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Vendesi, affittasi, cedesi attività

di Andrea Saviano


Tutto era cominciato con un trillo al telefono. Una di quelle chiamate tanto inaspettate quanto spiacevoli. Era mia sorella e lei non mi chiamava mai. Sentirla a un'ora insolita m'inquietò. Non che i rapporti tra noi fossero difficili, più semplicemente lei apparteneva a quella categoria di esseri umani che ha un pessimo rapporto con il telefono.

« What the hell?! » Esclamai non capendo se si trattasse della sveglia o del telefono.

Poi, non appena riconobbi la voce, mi preparai a un qualche grave motivo, l'unico che l'avrebbe indotta a chiamarmi a quell'ora. Inutile confessare che pensai alla dipartita di uno dei nostri anziani genitori. Invece, a causa d'un malore improvviso (definito da mia sorella come “una complicazione”) dopo lunga e penosa malattia era venuta a mancare una persona “importante”. Uno di quei non-consanguinei tanto intimi alla famiglia che da piccoli si finisce per confondere con uno zio. La cosa era accaduta proprio prima che da me l'aurora potesse chiamarsi mattina e da loro il tramonto potesse essere definito sera.

Ascoltai le frasi scomposte e imbarazzate che lei mi disse, senza però trovare una sola parola che fosse adatta alla circostanza.

Ora, per quanto avessi tentato per tutta la vita di abituarmi all'idea di una sua telefonata per annunciarmi la dipartita di una persona cara, adesso che era accaduto m'ero scoperto non all'altezza di gestire il momento. Forse per l'abitudine a esternare le sensazioni con i gesti: una carezza, un abbraccio, una stretta di mano. Cose che al telefono non sono possibili.

« Quand'è il funerale? » Chiesi senza tentare di girarci intorno.

« È previsto per domani, ma tu non ti preoccupare. Vivi lontano, anche se non vieni i familiari capiranno. Se vuoi dei fiori o altro sulla bara, ci pensiamo noi. Non è necessario che tu venga fin qui, poi rischi addirittura di non fare in tempo. »

« No, prendo il primo volo della mattina e vengo lì. »

« Va bene, se ci tieni. Fammi sapere l'orario d'arrivo. Ti faccio venire a prendere all'aeroporto da mio marito. Avverto mamma e papà. Ti aspettiamo, ciao. »

« Ciao. »

Erano almeno vent'anni che non mettevo più piede in quel paese nel cuore del Verghereto. In pratica da quando la carriera accademica m'aveva portato oltreoceano. Da quel giorno nella mia vita nulla era cambiato affinché tutto potesse cambiare, perché se si resta troppo legati agli affetti e al proprio passato è difficile cogliere certe occasioni. Anche per questo avevo accuratamente evitato di tornare, di lasciare che il passato potesse risucchiarmi indietro facendo leva sui rimpianti. La separazione dalla mia patria e dalle mie origini era avvenuta quando insegnavo all'università di Bologna ed era stata una scelta di vita irrevocabile.

L'occasione era nata a seguito di alcuni articoli che avevo pubblicato su delle riviste specializzate, le osservazioni analitiche che sollevavo in quei scritti avevano destato particolare interesse nel mondo accademico, soprattutto in quello particolarmente sensibile all'aspetto “pratico”. Cosicché, tramite la raccomandazione di alcune aziende statunitensi operanti in borsa, m'era stata offerta una cattedra a Boston e, nella tipica euforia mista a un po' d'incoscienza che aveva caratterizzato tutta la mia vita, avevo accettato ritenendo all'epoca che nulla mi legasse in realtà a una patria che in fin dei conti detestavo.

Lì negli USA la professione era rimasta la medesima, ma il trattamento economico, il prestigio riconosciuto all'insegnamento e la possibilità di trasformare le proprie conoscenze in qualcosa di concreto era stato ben diverso. In questo semplice “you can” c'era sintetizzato tutto il sogno americano.

Fu un giorno incredibilmente lungo quello che mi portò da Bologna a Boston. Fuggendo con l'aereo in direzione opposta al tramonto la notte di quel mio D-day parve non giungere mai.

Adesso, che da Boston tornavo a Bologna, tutto accadeva all'esatto contrario.

Quando m'era arrivata la telefonata il sole doveva ancora sorgere e adesso che stavo atterrando, anche se erano trascorse poche ore, era già sera inoltrata.

« And suddenly the evening comes. »

Dalla mia bocca uscì quest'improvvisata traduzione di Montale quando, seppure per scendere e non per salire, fui nuovamente sulla scaletta dell'aereo. Spesso pensavo in italiano e parlavo per abitudine in inglese, perché in quei vent'anni trascorsi all'estero Italia e USA s'erano fuse in me come un'unica confusa entità.

Al cancello degli arrivi trovai ad attendermi, come pattuito con mia sorella, suo marito. La sensazione che ricevetti nel rivederlo fu che fosse indubbiamente invecchiato. Dopotutto lo ricordavo come un ragazzino rompiscatole che non faceva altro che ronzare intorno alle gonne di mia sorella. Credo che anche lui ebbe la medesima impressione nei miei riguardi, perché mi fissò a lungo e dubbioso.

Vent'anni in fin dei conti lasciano un'evidente traccia del tempo passato su chiunque, che si tratti di qualche naturale ruga o capello bianco, come nel nostro caso, oppure dell'innaturale alterazione dei lineamenti e dell'espressione provocata dalla chirurgia plastica, come era accaduto a molti presunti divi cinematografici e televisivi.

Anche l'Italia in vent'anni era cambiata. Difficile dire se in meglio o in peggio. Sicuramente in peggio se si partiva dalle speranze che vent'anni prima gli italiani riponevano nel futuro, ma come si sa le attese sono sempre verso un utopico meglio.

Di sicuro la parte d'Italia tra Bologna e il Verghereto era molto diversa dal ricordo che serbavo. Lì dove un tortuoso e ridotto serpente d'asfalto portava una volta al borgo dov'ero cresciuto, era stato sostituito da gallerie e viadotti che passavano attraverso i monti o che saltavano le valli balzando da una montagna all'altra. Ebbene, quello che ricordavo come un lungo e avventuroso viaggio s'era ridotto alla sensazione d'aver preso una tangenziale.

Se l'aver accorciato i tempi era apparso all'inizio come un indubbio vantaggio, appena prendemmo lo svincolo per l'abitato fui colpito da un tuffo al cuore.

Lo stato d'abbandono della montagna e di molti edifici unita alla comparsa di molti cartelli che recitavano: vendesi, affittasi e cedesi attività, mi diedero il triste presagio che quello fosse un paese morente.

Allo stesso modo, quando mio cognato fermò la macchina davanti la casa dei miei, ebbi l'impressione che lo stabile fosse molto più decrepito di come lo rammentassi. Eppure ogni fessura, ogni singola crepa di quell'edificio avevano composto il mio personale territorio di caccia. Lì io trascorrevo interi pomeriggi dopo la scuola per realizzare le mie imboscate alle lucertole.

Un passatempo che aveva consumato interi pomeriggi della mia infanzia nell'attesa di un unico irripetibile istante: quello della cattura.

« L'uomo che scorda da dove è partito, non è più in grado di capire dove sia il punto d'arrivo del proprio cammino. Questo lo comprende solo quando il destino lo riporta esattamente lì dove tutto era iniziato. Sconcertato da questa ovvietà e sopraffatto nell'animo, ogni uomo che fugge si rende così conto di non aver viaggiato, ma di aver girato in tondo, fuggendo senza una vera meta, » mormorai in italiano, evitando così un eventuale lost in traslation dell'ultima frase che il caro estinto m'aveva detto prima che partissi.

« Cosa? » Chiese mio cognato, riproponendo così quella che era stata la mia risposta allora.

« Niente, parlavo tra me e me ad alta voce. »

Scesi dall'auto, scaricai il trolley e lo salutai, ringraziandolo per il disturbo. A quel punto frugai nelle tasche in cerca del mio vecchio mazzo di chiavi.

« I hope it was still good! » Esclamai, nella speranza che i miei nel frattempo (vent'anni) non avessero cambiato la serratura.

« Things sometime change. Why? Because changes hapen, that's the truth, » dissi tra me e me ad alta voce, quindi infilai la chiave nella toppa. Non parve trovare né opposizione nell'entrare né tantomeno nel girare. Infine, un secco scatto confermò che alcune cose, come l'affetto per le persone care, con il tempo non cambiano e nella volontà di non sostituire la serratura ravvisai l'affetto di mamma e papà nei confronti del loro “figliol prodigo”.

CONTINUA