congedatasi dalla storia che è un cammino fornito di senso, dispiega un universo di mezzi che non ha in vista alcun scopo e tanto meno un senso, e per ciò può incontrare il Buddhismo che non ha mai cercato il senso nella storia… Ma qui, con tutto rispetto, vorrei avvertire il Dalai Lama e i suoi seguaci che la tecnica non ha alcuna difficoltà ad accogliere il Buddismo che dispensa agli uomini che lo chiedono briciole di senso in un orizzonte desertico, perché se il reperimento di senso è un ‘mezzo’ per vivere, la tecnica, come universo di mezzi, può benissimo recepire anche il Buddhismo e la ricerca di senso che esso promuove, purché il ‘senso’ assurga a sua volta al rango di ‘mezzo’ per vivere. Sarà dunque la tecnica ad inghiottire il Buddhismo e non viceversa, anche se i delusi dell’età della tecnica che si affidano al Buddhismo non lo sanno" (p. 218).

 

2. Il sacro è compreso da Galimberti come il vigore dell’essere nella sua integrità, in cui interagiscono aspetti positivi e negativi, sempre correlati, sempre compresenti. È la manifestazione dell’essere, prima che l’uomo ne abbia fatto una cernita secondo i suoi gusti, catalogando alcuni aspetti come buoni e altri come cattivi, certe forze come divine e altre come diaboliche. Il sacro è l’ambiente di Dio nella realtà. L’autore cita Eraclito: "Il dio è giorno e notte, inverno e estate. Guerra e pace, sazietà e fame, e muta come il fuoco quando si mischia ai profumi odorosi, prendendo di volta in volta il loro aroma. L’uomo ritiene giusta una cosa e ingiusta l’altra, per dio tutto è bello, buono e giusto" (p.13). Il sacro, in un certo senso, è Dio prima che la religione vi abbia messo addosso le mani. Il sacro è la qualità del mistero, come la profondità insondabile all’occhio umano è la qualità dell’oceano e come il nascondimento delle fondamenta di una casa è la qualità propria delle fondamenta. La mitologia greca e la religione biblica sono state ricche di simbologia sacra. Dio ordina ad Abramo di immolare suo figlio Isacco, perché Dio è oltre la legge morale di non uccidere. Dio innalza e abbassa! Dove eri tu quando io mettevo le basi della terra? Dimmelo, se hai tanta scienza (Gb 38,4), risponde Dio a Giobbe che lo interroga sul perché del suo destino di sofferenza. Tu non potrai vedere la mia faccia, perché l’uomo non può vedermi e sopravvivere (Es 33,20), disse Dio a Mosè.

Nelle religioni diffuse in Occidente la via per accedere all’ambiente sacro e per influire su di esso in favore degli uomini è il sacrificio. Il sangue della vittima ha il potere di purificare lo stesso vigore del sacro affinché sia benefico verso l’uomo. Ma anche l’Oriente ha sempre riconosciuto che la realtà è avvolta dal velo di Maia che impedisce agli uomini di vedere la sostanza delle cose. Ciò che l’uomo vede è contraddittorio, ma il fondamento della realtà che il velo di Maia copre è incontaminato. Perfino l’inevitabile profanazione che incombe nella vita di ogni uomo diviene via di illuminazione, come insegna Eihei Doghen: "Perché si conosce, proprio per questo c’è l’esserci ineluttabile della conseguente profanazione. Sappi: questa conseguente profanazione copre e custodisce lo sforzo di ogni giorno verso il completo risveglio. Questo esprime chiaramente cosa sia far entrare con forza. Lo sforzo di ogni giorno verso il completo risveglio, quando è coperto e custodito in modo appropriato, copre e custodisce anche in me, copre e custodisce anche nell’altro. Pur stando così le cose, non dire che d’ora in poi non puoi rifuggire dal profanare: o uomo, che vai avanti all’asino, che corri dietro al cavallo!" (Bussho-La natura autentica).

Galimberti non sfiora l’esperienza del mondo orientale lungo la via del sacro. Eppure pare essere la versione sapienziale di quella che in Occidente fu la versione rituale per comunicare con il sacro:garantirsi il bene e prevenirsi dal male.

Il Cristianesimo è, dice Galimberti, il responsabile della desacralizzazione che si è attuata in questi ultimi secoli. "Atto fondativo del Cristianesimo è l’incarnazione di Dio. Dio si congeda dal sacro per farsi mondo. Sottrae il tempo al ritmo della natura, che lo scandisce come ciclo della generazione, della crescita e della morte, per fornirgli un senso: il senso della redenzione che, per il popolo d’Israele, è un’attesa del futuro, mentre per il cristiano è una tensione tra il presente e il futuro… Il tempo che intercorre tra la salvezza garantita da Cristo e la sua compiuta attuazione non è un tempo vuoto in cui non accade nulla, ma è il tempo decisivo della prova in cui si discrimina il bene dal male, in cui l’appello di Dio misura la risposta dell’uomo. Conferendo un senso al tempo, il Cristianesimo lo sottrae all’insignificanza del suo fluire, e lo istituisce come storia" (p. 22).

Il tempo sacro è senza inizio né fine: è ciclico! Quindi è l’ambiente della danza, in cui il movimento si snoda ripetendosi senza alcuna preoccupazione di raggiungere un dato risultato. Mentre il tempo lineare e progressivo, scandito dal Cristianesimo, non ha più intervalli in cui perdere tempo roteando su di sé e attorno a sé. Nel Cristianesimo non è più permesso fare il folle, consumando energie fuori dalla rigorosa norma dell’efficienza della salvezza. Ma proprio questa coercizione è un tunnel senza uscita. L’imperativo dell’efficienza prima o poi espelle anche Dio, come intralcio; e, al suo posto, incorona la tecnica con tutta la sua corte. "Caduta l’immutabilità dell’ordine naturale con l’avvento della religione giudaico-cristiana, che pensa la natura come l’effetto di una volontà divina, caduto Dio con l’avvento dell’umanesimo, che ha trasferito alla volontà dell’uomo le prerogative della volontà di Dio, ora è l’uomo a soccombere sotto l’egemonia della tecnica, che non riconosce come suo limite né la natura, né Dio, né l’uomo, ma solo lo stato dei risultati raggiunti" (p. 30).

 

3. L’autore dedica la IV parte ad Arte, musica e danza: le ultime tracce del sacro. E’ questa, forse, la parte più bella del libro; del resto così conviene appunto perché tratta proprio della bellezza nella sua manifestazione come arte visiva dell’immagine, bellezza sonora della musica e bellezza fisica della danza. Inizia questa trattazione ricordando il crollo di una parete della basilica di San Francesco in Assisi in seguito al terremoto del 1997, che causò la perdita di alcune vite umane e di alcuni affreschi di Giotto. Davanti all’accaduto il cardinal Tonini disse che l’uomo vale cento basiliche, mentre l’inviato televisivo parlò di una perdita artistica che vale di più delle vite umane. Galimberti afferma che ambedue i commenti, oltre che essere inutili, furono anche errati. Infatti l’uomo e l’arte si appartengono reciprocamente: insieme sono e insieme muoiono. "L’uomo non ha nessun valore se non riesce a esprimere nulla che trascenda la sua vita biologica. Ma anche l’arte non ha nessun valore se non riflette l’oltrepassamento dell’uomo, il suo superamento della condizione animale"(p. 139).

Nell’ottavo secolo l’arte sacra era stata minacciata dalla politica iconoclastica dell’imperatore bizantino Leone III, il quale, proibendo le icone, credeva di assoggettare l’influente mondo monastico dove queste venivano dipinte e vendute ai fedeli. Ma il Concilio di Nicea ripristinò l’immagine sacra, adducendo come motivo teologico il fatto che Dio si è incarnato e si è reso visibile. Nei secoli la rappresentazione visiva del sacro nel mondo cristiano mediterraneo raggiunse punte di altissimo valore, sia nel Medioevo come nel Rinascimento. "Non si entra nella verità se non attraverso l’amore" (Ef 4,15) scrive Paolo.

"Oggi sembra che la religione abbia dimenticato questo suo specifico e, divisi i ruoli, difenda con le argomentazioni dei teologi le posizioni della fede, lasciando alle pratiche dei pastori la gestione del regime degli affetti, mentre è proprio nell’intersezione del sapere e dell’affetto originario dell’evento religioso, nato dalla fragilità della coscienza che, di fronte all’indecifrabilità del sacro, non sa, ma, con timore e insieme con fascinazione, guarda e chiede" (p. 146). A comprova di queste affermazioni di Galimberti si può addurre una delle più belle e religiosamente artistiche esperienze della Chiesa: la vita e l’attività monastica. Benedetto aveva posto a fondamento della comunità monastica il principio: Ora et labora – prega (contempla) e lavora (metti in atto ciò che hai pregato). Nel silenzio della meditazione notturna il monaco delinea nel suo spirito l’aspetto della realtà trasfigurata dal Vangelo. Quindi con il canto corale dà voce all’immagine delineata nel silenzio, come i rami del ciliegio, risvegliati dal sole di primavera, danno la forma del fiore alla sua rigogliosità. Così il monaco, terminata la preghiera, esce nel campo e fa maturare il fiore della preghiera nel frutto delle opere: la bonifica delle terre, la trascrizione dei manoscritti antichi, la preparazione delle medicine, la costruzione del monastero dove al centro sorgono gli spazi comunitari, fra cui la grande aula capitolare, e attorno le celle dei monaci; comunitario e privato comunicanti attraverso il chiostro. Anche nel mondo buddhista il tempio è chiamato il corpo del Buddha.

 

4. Galimberti definisce la musica "l’utopia di noi stessi", nel senso che è il luogo – topos – non localizzabile di noi stessi. "Questa lontananza, che nessun progetto raggiunge, perché è puro suono del sentimento, viene avvistata dalla musica che, a differenza della parola che riempie, vive del pathos della mancanza, e perciò nasce, nella sua prima espressione, come lamento in cui si cerca di rendere intimamente presente ciò che si è fatto lontano… Ma il tratto utopico della musica è nel suo essere ascolto, anzi autoascolto, quindi dimensione spirituale privilegiata rispetto all’occhio, che, limitandosi a circoscrivere il visibile, non oltrepassa mai il presente e tantomeno raggiunge quel lontano, che è la profondità del nostro intimo" (p. 148-149).

Segue una interessante intervista che l’autore fece al maestro Riccardo Muti, dalle cui risposte traggo le proposizioni che seguono:

Il desiderio di armonia è insito nell’uomo. Il dissidio, la dissonanza sono godimento solo se hanno in vista la consonanza, come le acque del fiume quando si distendono e trovano pace nel mare. La dissonanza riproduce l’inquietudine dell’uomo, il tormento che gli deriva dai limiti della sua condizione… la nostra anima non godrebbe neppure dello stridore della dissonanza se già non fosse in attesa della consonanza sottesa al dissidio dei suoni…

La musica è la grazia dell’universo, il dono che le sfere dell’universo concedono agli uomini e anche agli animali… Quando i rinascimentali parlavano di corrispondenza tra microcosmo e macrocosmo non pensavano in termini spaziali, ma musicali, perché non è la geometria a creare corrispondenze, ma quella pulsazione cosmica che diventa pulsazione dell’anima…

Galimberti dedica il capitolo 26 a La musica profana e la reiterata cadenza del ritmo. Dopo aver lamentato come la musica sacra nella Chiesa cattolica si sia ridotta a strumento liturgico, adottando la linearità discorsiva e perdendo il pathos dell’ineffabile, si domanda che senso abbia la tendenza giovanile al rock. "I giovani tendono nel tentativo disperato di rifondare un tempo, che non sia solo "progetto" e "sguardo sul futuro", in cui è completamente asfitticamente rinchiusa la nostra cultura, ma quel tempo originario che ha nel corpo il suo semplice ritmo di cui la musica, e in particolare la musica rock, è la più gelosa custode…. Quel ritmo è… il ritmo del nostro respiro, il ritmo del battito del nostro cuore, il ritmo sonno e veglia, il ritmo sazietà e fame, il ritmo del coito, il ritmo che nella vita uterina scandisce la prima figura del tempo. L’incanto del ritmo nella sua eterna ripetizione non è un modello teorico, ma piuttosto una sfida a vivere fuori dal disegno tracciato dall’idea del progresso all’infinito… In questa operazione regressiva, dove nella regressione c’è anche il valore positivo di una rifondazione del mondo" (p. 156-157).

L’autore riconosce anche nel fenomeno della discoteca un’orma del sacro, un’orma che indica una traccia di ritorno all’eterna ciclicità del reale, in cui progredire non è superare le tappe lasciando la distanza percorsa dietro le spalle, ma piuttosto far ritorno agli stessi gesti primordiali e ripeterli. Forse, in questo fenomeno, il ruolo delle religioni può essere quello di educare a ripetere sempre in un nuovo slancio vitale, come l’albero ogni primavera ripete la fioritura senza trascinarsi dietro nulla di quella dell’anno precedente. Ripetere sempre con energia nuova! Non è forse questa la gratuità?

5. Le domande che si susseguono nel libro, una dopo l’altra, vanno a colpire il substrato culturale del Cristianesimo occidentale a un livello profondo, e lo incrinano. Lo incrinano, perché, come i vetri, ha una zona facilmente incrinabile, anche se a prima vista tutto sembra compatto. Una incrinatura che da tempo percepisco e che riempie le mie giornate di incertezza da una parte, e di speranza dall’altra. Anzitutto mi affiora il dubbio che la Chiesa cattolica non corrisponda sostanzialmente all’atmosfera evangelica; ma che in essa coesista una forzatura operata proprio dalla sua tendenza vanitosa di competere con il mondo, il dominio sulla ragione, sul progresso, sulla morale, sulla storia. L’apparato istituzionale che s’aggira attorno al vescovo di Roma ne è il segno più vistoso. Una Chiesa quindi appesantita proprio dalla sua presunzione di essere attraente; mentre la realtà dell’uomo rimane intimamente segnata dalla contraddizione. Chi si immaginerebbe che sotto i titoloni e le vesti sgargianti che indossano i papi e i cardinali permanga una povera umanità come la mia, come quella di ogni uomo, attraversata dal dubbio, tentata dalla debolezza, sempre allo stato incipiente di chi, giorno dopo giorno, deve tentare una nuova ricerca, un nuovo cammino di conversione? Leggendo i documenti dei papi che pretendono di mettere a posto una volta per sempre l’arduo conflitto fra ragione e fede con principi chiari e distinti, uno potrebbe ritenere che l’umanità sia uscita dal banco di nebbia che l’avvolge. Eppure, il giorno dopo, tutto riappare come prima, con la sua violenza e la sua carica di sofferenza. "Mai più la guerra", aveva gridato Paolo VI all’ONU. Eppure le guerre sono in atto tuttora! È la predicazione della Chiesa credibile? Oppure, è solo un polverone che nasconde le cose che restano così come sono? Un’ulteriore domanda s’affaccia impetuosa lungo la via del dialogo: il dialogo della Chiesa, che comunque continua a ritenere di avere l’esclusiva della verità, è reale, oppure semplicemente virtuale?

Le domande che affiorano sono innumerevoli e possono riassumersi in una sola di fondo: la Chiesa è esperta in umanità e nel suo mistero? Oppure è condizionata da un certo narcisismo dogmatico, per cui al bivio fra salvezza reale e non virtuale dell’uomo o salvaguardia di se stessa, sceglie la seconda, casomai affermando che proprio nella sua salvaguardia sta anche la salvezza dell’uomo? La Chiesa sa perdere se stessa per trovare ciò che veramente è se stessa? Oppure, unica a fare eccezione al comando evangelico, ha già trovato se stessa senza perdersi? Un esempio: il comportamento della Chiesa nel trattare i casi umani delle separazioni e dei divorzi di coloro che avevano celebrato il matrimonio in chiesa. Interminabili processi in cui l’esito è giocato sulla regolarità formale del sacramento, ma non si affondano le mani nel mistero dell’uomo in cui la contraddizione, anche quella più impensata, rimane pur sempre presente. La Chiesa sembra confrontarsi con un uomo virtuale, e non con quello reale; sembra mirare più alla salvaguardia delle sue posizioni, che alla risurrezione reale della speranza, là dove questa è stata spenta. La Chiesa è realmente esperta nel mistero dell’uomo? Oppure lo smagliante faro delle sue definizioni abbaglia il suo occhio?

Mentre, io prete, sono sfiorato da queste domande, avverto anche un profondo affetto verso questa Chiesa, così ridicola e buffa nel continuare a difendere la cattolicità: ossia il sogno che sia possibile creare rapporti fraterni fra gli uomini di tutte le etnie, e fare del mondo una sola famiglia umana, proprio attraverso i legami più intimi, quelli religiosi. Sento affetto verso questa Chiesa che celebra l’eucaristia in cui il cibo e la bevanda della mensa dell’uomo diventano le specie della grazia divina! Pane e vino che, assunti, si trasformano non in gloria per un Dio trascendente nel cielo, ma in energia per l’uomo: quindi in sudore, quindi in escremento, quindi in quella ciclicità che abbraccia Dio e l’uomo. Sogno le celebrazioni eucaristiche simili a quelle dell’ultima cena, in cui gli apostoli non si misero in posa per mostrare le loro virtù, ma litigarono per il primo posto; in cui Pietro, anche in quell’occasione, sbottò nella sua arroganza di primo della classe, e Giuda già teneva in tasca il denaro del tradimento. Sogno il volto di Gesù che dice: "Prendete e mangiatene tutti!", senza classificare in buoni o cattivi! Sogno il volto di Gesù divenuto perfettamente il Cristo, in quella sera in cui riconobbe il suo corpo nel pane e il suo sangue nel vino, offerti per la salvezza di tutti. Il volto di Cristo a cui Gesù di Nazaret era maturato, crescendo in età, sapienza e grazia davanti a Dio e gli uomini, giorno dopo giorno, come afferma il Vangelo. Il volto di Gesù di Nazaret plasmato in quello del Cristo attraverso l’esperienza umana del dolore: "pur essendo Figlio, imparò tuttavia l'obbedienza dalle cose che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono, essendo stato proclamato da Dio sommo sacerdote alla maniera di Melchìsedek" (Eb 5,8-10). Ma sognare così comporta l’abbandono degli assiomi che a priori chiudono il cammino, come dei fari abbaglianti che accecano e non permettono di vedere il chiaroscuro della realtà. Come gli insetti, la Chiesa cattolica può perire di troppa luce! Di presunzione di luce!

La luce accecante spegne l’immagine, appiattisce i colori, disaffeziona dalle sfumature, irrigidisce la sensibilità dell’orecchio, mette addosso la paura quasi di trovarsi davanti agli occhi di chi ti osserva per giudicarti, per cui il corpo non può distendere i suoi muscoli al movimento e alla danza. Dico una mia esperienza: un luogo dove la Chiesa è sacra è il chiaroscuro del confessionale! "Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano: ‘Costui riceve i peccatori e mangia con loro’. Allora egli disse loro questa parabola: ‘Chi di voi se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va dietro a quella perduta, finché non la ritrova? Ritrovatala, se la mette in spalla tutto contento, va a casa, chiama gli amici e i vicini dicendo: Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora che era perduta. Così, vi dico, ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione’" (Lc 15,1-7). Là la Chiesa compie il sacrificio: ossia rende sacra la vita umana, accogliendola com’è! Così la grazia e il peccato, la luce e la tenebra, il bene e il male danzano la salvezza, in cui gli opposti della vita assieme muoiono come due e risorgono nell’uno dell’amore, che si riversa nuovamente nel dinamismo della molteplicità! L’amore infatti è l’anima di Dio e di tutta la creazione divina: in esso gli opposti, danzando le loro differenze, sono uno; e l’uno è tale nel suo correlare le differenze.

Luciano Mazzocchi

 

 

Giordano Bruno Guerri, Eretico e profeta. Ernesto Buonaiuti, un prete contro la Chiesa, Milano, Mondadori, 2001.

Ferdinando Tartaglia, Tesi per la fine del problema di Dio, Milano, Adelphi, 2002.

 

"Carneade! Chi era costui?", ruminava tra sé, nella sua camera, don Abbondio. Così esordisce, molti lo ricorderanno, un famoso capitolo dei Promessi Sposi. Forse era un letteratone, un uomo di studio, uno di quelli, aggiungeva il povero prete, riferendosi a quel nome strano. Memorie di scuola, associazioni di idee, sono, o poco più, quelle che emergono nel presentare due libri concernenti autori probabilmente sconosciuti ai più. "Buonaiuti, Tartaglia! Chi erano costoro?", si potrebbe dire. I volumi in questione consentiranno a far uscire per un momento dal dimenticatoio queste due figure, che necessiterebbero ulteriori attenzioni.

Ernesto Buonaiuti (1881-1946) fu assai noto quand’era in vita, riconosciuto come uno dei più validi pensatori – religiosi e non – della prima metà del secolo. Tra l’altro fu compagno di seminario di Angelo Roncalli, ed anzi fu proprio lui ad aiutare il futuro papa Giovanni XXIII il giorno dell’ordinazione sacerdotale. Della sterminata produzione di Buonaiuti solo una piccolissima parte, peraltro riguardante opere minori, è oggi reperibile. Il saggio di Giordano Bruno Guerri contribuisce a colmare in parte questa lacuna, presentando la vita e il pensiero di questa figura dimenticata. Le ragioni della dimenticanza e dell’emarginazione possono essere molteplici, ma semplificando possiamo dire che Buonaiuti fu persona invisa alle varie latitudini del panorama culturale italiano: a quella cattolica, a quella di stampo liberale, come a quella marxista. Non a caso fece parte di quel resto costituito da dodici docenti universitari che negli anni Trenta si rifiutarono di prestare giuramento di fedeltà al regime fascista, esiguo numero di uomini che scelsero la solitudine alle giustificazioni, ai distinguo, alle furbizie e alle stravaganze come fecero i più per mantenere la cattedra, col sostegno e le direttive chi della Chiesa, chi del Partito Comunista, chi di Benedetto Croce.

In precedenza Buonaiuti era stato tra gli animatori in Italia di quel vasto movimento entrato nella storia col nome di ‘modernismo’; termine peraltro non amato da Buonaiuti in quanto lo considerava fuorviante, sostenendo che fosse più adatta la dizione ‘arcaismo’, in quanto l’intenzione del movimento era ritrovare le radici autentiche del messaggio cristiano. Fu un’esperienza intellettuale con la quale si propose di sottoporre all’analisi storico-critica anche i testi religiosi; ma non solo, fu un movimento con implicazioni di azione e propaganda sociale di reazione al conservatorismo della Chiesa, ancora attestata su una linea di difesa ispirata alla Controriforma. Ben presto la Chiesa si sarebbe scagliata contro il ‘modernismo’ definendolo il più blasfemo movimento nato in seno alla tradizione cristiana, vera e propria sintesi di tutte le eresie. Buonaiuti pagherà un prezzo altissimo. Fu ridotto allo stato laicale, le riviste da lui curate e tutti i suoi testi furono inseriti nell’indice dei libri proibiti, ed infine fu sottoposto alla più solenne delle scomuniche: espressamente vitando, con le conseguenze che ne derivano. Colui che viene colpito deve essere evitato da tutti i credenti, condannato all’isolamento e all’abbandono. Se entrerà in chiesa lo si dovrà espellere e successivamente riconsacrare l’edificio; se la sua salma fosse finita in un cimitero consacrato bisognava esumarla, affidandola a terreno profano. Almeno quest’ultima norma a Buonaiuti sarà risparmiata.

Dopo la scomunica inizierà il cammino di "pellegrino senza tetto e senza viatico", per usare le sue parole, (e Pellegrino di Roma è il titolo della sua autobiografia, uscita nel ’45 e ristampata l’ultima volta nel ’64), affrontando difficoltà enormi, di ogni genere, incluse quelle di ordine economico, rivolgendo il suo insegnamento a chiunque fosse interessato alle sue parole. Conosciuto e stimato all’estero, ove fu in più occasioni invitato a parlare presso sedi prestigiose. Chi scrive, ad esempio, confessa di aver curiosamente incontrato per la prima volta il nome di Buonaiuti leggendo l’autobiografia di Alan Watts, autore divenuto celebre negli anni settanta per la sua opera di divulgazione delle dottrine orientali. Watts ricorda l’incontro con Buonaiuti durante un convegno a Oxford, riferendo di una conversazione avuta con lui sulla vera natura del buddhismo.

Buonaiuti seppe mantenersi saldo in tutti i suoi anni di vita sulla medesima posizione: "nessuna delle Chiese cristiane esistenti interpreta pienamente il pensiero del Cristo; (…) il Cristianesimo reale è liberazione da ogni vincolo, da ogni legame storico, da ogni forma dommatica", dirà negli anni Trenta. E un anno prima di morire ribadirà: "La nostra salvezza è oggi solo a prezzo di una grande rivoluzione religiosa. Ecco la mia incrollabile certezza". E ancora: "Io sono incline a pensare che il ciclo della Chiesa cattolica sia compiuto (…) Lo so. I trapassi son tutti penosi e la nostra istintiva infingardaggine vorrebbe sottrarsi allo sforzo lacerante. Ma è un dovere affrontarlo: E io sono all’avanguardia e ci resto. E ci resterò costi quel che costi". E i costi che dovette pagare li abbiamo ricordati. Poco prima della morte dirà: "Ho trascorso ore angosciose, rese tanto più gravose dai tentativi inumani compiuti intorno a me da altissimi dignitari ecclesiastici per indurmi a confessioni e ritrattazioni che avrebbero dovuto servire nelle loro mani a fare del millantato credito. Ho resistito". Nelle parole che detterà come testamento spirituale ritroviamo il medesimo convincimento, affermato con speranza e con dolore. Per suo volere sulla tomba furono incisi i simboli dell’eterno sacerdozio cristiano, il calice e l’ostia, e gli amici faranno incidere accanto, in latino, un versetto tratto dai Proverbi (31,18): "La sua lucerna non si estinguerà".

Buonaiuti moriva a Roma il 20 aprile del ’46. A Firenze a Palazzo Strozzi un giovane prete, che nell’immediato dopoguerra si era fatto notare per alcuni scritti e certi interventi pubblici volti a un radicale rinnovamento religioso, tenne davanti a una sala gremita la commemorazione funebre di Buonaiuti, usando parole infuocate, dicendo fra l’altro: "Se Buonaiuti fu prete e credette nella missione e nel destino della Chiesa, anch’io. Se Buonaiuti cercò di trasmettere alla Chiesa la volontà del mutamento e aprire uno spiraglio in quell’abside morta, anch’io. Se Buonaiuti, deluso dalla mancata risposta della Chiesa, tentò di incrinare la grande cupola cattolica, anch’io. Se Buonaiuti fu respinto, allontanato dalla comunità dei fratelli, anch’io, presto". Attesa, dunque, qualche giorno dopo arrivò la scomunica pure per lui e nella forma più grave, vitando, l’ultima comminata nella storia della Chiesa, non essendo più contemplato tale provvedimento nel codice di diritto canonico.

Il suo nome era già un programma, nome di maschera: Tartaglia (1916-1988). Proseguirà le sue attività per circa tre anni, pubblicando numerosi articoli su riviste presto scomparse, tenendo conferenze un po’ dappertutto, dalle Case del popolo ai centri protestanti, fino ai circoli anarchici. Questo durò sino al ’49, dopodiché compirà scelta del silenzio, un silenzio insolito, di persona nota e cercata. Molte persone incontreranno lungo il loro cammino Tartaglia; per citare qualche nome: il teorico italiano della nonviolenza Aldo Capitini, il teologo Sergio Quinzio (a lui l’estensore di queste note è grato per l’invito a conoscere il pensiero di Tartaglia), e religiosi come Primo Mazzolari, Giovanni Vannucci e Lorenzo Milani. A proposito di quest’ultimo si riferisce un episodio emblematico: don Milani incontrandolo un giorno per strada, si rivolse a lui con gesto umile e fiducioso, gli si avvicinò, baciandogli la mano e dicendo: "Tu es sacerdos in aeternum".

Un ‘silenzio pubblico’ così definirà la scelta del silenzio Giulio Cattaneo, che conobbe Tartaglia negli anni giovanili e traccerà un affresco di lui e di quel periodo in un libro apprezzato, anche se aneddotico, L’uomo della novità, che l’editore Adelphi sta ora riproponendo. Infatti, la cifra ricorrente nel parlare di Tartaglia è proprio quella della novità, del novum radicale. Ma la novità per Tartaglia non significava solo abolizione di tutte le posizioni religiose, comportava una prospettiva inedita, l’insediarsi nella ‘realtà nuova’, nel ‘puro dopo’, e il volume che viene ora pubblicato costituisce un testo esemplare in proposito.

Le Tesi comparvero in un volume collettivo, nel ’49, come raccolta di una serie di interventi sul problema di Dio da parte di filosofi, teologi, storici delle religioni e poeti. Sin dalle prime pagine Tartaglia afferma che il problema di Dio va affrontato dal punto di vista della ‘novità pura’, rovesciando l’impostazione finora data al problema. Con il linguaggio arduo presente talvolta nel libro: "Costruire operazioni e strumenti secondo questo modulo inedito del puro ‘dopo’ vorrà dire mutare puramente tutto il modo d’essere e di agire dell’uomo dell’universo di Dio di non Dio; vorrà dire costruire complessi vastissimi di atti logici e ontologici (più che logici e più che ontologici) completamente nuovi". Nell’affermazione che le risposte sinora formulate intorno al problema di Dio (teismo, deismo, ateismo, agnosticismo, fideismo, scientismo, ecc.) risultano come minimo unidimensionali, quindi insufficienti: "finora non si è mai fatto teologia, ma solo buffonerie presuntuose e tediose fingenti il discorso teologico". Invece nel collocarsi dalla parte della ‘novità pura’, "Dio non cammina più dal passato al futuro ma dal futuro al passato, il passato non domina più il futuro ma il futuro domina e libera il passato". Con inusitate conseguenze, d’ordine pratico, innanzitutto (scriverà in un articolo Tartaglia: "fare metafisica (…) è solo cercare un modo più esatto per risolvere il problema delle fognature"). Dirà allora nell’ultima tesi: "il rinnovamento totale e finale di Dio e del suo problema conferisce possibilità di fare oggi ‘riforma religiosa’ secondo dissolvimenti e ampiezze mai prima d’ora sospettati", oltre le diatribe tra teismo/ateismo, sacro/profano, religioni/non-religioni.

Il pensatore tedesco Ernst Bloch ha scritto in un saggio dedicato al cristianesimo che l’elemento migliore delle religioni risiede nel fatto di creare eretici. Sicuramente simile affermazione ben si adatta all’itinerario di Buonaiuti e Tartaglia, e appare meno provocatoria e paradossale di quanto risulti a un primo sguardo. Cos’era infatti Gesù agli occhi della tradizione ebraica? E Buddha per quella indù?

E a questo proposito, Tartaglia ha lasciato indicazioni quantomeno interessanti anche per chi è impegnato in una riflessione sul senso del dialogo religioso. Dirà in un articolo: "E voi anche sapete che cosa è per me religione: non nascere dall’adolescente nei campi di dicembre ai pastori, non morire sotto l’albero fiorito, non sognare all’alba di essere risuscitato e risuscitare, non soltanto dire ‘beati’ o le ‘quattro verità’, ma lottare ormai nella nostalgia nuova a ciò che non è mai stato". E ancora: "chi predice religione può oggi anche sputare sulla propria vita, e sputando sulla propria vita può aspirare senza orgoglio a diventare più che il Buddha, più che il Cristo (guai se tutti noi non aspirassimo a essere più che il Buddha, più che il Cristo)".

In conclusione non si può salutare se non positivamente l’uscita di questi due libri, che rimangono comunque piccola cosa rispetto all’eredità umana e intellettuale di questi due personaggi. Buonaiuti fu autore di quasi quattromila titoli fra articoli e saggi, nonché di migliaia di lettere; Tartaglia, dal canto suo, ha lasciato ottomila pagine dedicate a vari ambiti del pensiero e settemila poesie, il tutto completamente inedito. Ma, seppure in forma sommessa, si vuole qui avanzare diversa considerazione. Qualche anno fa appariva, su una piccola rivista dei Servi di Maria, un ricordo di Tartaglia; se non ricordo male il titolo dell’articolo era: "Attualità di un maestro sconosciuto". Titolo azzeccato, indubbiamente, ma che suggerisce qualcosa d’altro rispetto ad una prima e frettolosa lettura. Ed è questa: non so se sia un principio valido comunque, ma oggi, nel mondo della società dello spettacolo, in cui i rapporti sociali sono mediati da immagini e lo spazio del vissuto si è allontanato in una rappresentazione che non risparmia niente e nessuno, ebbene, laddove c’è un maestro, è giusto che lasci tracce e poi rimanga appartato, se non sconosciuto, lasciandosi trovare da chi veramente è alla ricerca. Non per velleità misteriosofiche o simili, ma più essotericamente per sottrarsi dalle categorie dell’economico e dello spettacolare che tutto macinano nient’altro che in vista del profitto, sapendo architettare all’uopo anche casi editoriali o mode culturali. (Va ricordato, ad esempio, che quand’era in vita Tartaglia aveva rifiutato le proposte del medesimo editore che ora pubblica le Tesi). Infine, viene qui da pensare a una persona assai diversa: Kosho Uchiyama, una delle figure più significative dello zen contemporaneo, ricordato diverse volte su queste pagine. E’ morto qualche anno fa povero com’era vissuto. Il suo funerale è stato fatto a spese dei suoi confratelli e nessun giornale ha riportato la notizia della morte, restando sconosciuto ai più, compresi i molti che oggi nel mondo amano seguire qualche centro zen à la page. Anche questi sono insegnamenti da non dimenticare.

Federico Battistutta

 

 

 

 

 

 

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