IL FORNO Nonostante abbia condotto lunghe ricerche, non mi fu possibile rintracciare il secondo forno comunale costruito a Gargallo e di cui parla il Mongini. Chi dice che trovavasi alla Valletta, chi al Casale Toeschi, chi nel Casale Comminazzini, chi al Casale Baroli, ma in nessuno di questi luoghi vi è traccia. Esistevano sì parecchi forni, ma erano tutti privati, rionali o casalinghi, sorti prima e dopo l'ordinanza municipale di confezionare il pane esclusivamente in quello comunale perché tutti corrispondessero alle spese incontrate per la costruzione. Il più importante, il più curato e frequentato era quello situato a un centinaio di metri dopo la piazzetta del peso, a sinistra della strada che scende verso l'oratorio di San Michele e precisamente sul terreno ora di proprietà degli eredi Baroli Enea. Non ne è rimasta nessuna traccia e la sua scomparsa dice com’è facile la trasformazione dei luoghi e delle costruzioni. Chi passa accanto a questo terreno non immagina che quello, dopo la chiesa ed il municipio, era il luogo più importante e frequentato di Gargallo. Al forno si davano convegno tutte le massaie che, organizzate a turno, portavano la cocia, cioè la propria razione di farina ricavata da grano, segale o granoturco prodotti sulla terra locale e data da macinare pochi giorni prima ad uno dei due mugnai che quasi ogni giorno venivano con un carretto, uno da Auzate (molino della Grua) ed uno da Briga, per ritirare il cereale o distribuire il macinato secondo il nome scritto sul sacchetto avuto in consegna. Era una discreta costruzione ad un sol piano con ampio sottotetto che fungeva da legnaia. Comprendeva, oltre al forno di cottura, un capace portico con entrata da ovest, un locale di manipolazione ed un ripostiglio per pale ed utensili. Il portico confinava a nord, con parete piena della larghezza di metri sei e mezzo, con la strada. In profondità, verso sud, si addentrava il resto del fabbricato per metri sedici e mezzo formando un rettangolo. Venendo dalla strada e su una salitella, per primo si incontrava il portico, tutto aperto soltanto ad ovest, cioè verso San Michele, e con pavimento di terra battuta sul quale la massaia della famiglia di turno per prima cosa depositava la propria razione di fascine di legna che doveva servire per riscaldare il forno. Proseguendo sempre sul lato ovest e sulla stessa linea del portico s'incontrava una pesante e rustica porta di legno del tipo pieno, cioè senza vetri, sulla quale si era sovrapposta la polvere di farina di parecchie generazioni da volta in volta bagnata dalla pioggia ed indurita dal sole. Proseguendo esternamente, sullo stesso lato si incontrava una finestrella quadrata di circa sessanta centimetri di lato che rappresentava l'unica fonte di luce al locale retrostante, destinato alla panificazione. Più oltre, sempre esternamente, sul fronte ovest si vedeva una specie di feritoia che serviva ad illuminare un ripostiglio di cui parlerò oltre. Tutte le altre pareti non avevano alcuna finestra. Fra il locale di panificazione ed il portico stava uno spesso muro di divisione nel quale, a metà circa, era stato scavato un pozzo di buona acqua. La tromba o canna di questo pozzo sporgeva nel menzionato portico per circa metà della sua circonferenza come la convessa schiena di una nicchia. Dalla parte opposta invece, nel locale di panificazione, si apriva a fil di muro provvisto di torno, fune, secchio e tazza, riparato da una buona porta di legno munita da un potente catenaccio. In faccia al pozzo, ad una distanza di quattro o cinque metri, sulla parete opposta stava il forno di cottura. Entrando dalla porta nel locale di panificazione, sul pavimento di acciottolato, a sinistra, accostata alla parete nord, si incontrava la prima madia, dopo questa il pozzo e poi, in fondo all'angolo, un basso focolare sul quale si trovava una grossa caldaia di rame per scaldare l'acqua. Sulla buia parete est e contro di essa stava un tavolone di circa tre metri per uno sul quale venivano posti verticalmente ed addossati uno all'altro i pani appena sfornati. Sopra il tavolo stava un ripiano su cui erano conservati gli sculotti o recipienti per la formazione dei pani, il mortaio per pestare il sale ed altri piccoli utensili. Dopo il tavolo, all'angolo sud-est erano riposti altri utensili più ingombranti come pale, attizzatori e raschietti e l'immancabile lungo bastone con legato alla sommità uno straccio bagnato, generalmente di iuta, che serviva per l'ultima scopata del forno prima di introdurvi le forme di pasta per la cottura. A sud stava il vero forno di cottura (perché forno veniva chiamato tutto il fabbricato), con bocca pentagonale col vertice in alto per facilitare l'uscita del fumo che non veniva mai sufficientemente raccolto dalla grande cappa sovrastante che finiva in un grosso camino. Tanta era la potenza del fumo che, dopo aver riempito tutta la cappa, si arricciava sul bordo della stessa come in un disperato tentativo a non voler invadere il locale, ma le ondate che si susseguivano lo costringevano a straboccare ed allora irrompeva sul soffitto a frotte ed in poco tempo formava uno strato che partiva dalla volta e scendeva fino all'altezza di circa un metro e mezzo, livello un poco più basso da quello della sommità della porta e della finestrina da dove si infilava rapido e quasi lieto della libertà. Noi ragazzini non soffrivamo, ma delle donne, specialmente quelle alte come la fornaia, vedevamo chiaramente solo dalle spalle in giù, essendo la testa immersa in quella specie di nebbia scura; testa che ogni tanto si abbassava per respirare un pochetto di aria buona. Naturalmente questo avveniva soltanto nel momento in cui si aveva bisogno di scaldare fortemente il forno, poi il fumo in parte veniva assorbito dalla cappa o cacciato dalle aperture con grembiuli ed in parte si appiccicava al soffitto insieme al precedente. Il forno si allungava in tutto il resto della costruzione, mentre la larghezza si fermava ad un metro o poco più dalla parete ovest, lasciando un vuoto che veniva utilizzato a ripostiglio, illuminato da quella specie di feritoia di cui ho fatto cenno sopra. Accostata al muro sud, fra la bocca del forno e la porta del ripostiglio, era situata una seconda madia sopra alla quale stava un altro ripiano che serviva a deporvi oggetti occasionali. Alla parete ovest e sotto alla finestra si trovava la terza madia e dopo questa, contro il muro, era stata messa la testata del grande tavolo per la panificazione di circa 2,50 x 1,50 metri di superficie; dopo il tavolo si ritrovava la porta d'entrata. La lievitazione avveniva unicamente nella madia ed al momento della confezione dei pani era consigliabile allontanarsi. Le donne infilavano un grembiulone che avvolgeva tutto il corpo da sotto il mento alle caviglie. Affondavano le mani nella pasta e le riunivano per raccogliere una calcolata razione che veniva riposta in una ciotola di legno (sculot) con un diametro di circa trenta centimetri dentro alla quale, precedentemente, si era messa una manciata di farina perché la pasta non attaccasse al recipiente. Girate sopra il tavolone, le donne gettavano in alto la pasta per subito raccoglierla nel suddetto recipiente che tenevano saldamente fra le mani, sollevando uno di quei polveroni di farina che a malapena scorgevano la compagna di fronte. Questo esercizio continuava per sei, otto volte fino quando la pasta aveva ottenuto la rotondità voluta, raggiunta la quale accorrevano a deporre il globo sulla pala di legno appoggiata sul davanzalino della bocca del forno; pala ben tenuta a due mani dalla fornaia-titolare come simbolo della sua competenza ed autorità; e che razza di autorità, se sappiamo che la fornaia era la donna più importante del paese dopo la maestra delle elementari. Dato che le donne si alternavano, la fornaia, prima di introdurre i pani nel forno, faceva su ogni impasto un segno particolare per riconoscerne il proprietario dopo la cottura: un foro coll'indice o un pizzicotto o una triade composta dall'impronta del pollice, indice e medio. Questo era il pane di largo uso, ma come una leccornia si confezionava anche il brusareu, il grijet, lo spianè, il pane coll'uva. Terminata l'operazione le nostre donne apparivano bellissime con le loro mani candide, con la faccia vellutata di farina, ciglia e sopraciglia brinate e coi capelli brizzolati da fata. Siccome erano sorridenti per il lavoro ultimato, nella penombra del luogo e con quel lungo grembiule a mo' di tonaca e così ben incipriate fra il profumo caldo del pane in cottura pareva di vivere una di quelle scene greche viste stampate sui libri di scuola. Ai primi di questo secolo, o tutt'al più alla fine del precedente, non esisteva l'uso, si può dire, di cibarsi di pane di frumento e tutto il pane gargallese, di forma rotonda di una quarantina di centimetri di diametro, veniva confezionato qui, ove ogni famiglia veniva a turno ogni quindici giorni circa, perché tanto doveva durare la provvista; la quale veniva poi deposta su dei pioli infilati a raggio ad un tronco di legno appeso al soffitto, per difenderla dai topi, in un locale che solitamente era la cantina od il granaio. Generalmente ogni singola infornata era di tre proprietari, perché tale era il numero delle madie poste a disposizione. Era di regola che ogni madia desse una piccola razione di pasta che, unita a quelle delle altre due, formava un pane che veniva offerto alla chiesa. Siccome le infornate giornaliere erano almeno due, questi pani, circa una dozzina, alla domenica venivano venduti all’asta al portico della chiesa di San Pietro. Ogni tanto, per necessità parrocchiali, la fornaia raccoglieva della farina per fare una cavata di pane a totale beneficio della chiesa. Il primo forno per la lavorazione di pane di frumento a piccolo formato fu costruito, all'alba di questo secolo ed insieme alla nuova casa in frazione Valletta, da Guidetti Giulio, fortunato emigrante da cui discendono gli attuali Guidetti panificatori. © Tutti i diritti sono proprietà esclusiva e riservata degli eredi dell'Autore
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