La testa nel pallone

Il calcio, la passione della mia prima gioventù.
Ormai una ex passione, troppo avvelenato da interessi che feriscono ed inaridiscono, giorno dopo giorno, il mio interesse per esso.
Centinaia di partite al mese, il bobmbardamento continuo della televisione, con i cronisti che tentano di spacciarti come «importante e fondamentale» una partita amichevole d'agosto, tifosi che non riescono più ad affezionarsi a nessun giocatore per colpa dei cosiddetti "cambi in corsa", cioè calciatori che, nel bel mezzo del campionato, cambiano squadra così come si cambierebbero la camicia.
Gli ingaggi stratosferici inducono gli atleti a mutare divisa, sempre più spesso e quelli di loro considerati come "bandiere", sono sempre più rari.
Il calcio ormai viene, per così dire, imposto al pubblico quotidianamente dai mass media, è l'affare del momento, un veicolo importante anche per farsi pubblicità a livello di immagine personale, una vera tristezza.
Le società minori, ovviamente, non potendo investire somme in denaro da capogiro, sono sempre più penalizzate e sempre più relegate al ruolo di comprimarie; la vittoria finale, ogni anno, se la disputano non più di quattro o cinque squadre, sempre le stesse e ciò toglie al campionato italiano molto del fascino che aveva fino a qualche anno fa.
Negli anni ottanta, abbiamo visto trionfare compagini che non avevano mai vinto (Napoli, Verona, Sampdoria) o comunque che non lo facevano da molti anni (Roma), segno di un equlibrio dovuto anche ad una gestione più saggia riguardo ai giocatori stranieri.
Oggi i tesserati di paesi esteri sono una moltitudine e tutti i migliori sono nelle società più prestigiose, quelle che hanno una copertura finanziaria enorme e questo crea un evidente squilibrio, i vivai giovanili vengono snobbati ed i nostri giovani talenti, che spesso non hanno nulla da invidiare ai più blasonati nomi oltreconfine, sono spesso relegati nelle serie minori.
Non voglio essere scambiato per un campanilista, meno che mai per un razzista, ben venga il libero mercato e l'immigrazione, ma con regole e pari opportunità: per tutti, se non altro per garantire un certo equilibrio ed un certo peso: a tutti.
E' assurdo, secondo la mia opinione che, per tamponare errori di gestione od altro, si possa acquistare in ogni momento un fuoriclasse o presunto tale, sottraendolo da una società col denaro e soprattutto ai tifosi di quest'ultima che potrebbero aver pagato in anticipo (gli abbonati) per godere dell'abilità pedestre del giovanotto in questione.
A chi non piace questo calcio, come al sottoscritto, l'obbligo di non fruirne (non è la fine del mondo in fondo), piuttosto che vederlo massacrato da biechi personaggi; e poi è strano, non trovate, vedere politici che si battono con enfasi contro l'immigrazione imbottire la propria squadra di immigrati, di lusso, d'accordo, ma sempre immigrati...
In questa pagina, desidero raccogliere alcune storie di personaggi legati per qualche motivo allo sport più bello del mondo, non solo ricchi e famosi, ma anche poveri e misconosciuti che, però, hanno alimentato la mia passione per questo gioco, che ha accompagnato la mia fanciullezza, quotidianamente, in un'epoca in cui il divertimento lo si cercava all'aria aperta e nessuno sapeva cosa fossero i videogiochi.
Affido l'introduzione a Damiano Tommasi, calciatore della mia Roma che dimostra saggezza e discrezione in un intervista rilasciata ad Italia Caritas nell'aprile 2000.

«La violenza sugli spalti, in campo, negli spogliatoi, in sala stampa..., gli insulti, gli sputi, i cori razzisti, gli striscioni mi amareggiano enormemente.
E' triste assistere a trasmissioni sportive infarcite di nulla, di sterile parlarsi addosso.
Si sta esasperando uno sport che per la maggior parte delle persone dovrebbe essere puro divertimento.
Davvero il tema di discussione per un'intera settimana può essere un rigore dato o non dato?
Ma gli altri cinque miliardi di persone che non sanno cos'è il calcio di cosa parlano?
Il Milan, la Juve, la Roma, la Fiorentina, l'Inter, sono davvero più importanti della questione Balcanica, dell'IRA, dell'ETA, della pena di morte?
Attenzione sono parole di un innamorato di calcio, di uno che correva dietro ad un pallone quando ancora non andava a scuola, di uno che lavora con il pallone; ma anche di uno che cambia volentieri professione per non perdere la famiglia, che preferisce parlare dei figli e non dell'arbitro, di uno che a volte si vergogna di fare il suo mestiere.
Disturbando Martin Luther King, anch'io ho un sogno: vedere due squadre, insieme al centro del campo, vincitori e vinti ugualmennte sereni; un giocatore espulso scusarsi con i compagni; sentire uno stadio intero applaudire i vincitori perchè più bravi, senza badare al colore della maglia; vedere un tifoso complimentarsi con l'arbitro che giustamente fischia un fallo contro; sentire solo cori d'incitamento per la propria squadra e non contro la squadra avversaria; vedere uno stadio disertato dalle forze dell'ordine perchè non servono.»

In questa pagina:
Il taxista che parava meglio di N'Kono
Garrincha
Racconti
Aprile
Il rigore più lungo del mondo
Una giornata di primavera
Frasi celebri

Il taxista che parava meglio di N'Kono

Francois Ebeke ha mani enormi con le quali stringe il volante con presa sicura, cercando di parare le minacce del traffico newyorkese nell'ora di punta.
Sessantaseiesima strada e Seconda Avenue.
Qui comincia l'inferno per buttarsi dentro al tunnel verso il Queens.
Qui comincia il racconto di Francois Ebeke da Douala, Camerun.
Il racconto di due mani che un giorno hanno stretto palloni.
«Sono nato povero, ho creduto di diventare ricco, sono tornato povero.
E' la peggior cosa che ti possa capitare.
A New York sono arrivato 14 anni fa.
Sono scappato via.
Avevo sognato di diventare un grande portiere e - ride amaro - sono un grande tassista, lavoro sei giorni alla settimana, dodici ore al giorno, guadagno 2000 dollari al mese che servono per mandare a scuola i due figli che ho, pagare l'affitto, e bermi una birra ogni tanto.
No, le partite del mondiale non le guardo.
Gioco ogni tanto, con gli amici africani a Staten Island, ma solo ogni tanto.»
Quarantaduesima Strada,Grand Central Station.
Il traffico cresce.
Di Francois Ebeke parlano i colleghi della piccola compagnia di taxi con base a Brooklyn.
Dicono che sia buono, disponibile ma che diventi una specie di pietra quando si parla di calcio, quando si tira fuori il suo passato di portiere.
«A sedici anni mi trasferii a Yaoundè, la capitale.
Feci un provino per il Canon, che è come la Juventus da voi e mi presero.
Dicevano che ero la copia perfetta di N'Kono, il portiere della nazionale.
Ci ho creduto, pensavo che sarei diventato come lui.»
Trentaquattesima Strada e Quinta Avenue.
Un plotone di giapponesi blocca la strada.
Francois frena di scatto e ha un gesto d'ira.
«Sono rimasto due anni nel Canon ma dovevo mantenermi in mille modi, perchè la squadra mi dava 20 dollari al mese, che erano già dei bei soldi per quel tempo in Camerun per un calciatore.
Ma non si poteva certo costruire un futuro.
Poi vennero i mondiali di Spagna e dopo tutti andarono all'estero a guadagnare tanto, e poi tornavano e costruivano grandi piscine vicino alle loro ville nei quartieri belli.
E allora tutti volevano giocare a calcio, tutti avevano creduto nel sogno N'Kono e Milla...»
Sesta Avenue e Bleecker Street.
Francois evita di scarto un ciclista contromano.
«Ho conosciuto N'Kono, mi diceva che ero più agile di lui, che sarei potuto diventare anche meglio di lui.
Poi lui se ne andò in Belgio e io credetti che avrei potuto prendere il suo posto.
In Camerun si parlava solo di calcio, della squadra che era tornata imbattuta dal mondiale.
Con l'Italia avremmo potuto vincere: ma ancora c'era troppo rispetto per il calcio europeo.
Ancora tutti noi avevamo i poster dei campioni europei in camera.
Nessuno pensava di poter battere i miti.
Io adoravo Zoff.
Oggi è diverso.
Oggi esiste un orgoglio nazionale: oggi fare bella figura non basta più, oggi possiamo battere chiunque...».
West Side Highway e Chambers Street.
C'è una manifestazione contro il sindaco Giuliani che vuole la testa dei tassisti indisciplinati, che raddoppia le tasse sulla licenza.
«Dopo i mondiali dell'82 ci fu un colpo di stato in Camerun e molte cose cambiarono.
I militari imponevano i loro giocatori, le cose peggiorarono.
Mi chiesero di andare a giocare a Garoua,nel nord.
La morte civile.
Allora emigrai, andai in Belgio, feci provini in giro, chiesi aiuto a N'Kono ma lui sembrava non ricordarsi di me.
Poi successe un incidente e tornai in Camerun...».
Wall Street e Broadway.
Francois ha finito il turno e si prepara a varcare il ponte di Brooklyn.
L'incidente è una serata nata male, una rissa in un bar e quelle mani pesanti usate nel modo sbagliato.
«Avevo un cugino in America, uno che non avevo mai visto.
Sono venuto ed ho trovato casa.
Ogni tanto paro ancora, ma a star seduti 12 ore si dimentica come si vola».
Riccardo Romani

Garrincha

..... Ma il più grande di tutti fu Manè Garrincha, l'ala dalla gamba sghemba, autore di una sola finta, sempre la stessa, ma micidiale.
Rappresentò l'allegria della gente, vinse il mondiale del 1962 in Cile da solo.
Garrincha è stato l'ultimo campione romantico: nato povero e con la poliomelite, morto solo, pazzo e ubriaco.
Ma, in mezzo, la meraviglia di una vita superba: il successo, la fama, quella straordinaria finta, la passione dei diseredati delle favelas.
Garrincha che parlava ai passeri,che lasciava gli allenamenti del Botafogo per andare a giocare scalzo, nella foresta amazzonica, con i suoi amici d'infanzia.
Che disse al governatore di Rio:«Per la vittoria nella Coppa del Mondo in Svezia non voglio la villa che mi offrite, liberate piuttosto quell'uccellino chiuso in una gabbia» .....
Darwin Pastorin

Aprile, cielo basso e grigio, pioggia e caldo, il terreno di gioco sempre più pesante rende aleatorio l'effetto di ogni movimento.
Nuovamente il rettangolo erboso, nuovamente spalti gremiti di spettatori paganti che seguono concitati i capricci di una sfera che scivola fregandosene di Newton e della sua mela.
L'aria afosa rende il respiro affannoso (o sarà perchè ho ripreso a fumare?).
Frugo invano la mia memoria alla ricerca di un ricordo di almeno un minuto prima dell'ingresso in questo Stadio.
Da allora non sono più uscito, o meglio, è lo Stadio a non essere più uscito da me.
Vive nella mente: scandisce ogni istante della mia vita una telecronaca martellante, senza fine...
Ho uno stadio nel cervello, a volte, penso, al posto del cervello, con ventidue giocatori in campo che si fronteggiano, le riserve in panchina, gli allenatori, i presidenti, i massaggiatori, i medici sportivi.
Con i raccattapalle e le barelle a bordo campo, l'arbitro, i guardalinee, il quarto uomo, i fotografi come avvoltoi appostati dietro le porte.
Con poliziotti e cani sotto le curve, lo stesso collare, ma un elmetto plumbeo come il cielo sulla testa degli uni per distinguerli dagli altri.
Con il Pubblico, sostantivo singolare collettivo riferito ad una moltitudine di individui la cui contrapposizione per colori indossati riesce per magia a celare l'unica reale differenza, quella insita nel settore delle gradinate occupate e nel relativo punto di vista su quanto si sta svolgendo in campo.
Il gelo pervade la curva mentre un traversone dalla trequarti destra è corretto di testa dal numero dieci avversario in direzione del portiere.
Un tiro senza pretese ed un portiere ben piazzato tra i pali, ma la palla è viscida ed il tentativo di afferrarla è vano, come le imprecazioni che salgono verso un cielo di gomma mentre placidamente il pallone si posa oltre la linea della porta.
Di momenti come questo la mia partita è piena, satura.
Non sapere con chi prendersela, subire la gioia dei tifosi avversari, la loro derisione mentre ogni minuto che passa rende la possibilità di recupero sempre più difficile.
La squadra reagisce bene, sta bene in campo ma non riesce a realizzare.
Il pareggio come massima aspirazione, la delusione dipinta sulla faccia, speranze che avanzano verso la difesa avversaria terminando in fuori gioco o a fondo campo seppure di un soffio.
Ed i goal subiti semplicemente perchè una strana legge li vuole conseguenti a quelli sbagliati, anche se frutto di un offside che ha trovato un guardalinee distratto o a corto di fiato spesso coronano l'ennesima giornata storta.
E' sul due a zero che la rabbia prende il sopravvento.
Bisogna spingere sull'acceleratore per negare una realtà fuori di ogni logica, non più la freddezza e gli accorgimenti tattici delle altre fasi di gioco, ma un concentrato dell'energia residua a sospingere il pallone verso la trequarti, l'area, la porta e, quando l'estremo difensore oppone il suo corpo contro una sfera lanciata in modo sporco ma potente, dopo una, due ribattute finalmente la rete si gonfia.
Nemmeno il tempo per gioire, afferrare la palla e, in corsa, poggiarla a centrocampo, il tempo è il primo nemico da battere.
I tifosi incitano a piena voce, la squadra non risparmia fiato, quando la palla esce dal campo c'è chi si sostituisce al raccattapalle.
Gli avversari cercano di imporre la loro inerzia con il possesso di palla, sostituzioni e cadute ad arte che favoriscono il giocatore più abile: il cronometro.
Teatro dell'ultimo atto è ormai la trequarti, la ricerca affannosa di un corridoio spesso porta gli avversari a lanciare la palla più lontano possibile.
Il portiere si spinge fino a centro campo ed è spesso lui stesso a dirigere la manovra offensiva.
E' il tutto per tutto!
Ed è il momento in cui lo "scaldapanchine" avversario entrato da pochi secondi sfrutta un rimpallo favorevole, corre in assolo, supera la smorfia di dolore del portiere, stoppa la palla sulla linea bianca tra i pali e con un leggero tocco del piede destro frantuma sogni, speranze, desideri.
Un'idea, come una meteora colpisce lo Stadio nel mio cervello o forse lo Stadio e basta: è impossibile vincere, è impossibile pareggiare, la partita è truccata, il campionato è truccato, prova inequivocabile dell'esistenza di Dio che vede e provvede beffando.
Qualsiasi sforzo è inutile dentro queste regole.
L'unica soluzione è ignorarle, sovvertirle, ribellarsi!
Mentre un sorriso si fa strada sul mio volto teso nel processo che porta il pensiero a divenire azione dalle fitte nubi grigie del cielo si spandono tre lunghi fischi.
Marco Roncaccia

Il rigore più fantastico di cui io abbia notizia è stato tirato nel 1958 in un posto sperduto di Valle de Rio Negro, una domenica pomeriggio in uno stadio vuoto. Estrella Polar era un circolo con i biliardi e i tavolini per il gioco delle carte, un ritrovo da ubriachi lungo una strada di terra che finiva sulla sponda del fiume. Aveva una squadra di calcio che partecipava al campionato di Valle perchè di domenica non c'era altro da fare e il vento portava con sè la sabbia delle dune e il polline delle fattorie. I giocatori erano sempre gli stessi o i fratelli degli stessi. Quando avevo quindici anni, loro ne avevano trenta e a me sembravano vecchissimi. Dìaz, il portiere, ne aveva quasi quaranta e i capelli bianchi che gli ricadevano sulla fronte da indio araucano. Alla coppa partecipavano sedici squadre e l'Estrella Polar finiva sempre dopo il decimo posto. Credo che nel 1957 si fossero piazzati al tredicesimo e tornavano a casa cantando, con la maglia rossa ben ripiegata nella borsa perchè era l'unica che avessero. Nel 1958 avevano cominciato a vincere per uno a zero con l'Escudo Chileno, un'altra squadra miseranda. Nessuno ci badò. Invece, un mese dopo, quando avevano vinto quattro partite di seguito ed erano in testa al torneo, nei dodici paesi di Valle si cominciò a parlare di loro. Le vittorie erano state tutte per un solo goal, ma bastavano a far rimanere il Deportivo Belgrano, l'eterno campione, la squadra di Padìn, di Constante Gauna e di Tata Cardiles, al secondo posto, con un punto di distacco. Si parlava dell'Estrella Polar a scuola, sull'autobus, in piazza, ma nessuno immaginava ancora che alla fine dell'autunno avrebbero avuto ventidue punti contro i ventuno dei nostri. I campi si riempivano per vederli finalmente perdere. Erano lenti come somari e pesanti come armadi ma marcavano a uomo e gridavano come maiali quando non avevano la palla. L'allenatore, uno vestito di nero, con baffetti sottili, un neo sulla fronte e mozzicone spento tra le labbra, correva lungo la linea laterale e li incitava con una verga di vimini quando gli passavano vicino. Il pubblico ci si divertiva e noi, che giocavamo di sabato perchè eravamo più piccoli, non riuscivamo a spiegarci come potessero vincere se giocavano così male. Davano e ricevevano colpi con tale lealtà e con tale entusiasmo che dovevano appoggiarsi gli uni agli altri per uscire dal campo mentre la gente li applaudiva per l'uno a zero e porgeva loro bottiglie di vino rinfrescate sotto la terra umida. La sera facevano festa nel postribolo di Santa Ana e la Gorda Zulema si lamentava perchè le mangiavano le poche cose che conservava nella ghiacciaia. Erano diventati l'attrazione del paese e a loro tutto era consentito. I vecchi li raccoglievano nei bar quando bevevano troppo e cominciavano ad attaccar briga; i commercianti li omaggiavano di qualche giocattolo e di caramelle per i bambini e al cinema le ragazze accettavano carezze al di sopra delle ginocchia. Fuori dal paese, nessuno li prendeva sul serio, neppure quando avevano vinto con l'Atletico San Martin per due a uno. Nel pieno dell'euforia furono sconfitti come tutti quanti a Barda del Medio e sul finire dell'andata persero il primo posto quando il Deportivo Belgrano li sistemò con sette goal. Tutti credemmo, allora, che la normalità fosse stata ristabilita. Ma la domenica dopo vinsero per uno a zero e continuarono nella loro litania di laboriose, orrende vittorie e arrivarono alla primavera con un solo punto in meno rispetto al campione. L'ultimo scontro divenne storico a causa del rigore. Lo stadio era tutto esaurito e lo erano anche i tetti delle case vicine e il paese intero aspettava che il Deportivo Belgrano, giocando in casa, replicasse almeno i sette goal dell'andata. Il giorno era fresco e assolato e le mele cominciavano a colorirsi sugli alberi. L'Estrella Polar aveva portato oltre cinquecento tifosi che presero d'assalto la tribuna e i pompieri dovettero tirar fuori gli idranti per farli star calmi. L'arbitro che fischiò il rigore era Herminio Silva, un epilettico che vendeva biglietti della lotteria nel circolo locale e tutti quanti capirono che si stava giocando il lavoro quando al quarantesimo del secondo tempo si era ancora sull'uno a uno e non aveva fischiato la massima punizione, anche se quelli del Deportivo Belgrano entravano a tuffo nell'area dell'Estrella Polar e facevano capriole e salti mortali per impressionarli. Sul pareggio la squadra locale era campione e Herminio Silva voleva conservare il rispetto di sè e non concedeva il rigore perchè non c'era fallo. Ma al quarantaduesimo rimanemmo tutti a bocca aperta quando la mezz'ala sinistra dell'Estrella Polar infilò una punizione da molto lontano e portò la squadra ospite sul due a uno. Allora sì che Herminio Silva pensò al suo lavoro e allungò la partita fino a quando Padin entrò in area e appena gli si avvicinò un difensore fischiò. Fece uscire dal fischietto un suono stridulo, imponente, e indicò il punto del rigore. A quell'epoca, il luogo dell'esecuzione non era segnato con il dischetto bianco e bisognava contare dodici passi da uomo. Herminio Silva non riuscì nemmeno a raccogliere il pallone perchè l'ala destra dell'Estrella Polar, Rivero, detto el Colo, lo stese con un pugno sul naso. La rissa fu così lunga che scese la sera e non ci fu modo di sgomberare il campo nè di risvegliare Herminio Silva. Il commissario, con una lanterna accesa, sospese la partita e diede ordine di sparare in aria. Quella sera il comando militare decretò lo stato d'emergenza, o qualcosa del genere, e fece preparare un treno per allontanare dal paese tutti quelli che non sembravano del posto. Secondo il tribunale della lega, che venne riunito il martedi seguente, si dovevano giocare ancora venti secondi a partire dall'esecuzione del calcio di rigore, e quel match privato tra Constante Gauna, il cannoniere, e el Gato Diaz in porta, avrebbe avuto luogo la domenica dopo, sullo stesso campo, a cancelli chiusi. Così quel rigore durò una settimana ed è, se nessuno mi dimostra il contrario, il più lungo della storia. Mercoledi marinammo la scuola e andammo nel paese vicino a curiosare. Il circolo era chiuso e tutti gli uomini si erano riuniti sul campo, tra le dune. Avevano formato una lunga fila per battere rigori contro el Gato Diaz e l'allenatore con il vestito nero ed il neo sulla fronte cercava di spiegare loro che quello non era il modo migliore di mettere alla prova il portiere. Alla fine, tutti tirarono il loro rigore e el Gato ne parò parecchi perchè li battevano con ciabatte e scarpe da passeggio. Un soldato bassino, taciturno, che stava in fila, sparò un tiro con la punta dell'anfibio militare che quasi sradica la rete. Sul far della sera tornarono in paese, aprirono il circolo e si misero a giocare a carte. Diaz rimase tutta la sera senza parlare, gettando all'indietro i capelli bianchi e duri finchè dopo mangiato s'infilò lo stuzzicadenti in bocca e disse:
- Constante li tira a destra.
- Sempre, - disse il presidente della squadra.
- Ma lui sa che io so.
- Allora siamo fottuti.
- Sì, ma io so che lui sa, - disse el Gato
- Allora buttati subito a sinistra, - disse uno di quelli che erano seduti a tavola.
- No. Lui sa che io so che lui sa, - disse el Gato Diaz e si alzò per andare a dormire.
- El Gato è sempre più strano, - disse il presidente della squadra nel vederlo uscire pensieroso, camminando piano.
Martedi non andò all'allenamento e nemmeno mercoledi. Giovedi, quando lo trovarono che camminava sui binari del treno, parlava da solo e lo seguiva un cane dalla coda mozzata.
- Lo pari? - gli domandò, ansioso il garzone del ciclista.
- Non lo so. Che cosa cambia per me? - domandò.
- Che ci consacriamo tutti, Gato. Glielo diamo nel culo a quelle checche del Belgrano.
- Io mi consacro quando la Rubia Ferreira mi dirà che mi vuole bene, - disse e fischiò al cane per tornarsene a casa.
Venerdi la Rubia Ferreira badava come sempre alla merceria quando il sindaco entrò con un mazzo di fiori e con un sorriso largo come un'anguria aperta.
- Questi te li manda el Gato Diaz e fino a giovedi tu devi dire che è il tuo fidanzato.
- Poveretto, - disse la donna con una smorfia e nemmeno li guardò, quei fiori che erano arrivati da Neuquen con l'autobus delle dieci e mezza.
La sera andarono al cinema insieme. Nell'intervallo el Gato uscì nell'atrio per fumare e la Rubia Ferreira rimase sola nella penombra, con la borsa sulla gonna, a leggere cento volte il programma senza alzare lo sguardo. Sabato pomeriggio el Gato Diaz chiese in prestito due biciclette e andarono a fare una passeggiata sulla riva del fiume. Mentre iniziava il pomeriggio cercò di baciarla ma lei girò la faccia e disse che forse gliel'avrebbe permesso domenica sera, se parava il rigore, al ballo.
- E io come faccio a saperlo? - disse lui.
- A sapere che cosa?
- Se mi devo buttare da qella parte.
La Rubia Ferreire lo prese per mano e lo portò fino al posto in cui avevano lasciato le biciclette.
- In questa vita non si sa mai chi inganna e chi è ingannato, - disse lei.
- E se non lo paro? - domandò el Gato.
- Allora vuol dire che non mi vuoi bene, -rispose la Rubia, e tornarono in paese.
La domenica del rigore partirono dal circolo venti camion carichi di gente, ma la polizia li bloccò all'ingresso del paese e dovettero fermarsi accanto alla strada, ad aspettare sotto il sole. A quei tempi e in quel posto non c'erano nè televisori nè stazioni radio nè qalche altro mezzo per seguire cosa succedeva su un campo chiuso, così quelli dell'Estrella Polar predisposero una specie di staffetta tra lo stadio e la strada. Il garzone del ciclista salì su un tetto da dove si vedeva la porta di Gato Diaz e da lì avrebbe raccontato quello che vedeva a un altro ragazzo che stava sul marciapiede e che a sua volta lo avrebbe riferito a un altro che stava a venti metri e così via finchè ogni particolare sarebbe arrivato fino al punto in cui aspettavano i tifosi dell'Estrella Polar. Alle tre del pomeriggio le due squadre scesero in campo vestite come se dovessero giocare una vera partita. Herminio Silva aveva la divisa nera, scolorita ma in ordine e quando tutti furono schierati a centrocampo andò dritto verso el Colo Rivero che gli aveva dato un pugno la domenica prima e lo espulse. Non era ancora stato inventato il cartellino rosso e Herminio indicava la bocca del tunnel con mano ferma da cui pendeva il fischietto. Alla fine, la polizia portò via a spintoni el Colo che sarebbe voluto rimanere a vedere il rigore. Allora l'arbitro andò fino alla porta con la palla stretta contro un fianco, contò dodici passi e la sistemò a terra. El Gato Diaz si era pettinato con la brillantina e la testa gli risplendeva come una pentola di alluminio. Noi lo osservavamo appoggiati contro il muretto che circondava il campo, proprio dietro la porta, e quando si dispose sulla riga di calce e prese a strofinarsi le mani nude cominciammo a scommettere su quale lato avrebbe scelto Constante Gauna. Lungo la strada avevano interrotto la circolazione e tutti aspettavano quell'istante perchè erano dieci anni che il Deportivo Belgrano non perdeva una coppa nè un campionato. Anche i poliziotti volevano sapere, e così lasciarono che la catena di staffette si dislocasse lungo tre chilometri e le notizie correvano di bocca in bocca ritmate dalle contrazioni del fiatone. Alle tre e mezza, quando Herminio Silva ebbe ottenuto che i dirigenti delle due squadre, gli allenatori e le forze vive del popolo abbandonassero il campo, Constante Gauna si avvicinò per sistemare la palla. Era magro e muscoloso e aveva le sopracciglia tanto folte che la faccia ne sembrava tagliata in due. Aveva tirato tante volte quel rigore - raccontò poi - che lo avrebbe rifatto in ogni momento della sua vita, sveglio o addormentato. Alle quattro meno un quarto, Herminio Silva si dispose a metà strada tra la porta e il pallone, portò il fischietto alla bocca e soffiò con tutte le sue forze. Era così nervoso e il sole aveva tanto martellato sulla sua nuca che quando il pallone partì in direzione della porta sentì gli occhi rovesciarglisi all'indietro e cadde di spalle schiumando dalla bocca. Diaz fece un passo in avanti e si buttò sulla destra. Il pallone partì roteando su se stesso verso il centro della porta e Constante Gauna indovinò subito che le gambe del Gato Diaz sarebbero riuscite a deviarlo di lato. El Gato pensò al ballo della sera, alla gloria tardiva, al fatto che qualcuno sarebbe dovuuto accorrere per mettere in corner il pallone che era rimasto a rotolare in area. El Petiso Mirabelli arrivò per primo e la mise fuori, contro la rete metallica, ma Herminio Silva non poteva vederlo perchè stava a terra, si rotolava in preda a un attacco di epilessia. Quando tutta l'Estrella Polar si rovesciò sopra al Gato Diaz per festeggiare, il guardalinee corse verso Herminio Silva con la bandierina alzata e dal muretto su cui eravamo seduti lo sentimmo gridare: «Non vale! Non vale!» La notizia corse di bocca in bocca, gioiosa. La respinta del Gato e lo svenimento dell'arbitro. A quel punto sulla strada tutti aprirono damigiane di vino e cominciarono a festeggiare, sebbene il «non vale» continuasse ad arrivare balbettato dai messaggeri con una smorfia attonita. Fino a quando Herminio Silva non si fu rimesso in piedi sconvolto dall'attacco, non arrivò la risposta definitiva. Per prima cosa volle sapere «che è successo» e quando glielo raccontarono scosse la testa e disse che bisognava tirare di nuovo perchè lui non era stato presente e il regolamento prescrive che la partita non si possa giocare con un arbitro svenuto. Allora el Gato Diaz allontanò quelli che volevano pestare il venditore di biglietti della lotteria al Deportivo Belgrano e disse che bisognava sbrigarsi perchè la sera aveva un appuntamento e una promessa e andò di nuovo a mettersi in porta. Constante Gauna non doveva avere molta fiducia in se stesso perchè propose a Padin di tirare e solo dopo andò verso la palla mentre il guardalinee aiutava Herminio a stare in piedi. Fuori si sentivano strombazzamenti festosi dei tifosi del Deportivo Belgrano e i giocatori dell'Estrella Polar cominciarono a ritirarsi dal campo circondati dalla polizia. Il tiro arrivò a sinistra e el Gato Diaz si buttò nella stessa direzione con un'eleganza e una sicurezza che non mostrò mai più. Constante Gauna alzò gli occhi al cielo e cominciò a piangere. Noi saltammo giù dal muretto e andammo a guardare da vicino Diaz, il vecchio, che rimirava il pallone che aveva tra le mani come se avesse estratto la pallina vincente della lotteria. Due anni dopo, quando el Gato era ormai un rudere e io ero un giovanotto insolente, me lo trovai ancora di fronte, a dodici passi di distanza, e lo vidi immenso, rannicchiato sulla punta dei piedi, con le dita aperte e lunghe. Aveva al dito una fede che non era della Rubia Ferreira ma della sorella del Colo Rivero, india e vecchia come lui. Evitai di guardarlo negli occhi e cambiai piede; poi tirai di sinistro, basso, sapendo che non l'avrebbe parato perchè era molto rigido e portava il peso della gloria. Quando andai a prendere il pallone nella porta, si stava rialzando come un cane bastonato.
- Bene, ragazzo, - mi disse. - Un giorno andrai in giro da queste parti a raccontare che hai segnato un goal al Gato Diaz, ma nessuno ti crederà.
Osvaldo Soriano

Mi sono innamorato subito, a prima vista, in tenerissima età e, come succede per gli amori sinceri, senza un perchè.
Nonostante abbia seguito con interesse le dotte asserzioni di psicologi, filosofi e sociologi che tentavano di spiegarmelo, ritengo che il segreto sia da ricercarsi nel perfetto equilibrio tra regole e fantasia che questo gioco offre, nonchè in un fattore istintivo, primordiale quasi, insito nel gesto di calciare un oggetto.
Infatti non resisto mai alla tentazione di dare una pedata ad un pallone qualora mi si presenti davanti, ma non solo: se trovo una pallottola di carta sul pavimento la calcio, se un barattolo spinto dal vento mi rotola incontro lo calcio, se un gatto mi attraversa la strada... mi fermo e ci gioco per mezz'ora, ma questa è un'altra faccenda.
La storia, invece, riguarda un gruppetto di una decina di ragazzini, tra cui io, che andarono all'inizio degli anni settanta, a disputare la loro prima partita su un terreno vero, uno dei tanti spazi che offre a Roma la Villa Doria Pamphilj.
Abitualmente noi giocavamo in una stradina asfaltata, lunga e stretta, circondata da giardini ove la palla era solita cadere e sovente non ritornare al mittente.
Erano anni in cui la televisione, con appena due canali, non era predominante ed i giochi di società si utilizzavano solo nei giorni di pioggia, per il resto lo svago era all'aperto.
Ero piccolo allora, in tutti i sensi, anche di costituzione, tanto che i miei compagni si sentirono autorizzati per anni ad affibbiarmi il soprannome "morte"; io non l'ho mai sopportato e loro lo sapevano ed ero terrorizzato dall'idea di non poter liberarmene per tutta la vita.
Giocavo a quei tempi, prima di scoprire la mia vena di estremo difensore, all'ala sinistra.
In Italia spopolava Gigi Riva ed io ero così diverso da lui, non avevo certo un tiro potente, non ero robusto e chiunque mi spostava con un buon rutto, ma correvo discretamente e, soprattutto, ero mancino.
Mancino.
Una parola che allora era quasi sinonimo di anomalia, lo so, si stenta a crederlo, ma è così.
Ricordo, anche se sono passati trent'anni, i tentativi di mio padre di correggere questo mio "difetto", le ore passate sopra un quaderno rosso a scrivere lettere dell'alfabeto con la destra, la mano "giusta".
Non ci riuscì e, fortunatamente, abbandonò presto l'idea, cosicchè io, quando cominciai a giocare, estesi la mia malformazione anche all'arto inferiore.
E siccome ero l'unico mancino del gruppo giocavo a sinistra, all'ala appunto, dove potevo defilarmi ed evidenziare la mia unica dote calcistica che possedevo in quel momento: la corsa.
Partimmo, quel giorno, a piedi, in un bellissimo pomeriggio primaverile caldo ed assolato, tutti in gruppo, tra le raccomandazioni dei rispettivi genitori, alla volta della villa.
La nostra divisa era costituita da un maglietta bianca sulla quale tutti avevamo appiccicato un adesivo di foggia quadrata che pubblicizzava le universiadi e pantaloncini neri, possibilmente.
Appena arrivati ci sistemammo velocemente l'abbigliamento da gioco e cominciammo il riscaldamento trotterellando, palleggiando, scagliando qualche tiro verso la porta delimitata per l'occasione da due borse.
Non so cosa passasse nella mente dei miei compagni, ma nella mia l'aria profumata di erba, la sensazione di spazio intorno a me, la polvere che si sollevava ad ogni rimbalzo del pallone, il rumore dei tacchetti delle scarpe da calcio sulla terra dura, fecero giungere mille meravigliose sensazioni che fuggirono inseguite da altre ugualmente fantastiche.
In quei momenti ebbi davanti a me tutti i miei sogni di calciatore in erba.
Di lì a poco un altro gruppo di ragazzi arrivò nei pressi del campo che noi avevamo occupato.
Presentarsi, fare amicizia e decidere di sfidarsi fu questione che impegnò breve tempo e così, emozionati, cominciammo a giocare la nostra prima partita su quel campo di terra arida che per noi, allora, rappresentava il Maracana di Rio de Janeiro o l'Azteca di Città del Messico.
Non ricordo più con precisione le fasi salienti della gara, sono passati troppi anni, ricordo solo che alcuni dei nostri genitori, tra cui i miei, nel frattempo erano sopraggiunti per osservare i loro rampolli giocare e che verso la fine del secondo tempo eravamo in vantaggio di qualche goal; io, fino a quel momento, non ne avevo marcato nemmeno uno ed avevo un vago senso di frustrazione dovuto anche al fatto che mi sembrava di deluderli.
Improvvisamente, però, un lancio lungo sorprese la squadra avversaria, scattai, i difensori che ingaggiarono la corsa con me venti metri dopo erano solo un ricordo e così mi ritrovai a tu per tu con il portiere, unico a frapporsi, ormai.
Il pallone rimbalzava sul terreno gibboso e le sue evoluzioni erano spesso imprevedibili, ma poi, in una zona più regolare, si addomesticò e con piccoli balzi si rese disponibile per il tiro, valutai il momento opportuno per l'impatto e colpii di volo...
Il portiere si gettò sulla sinistra nel tentativo di intercettare quel diagonale velenoso, invano, la sfera di cuoio entrò passando tra le borse poste a mo' di pali nell'angolo basso e per un istante tutto si fermò.
Assaporavo per la prima volta, su ciò che aveva la parvenza di un campo da calcio, il gusto del gol, qualche frazione di secondo mi sorprese attonito a realizzare ciò che stava accadendo, poi la gioia proruppe in una corsa a braccia levate, come vedevo fare ai campioni, con l'abbondante maglietta che svolazzava da tutte le parti immaginando uno stadio in festa.
Guardando finalmente con legittima fierezza verso i miei genitori vidi qualcosa di ancor più bello di ciò che avevo appena compiuto e che rese quell'attimo perfetto.
Proseguendo la sua corsa, il pallone arrivò verso mio padre che era dietro la porta e lui lo arrestò con uno "stop" elegante, con la suola della scarpa.
Era abbracciato a mia madre e, dopo aver guardato sorridendo me, si guardarono negli occhi come fanno i giovani sposi e tornarono a guardarmi partecipi della mia e della loro felicità, mentre io, ormai fermo, quasi a non voler spezzare l'incanto, ricevevo l'abbraccio gioioso dei compagni di gioco.
Molte altre volte nella mia fanciullezza, prima di "redimermi" e passare a guardia dei pali, violai la rete degli avversari, ma l'emozione e la felicità che ne derivarono non furono mai più così intense, come quel giorno di primavera all'inizio degli anni settanta.
Stefano Tirabassi

«A nuoto, Sacchi deve tornare a nuoto!» Tonino durante il mondiale Statunitense del 1994
«E' una difesa di comici!» Il babbo di Andrea dopo l'ennesimo gol ridicolo incassato dalla Roma di Zeman
«Colpite tutto ciò che si muove a pelo d'erba. Se è il pallone, meglio!» Nereo Rocco

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