TENORE DI VITA Come si viveva a Gargallo? Coi frutti della terra, con quelli della stalla e col pollame, cioè l'alimentazione che continuava da secoli senza alcuna variante. Pane nostrano, verdura, latticini, salumi, uova e polli. Largo era l'allevamento del bestiame ed in ogni casa, si può dire, si teneva almeno una mucca, dal Sindaco al parroco, e la ricchezza di una famiglia si stimava attraverso i capi di bestiame che possedeva. Chi non ne aveva di propri affittava la pitera, cioè una mucca di pastori forestieri che la cedevano volentieri per il solo inverno al prezzo del puro mantenimento. Nel 1649 si enumeravano 253 capi bovini, otto cavalli, due muli, dodici asini, 300 fra capre e pecore, 101 maiali, esistenti solo nei casali di Gargallo. Ancora nel secolo XVIII non esistevano in paese macellerie. Qualche benestante locale si prendeva il lusso, la domenica, di recarsi a Gozzano o Borgomanero per provvedersi della poca carne che, messa a bollire, profumava tutte le adiacenze annunciando il giorno festivo o che il signore aveva fatto acquisti. Per gli altri la mensa era frugale: solo minestra ai ragazzi e la pietanza servita soltanto agli adulti, che dovevano conservare le forze per il lavoro; se pietanze poi si potevano chiamare un pezzo di formaggio, un uovo, un pezzo di lardo o del salame. Non c'è d'andar troppo lontano se ancora durante la mia infanzia si ignoravano le banane, il cocco, l'ananasso, i mandarini, i pompelmi, i cachi, le pesche estive, le prugne secche, i datteri, l'uva da tavola, ecc... La frutta era unicamente quella prodotta dal nostro suolo e finita la stagione si doveva attendere la prossima maturazione. Si ignorava pressoché il prosciutto, il ragù, il filetto, le salse ad eccezione di quella di pomodoro, i dolciumi all'infuori di un tipo di caramelline contenute in un barattolo ed appiccicantesi fra loro e delle gallettine di farina di grano secche e dure come cocci. All'infuori dell'acquavite non si conoscevano liquori. A scopo medicinale si faceva il brulé, consistente in un bicchiere di vino buono nel quale si era immerso un tizzone o il gambo di un treppiede di ferro arroventato. Nulla vedevi nei negozi ad eccezione dei prodotti locali e qualche pezzo di gorgonzola verde, puzzolente, vecchia ed appassita. Solo una quindicina di giorni prima del Natale apparivano, alla rinfusa e schiacciate ai vetri della stretta vetrina del tabaccaio Maioni, arachidi, mandorle, qualche fico secco, nero ma infarinato per dare parvenza di biancore, il tutto misto ad arancine striminzite, metà giallognole e l'altra metà ancora verdi, portanti rametti e foglie ribelli al separarsi. Richiamavano l'attenzione di noi scolari che, prima e dopo le lezioni, accorrevamo a frotte per annusare lo scarso profumo che sfuggiva dai vetri traballanti nei rudimentali telai e leccare i vetri stessi con l'illusione di sentire il sapore. E che festa il giorno di Santo Stefano, dì delle strenne, quando coi decioni, due soldi avuti in regalo, accorrevamo alla conquista di quelle arance tanto corteggiate; arance che, al contatto del palato, facevano fare le boccacce e lagrimare perfino gli occhi. Eppure come sono buone! dicevamo, pronti ad acquistarne altre non appena qualche buon parente ci avesse allungato un soldino. Anni duri erano i primissimi di questo secolo! Mi sia concesso ripetere quanto mi è stato raccontato da un testimone ancora vivente. In una famiglia, una sera, la moglie, dopo che tutti avevano consumato la solita minestra ed allontanato i bambini, allungò sulla tavola, per il marito stanco e sfinito per il duro lavoro di fuochista di fornace, un uovo fritto nel solito grasso di maiale. Non aveva ancora terminato che quei benedetti figlioli trovarono il modo di accostarsi al padre imbarazzato. Il pover'uomo, mortificato, trangugiava gli ultimi bocconi ed invitava moglie e figli ad insaporire il palato con una fetta di pane intinta nel grasso rimasto nel tegame, che venne lasciato pulito e lustro come nessuna massaia avrebbe saputo fare meglio. Nel secolo XIX si sperava sempre che morisse qualche bestia per poter attenuare senza troppo rimorso il desiderio della carne, desiderio che veniva leggermente smorzato ufficialmente il giorno di Natale. Un'aringa era una leccornia da buongustai ed il suo odore, che oggi farebbe arricciare il naso all'ospite, allora veniva incontro assai gradito ad annunciare il benessere della famiglia. Se dovessimo tornare agli anni lontani, incontreremmo fedeli gargallesi che si recavano alla parrocchiale di Soriso per ascoltare la messa e, dopo questa, si soffermavano, anche d'inverno, sotto il portico della chiesa a sbocconcellare un po' di pane, saliva e freddo in attesa dell'ora del Vespro. Se alla morte quei devoti non arrivarono diritti in Paradiso, cosa dobbiamo sperare noi, comodi religiosi che ci informiamo prima se la messa è breve e se la chiesa è riscaldata? Il vestiario era di grossa lana filata dalle nonne e mista ad ancor più grossa canapa, pungente e pizzicante perché il filo era lo scarto di quella usata per la biancheria. Questa veniva filata in casa e tessuta in paese con telai rudimentali, poi candeggiata dalle ragazze con continui bagni (specialmente nei torrenti) e successive esposizioni al sole. Operazione questa che poteva impiegare tutta un’estate. I vestiti dei figlioli si ricavavano da vecchi abiti del nonno o di qualche altro scomparso, messo nella bara con una certa economia. Poteva anche capitare di vedere qualcuno di questi ragazzi con un gambale diverso dall'altro, ma la differenza non balzava tanto alla vista perché la lavorazione della trama e dell'ordito era sempre uguale ed il colore variava solo per l'anzianità di uno dei tessuti. Solo di toppe non si lesinava. Ve n'erano di tutte le fogge e misure. Molti vestitini ricordavano certe carte geografiche dei Ducati italiani. Toppe dappertutto: sulla culatta, sui gomiti, sulle ginocchia… e per risparmiar tempo le mamme non toglievano la precedente, benché lacerata, ma la coprivano con una nuova formando addirittura dei cuscini, collaborando in quel modo alla protezione dell'infanzia in caso d'incidenti. I fazzoletti non esistevano e le maniche delle giacchettine denunciavano l'assenza. Un unico vaso o piatto di terracotta serviva a tutta la famiglia strettavi attorno all'ora dei pasti. Un lucignolo immerso nel grasso e posto in un locale (solitamente la stalla) mandava attorno poca luce che non andava oltre ad un paio di metri, ma in compenso cacciava un fumo e un lezzo da irritare occhi e gola. Se è vero che il fumo provoca il cancro, non si riesce a capire come quella povera gente non fosse morta tutta di questo male. Il medico generalmente si chiamava quando l'ammalato tirava le cuoia, così si risparmiava sulle medicine. Si dava maggior credito alle ricette delle comari, basate su decotti, infusi e fumenti. * La camomilla, la malva, l'edera, il seme di lino e di ginepro, ortica cotta, dominavano il ricettario domestico. Le cure erano empiriche, frugali e veloci. Ne cito alcune:
Questi usi durarono fino alla mia infanzia, se mi ricordo di un ragazzo punto sul viso da un calabrone afferrato e costretto sopra un braciere sul quale erano stati gettati dei semi di canapa. Perché il fumento sortisse il suo effetto, il ragazzo fu coperto da sacchi e stracci. Il malcapitato si divincolava e tossiva maledettamente, poi sempre più debolmente per la mancanza di respiro. Fu tolto di là sotto mezzo asfissiato ed inerte. E sì, commentavano le donne, la canapa è un grande calmante! Ma torniamo all'argomento principale. Il vino migliore tassativamente veniva venduto all'ingrosso a brente, oppure al minuto mediante l'apertura di una briosca con permesso rilasciato dal Comune. La briosca era una vera osteria limitata alla mescita di vino di propria produzione. Aveva una caratteristica insegna consistente in un mazzo di rami di ginepro sporgente dal muro dell'abitazione dell'autorizzato. Per la necessità della famiglia sulla tavola veniva messa una bottiglia di vinello se non addirittura di pusca, grosso modo acqua passata sulle vinacce sciolte dopo la torchiatura e rimesse in botte con l'aggiunta di poco zucchero ed un pizzico di acidi tartarico e citrico per dare parvenza di frizzantello e di dolce. Per meglio dire quale e quanta importanza e rispetto si avesse per il vino, mi permetto di raccontare di un vedovo che ben conosco e di cui trattengo il nome per riverenza ad un vecchio Sindaco. L'uomo teneva nella dispensa, sotto chiave, diverse qualità del suo vino, dal buono al meno buono, per ricompensare le prestazioni galanti delle belle gargallesi a seconda della loro importanza, delle forme e dell'età. I figli del vedovo, sposati e maliziosi, al ritorno in casa non dovevano fare altro che annusare il bicchiere lasciato vuoto per capire di che grado ed età poteva essere la donzella ospitata. Molte volte riuscivano persino ad individuarla: se l'avanzo odorava di vinello era la solita vedovella anziana, se odorava di vino da vendere doveva essere qualcosa di maggior riguardo, ma se era profumato di vino da bottiglia di un'annata particolarmente buona l'avventura sapeva di primizia e di alto significato. Siccome in quella credenza di vino ve n'era di parecchie qualità, s'intuisce che l'arzillo vecchietto disponeva di vasta scelta. Molti produttori di vino utilizzavano le vinacce per alambiccarvi l'acquavite, che veniva venduta riservandone un paio di bottiglie per la famiglia; messe sotto chiave, servivano come panacea per tutti i mali, dalla slogatura al mal di denti, dall'indigestione ai reumatismi. Gli uomini si recavano in campagna lavorando dalle stelle alle stelle, vale a dire da prima dell'alba a molto dopo il tramonto, dedicando poco tempo per il pasto meridiano. In estate molti si recavano a confezionare mattoni nelle fornaci locali ed altrove. Erano specialmente ricercati dalle fornaci di Lozzolo, Ratina, Baragiotta di Prato Sesia, Oleggio, Curavecchia, Piello, Cremosina, Borgosesia. Partivano in primavera avanzata con tutta la famiglia su carri inviati dai singoli padroni e ritornavano sul finire dell'estate. Era abitudine trovarsi sulla piazza, cioè lo spiazzo sul quale si deponevano i mattoni appena confezionati, molto prima dell'alba e ritornarvi barcollanti dopo le ventuno o le ventidue dello stesso giorno. In primavera erano paffutelli, ma a fine estate erano scarni come uno stecchino, quasi trasparenti per le fatiche di quelle sedici o diciotto ore di lavoro sotto il sole d'estate. A questa attività collaboravano largamente anche le mogli ed i figli di tutte le età, perfino bambini. Le donne di Gargallo che non si recavano alle fornaci di buon ora partivano con la gerla verso le vigne, presso i fossi o negli spiazzi dei boschi a raccattare un pugno d'erba qua e là, per riuscire in una mattinata a riempirla per prolungare così di un giorno il risparmio del fieno di scorta sul fienile. Come fa specie oggi, in era di detersivi e di lavatrici, pensare a quella turba di donne che si recavano (qualche rara si reca ancora oggi) al riale od alla Grua con i gerli zeppi di panni sporchi trattenuti dallo sgabello e che, giunte, si inginocchiavano davanti a una larga pietra ed in quella incomoda posizione insaponavano e sbatacchiavano per delle ore gli indumenti, magari con neve ed altre inclemenze atmosferiche. Tornavano colle mani bianche e rattrappite, con la schiena a pezzi e con lo stomaco in disordine per la digestione bloccata dal freddo. E che dire poi di quelle che si recavano, sempre all'alba, nei boschi a far legna e strame, continuando a fare la strada tutto il giorno per portare a casa pesanti carichi sulle spalle e facendo vedere di qual misura fossero i muscoli del collo gettato in avanti in contrappeso alle clavicole tirate indietro dal carico? Dopo tanto lavoro, in autunno era abitudine alla sera riunirsi in gruppo e recarsi a turno presso le famiglie dei più facoltosi a stiare la canapa, cioè togliere la preziosa fibra, ossia la corteccia, dal fusto; oppure per mettere a nudo la pannocchia del granoturco e riunire le stesse in mazzi o reste; oppure per spezzare le noci e togliere il gheriglio destinato all'estrazione dell'olio. Questo lavoro era completamente gratuito, ma la magnanimità del padrone di casa beneficiava i volontari di un paio di sorsi di vinello, autorizzando gli intervenuti ad intercalare il lavoro con canti corali. Unico conforto a tanta fatica restava la grande fede nella Provvidenza. Si frequentava molto la casa del Signore e nei tre giorni delle Quarantore i fedeli si recavano compatti alle funzioni. All'ultimo giorno la chiesa era tanto gremita che noi ragazzi eravamo costretti, durante la lunga predica finale del Vespero, a sederci sul tappeto steso sopra la gradinata dell'altar maggiore per lasciare il posto dei banchi agli uomini. Alla mattina del giorno dell'Ascensione ci recavamo in processione a Gozzano per l'annuale visita allo scurolo di San Giuliano e la stampa sul vetro tombale del bacio propiziatorio; bacio preceduto da migliaia d'altri, dei quali era ben visibile l'impronta sul cristallo. Non poche comitive si recavano in pellegrinaggio, qualche volta in processione, al santuario di Boca. Gruppi di fedeli il 2 agosto, giorno dell'Angelo, si recavano in adorazione sul monte Mesma. Alla processione del Vespero nel giorno di San Fermo nessun gargallese doveva mancare ed era una gara fra i giovani per essere i primi a portare il Simulacro del Martire per le vie paesane. Chi non lo avesse portato almeno per pochi passi era tacciato di lesa Maestà. Alla sera la festa finiva magari in bagordi, ma la coscienza era a posto perché il Santo era stato rispettosamente onorato. In moltissime famiglie ogni sera si usava recitare il Rosario. Il giorno di Ognissanti nella zona si commemoravano anche i defunti. In tale occasione la famiglia al completo si attorniava al focolare e, fra lo scoppiettare del fuoco ed il borbottio delle castagne in ebollizione, si recitava il triplo Rosario. Dopo questo si passavano in rassegna tutti i parenti defunti fino alla settima ascendenza con relativa preghiera per ognuno dei nominati. Questa barbosa elencazione finiva fra lo sbadigliare dei giovani che solo allora sapevano della scomparsa di tanta parentela. L'assemblea si svegliava solo quando la direttrice di Corona ordinava una preghiera supplementare per l'anima di colui che aveva avuto il buon senso di lasciarci in eredità le piante che fornivano le castagne appena tolte dal fuoco. Terminata la cerimonia si mangiavano i frutti appena lessati e si assaggiava il nuovo vino ancora dolce dalla fermentazione. Era credenza che gli spiriti dei parenti invocati scendessero dalla cappa del camino per farci compagnia. Giunta l'ora del giusto riposo gli spiriti ritornavano nel loro regno, mentre a noi tentava di avvicinarsi il solito demonio dei mali quotidiani, sotto forma di un bestiale bruciore di stomaco derivato dalla lite delle castagne ingerite con quel vino ancora acerbo e bevuto con troppa abbondanza. Alla morte di un gargallese il cordoglio era generale. Alle sue esequie partecipavano quasi tutti i paesani ed era considerata sacrilega quella famiglia che non avesse inviato almeno un rappresentante. Volendo terminare questo capitolo con una nota allegra, mi è piacevole ricordare il proverbiale buon umore dei gargallesi e dei calzolai in particolare. Sebben fosse un paese di poca importanza, si era creato una figura carnevalesca che il volgo chiamava usualmente Re Sandròn (in effetti doveva essere Sciandròn, cioè Cenerone (dalla cenere, nominata scendra nel dialetto locale): al mercoledì delle Ceneri se ne bruciava il pupazzo come conclusione del carnevale, trascorso in sana letizia. Al culmine dei festeggiamenti si arrivava perfino alla distribuzione di trippa cotta, dispensata all'aperto gratuitamente. Ma ciò che i gargallesi avevano nel sangue era la passione per il canto corale. Sebbene nessuno o quasi avesse studiato musica, ** non appena era data l'occasione di trovarsi in gruppo uscivano da quelle bocche intonazioni da destare ammirazione. Sembrava incredibile che da digiuni di contrappunto potessero sortire cori a tre o quattro voci perfettamente intonati nelle ottave e con un ritmo perfetto da farli ritenere istruiti da chissà qual maestro. I ragazzi imparavano il solfeggio nelle botteghe dei calzolai, seguendo nel coro gli adulti intenti al proprio lavoro. Infatti questi laboratori erano le fucine del bel canto. Si cantava prevalentemente nelle botteghe, ma ogni occasione era buona per cantare anche per le strade, specialmente di sera; si cantava nelle osterie; si cantava a vendemmia; alla monda dei risi; si cantava cardando la lana per la prossima sposa, nello scartocciare il granoturco, nello spezzare le noci; si cantava ovunque. Alla festa e specialmente durante le solennità, come un tacito patto i migliori cantori si recavano in chiesa per dare libero sfogo alle loro ugole. Tutti compatti elevavano un Kyrie, un Gloria od un Credo tale da svegliare il più sopito dei Santi. Il compianto Don Zaretti non sapeva contenere la sua soddisfazione e sprizzava da tutti i pori la sua grande gioia per quel concerto intercalato da uomini e da donne protesi a rendere la funzione maestosa, possente, ordinata e solenne. Quei cori così poderosi portavano ad una profonda commozione e pareva straripassero oltre le mura del tempio. Peccato che alla fine della messa questa gioia venisse smorzata da quel solito e benedetto coadiutore che necessariamente aveva il compito di avvertire, in note musicali, che la cerimonia era terminata. Era costui il parroco di un paese molto vicino che, nelle solennità, veniva a Gargallo a fare il terzo nelle messe importanti. Non sapeva cantare, poverino, e Don Zaretti lo avrebbe esonerato molto volentieri dal canto finale se solo il cerimoniale non lo avesse impedito. Il poveretto ce la metteva tutta. Un paio di minuti prima del suo compito dava due colpetti di tosse, poi raschiava la gola e, dopo aver furtivamente infilato in bocca un mentino, emetteva tre o quattro note in sordina (come il trombettiere del reggimento quando attraversa il cortile della caserma prima di suonare la sveglia) senza azzeccare quella giusta. Noi, cattivi, aspettavamo con gioiosa e crudele trepidazione il momento fatale. Infatti il Reverendo si girava lentamente verso i fedeli e rassegnato lanciava il suo stonatissimo Ite, missa est! che faceva accapponare la pelle. Era un suono indefinibile che stava fra il belato, lo stridio dei freni del treno ed il grido di guerra degli indiani. Don Zaretti afferrava il calice in fretta e cercava di rifugiarsi in sacrestia; noi, impietosi e sempre in cerca del lato comico, cercavamo l'uscita coi capelli ritti, ma lieti che fra tanta armonia di suoni fosse uscito un falsetto giallo e lacerante. Si era nella casa del Signore e gli uomini avrebbero dovuto usare comprensione e misericordia; invece, con nelle orecchie quella specie di strillo, tutti uscivano piuttosto sorridenti come se quel povero sacerdote avesse distribuito un aperitivo. * Fumo provocato da
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