Franco Ragusa
La “riforma” truccata
REFERENDUM ABROGATIVO
democrazia diretta o eccesso di delega?
Si è molto parlato, negli ultimi tempi, di un uso eccessivo e distorto
del referendum di tipo abrogativo previsto dall'art. 75 della nostra Costituzione.
Partendo dal presupposto di dover comunque accettare, almeno come stato
di fatto, tutto quanto operato dalla Corte Costituzionale in materia di
ammissibilità dei quesiti referendari, è quanto mai curioso che si possa
parlare di uso eccessivo: lo strumento c'è, è regolamentato, per cui non
si capisce, molto banalmente, per quale motivo non si dovrebbe impiegarlo
ampiamente.
Per quanto riguarda, invece, la netta impressione che se ne possa fare
un uso distorto, qui rientriamo in una categoria di giudizio che investe,
perlopiù, il campo della politica.
Al di là delle considerazioni di opportunità politica, infatti, appaiono
poco chiare tutte quelle critiche rivolte a considerare illegittimo l'uso
dello strumento referendario laddove si ritenga che attraverso l'intreccio
di vari quesiti abrogativi si possa riuscire ad intervenire su delle materie
rispetto alle quali, invece, logica vorrebbe che fossero esaminate con
un diverso procedimento e una più ponderata attenzione.
Ma non è certo colpa dei referendari se riguardo a tal punto la Carta
Costituzionale non risulta di chiara lettura. Piuttosto, nel caso si ritenga
che esistano dei limiti impliciti, al di là di quanto previsto dall'art.
75, bene sarebbe riformulare in modo trasparente tutta la materia.
Oltre che guadagnarne in chiarezza, si eviterebbe alla Corte Costituzionale
un'inutile sovraesposizione laddove, coerentemente con un'interpretazione
del diritto che va oltre quanto dichiarato dal semplice comma di un articolo,
questa potrebbe ritenere di dover giudicare come non ammissibili dei quesiti
referendari riguardanti delle materie non espressamente escluse.
Quest'attività interpretativa, infatti, che di fatto ha allargato la sfera
delle fattispecie per cui valgono i limiti previsti dall'art. 75, ha dato
la stura a tutta una serie di considerazioni politiche riguardo alla presunta
assunzione, da parte della Consulta, di un ruolo attivo a favore di questa
o di quella parte politica.
D'altro canto, un'interpretazione alla lettura dell'art. 75, con la quale
si trascuri volutamente l'esame dei possibili effetti correlati che con
l'abrogazione di determinate norme si potrebbero venire a determinare,
aprirebbe in misura oltremodo pericolosa, per la certezza del diritto,
la strada all'ammissibilità di qualsiasi quesito referendario che non
si occupasse esplicitamente delle materie per le quali ne è espressamente
escluso il ricorso.
Ma non è in questa sede che si cercherà di chiarire la vexata quaestio
sui giudizi di ammissibilità della Corte Costituzionale, ritenendo piuttosto
più opportuno, nell'attuale fase di trasformazione “politico istituzionale”
del nostro Paese, mettere in luce tutti quei meccanismi con i quali si
è riusciti a trasformare, con pericolosa disinvoltura, un'espressione
di democrazia diretta in un'espressione di democrazia “eccessivamente”
delegata.
Tanto più che, per alcuni risultati referendari, i limiti tecnici dello
strumento fanno sì che per delle stesse materie la parola non possa più
tornare al popolo. Si pensi, ad esempio, a cosa avverrebbe nel
caso venisse abrogata la legge che regolamenta il divorzio: da quel momento
in poi, venuti meno tutti i riferimenti normativi, che cosa potrebbero
abrogare, i cittadini, per poter porre di nuovo mano alla questione, e
quindi cercare di ripristinare l'Istituto del Divorzio attraverso l'uso
del referendum?
È evidente che non potrebbero intervenire in alcun modo, e sarebbero quindi
costretti a doversi rivolgere per intero all'attività legislativa del
Parlamento. Insomma, in un primo momento la volontà dei cittadini è competente
a poter intervenire per modificare una determinata materia; ma da quel
momento in poi, nel caso si volesse rivedere quella decisione nel senso
opposto, ne viene di fatto esclusa qualsiasi competenza. E ciò, in varia
misura, è tanto più grave quanto più questa esclusione potrebbe andare
ad intervenire su materie, tipo quella elettorale, per le quali sia lecito
ritenere che la classe politica, divenuta maggioranza parlamentare proprio
grazie ad un determinato regime di regole, non abbia alcun interesse al
cambiamento.
Ma per non rimanere troppo in astratto, è forse più utile ripercorrere
alcune tappe della storia del referendum abrogativo in Italia, nei risultati
e nei comportamenti dei protagonisti che di questo strumento hanno fatto
la loro principale arma politica.
------------------------
Uno dei maggiori limiti del referendum di tipo abrogativo è quello di
non poter permettere la definizione, nel momento stesso dell'abrogazione,
di un'eventuale dottrina integrativa laddove questa si potrebbe rendere
necessaria o comunque possibile. Non esiste infatti nessuna possibilità,
da parte dei comitati promotori, o del cittadino chiamato a rispondere
"Sì o No" riguardo all'abrogazione di una Legge o di una parte di essa,
di poter indicare le linee guida dei successivi passaggi idonei a perfezionare
o a dare un determinato significato normativo all'eventuale vittoria dei
Sì.
Questa prima considerazione, credo che debba farci riflettere riguardo
alle reali intenzioni con le quali l'Assemblea Costituente si accinse
ad istituire e regolamentare questo strumento di democrazia diretta. È
evidente, infatti, che il poter intervenire soltanto su quello che già
vige, dovrebbe porre un limite tecnico insuperabile, non casuale, a tutti
coloro che, invece, tendessero ad abrogare non per chiudere una questione,
ma per aprirla in un altro modo.
Ma di questo limite tecnico non se ne è mai curato nessuno, né nel senso
di eliminarlo e né nel senso di tenerne conto fino in fondo, tant'è che
è divenuto pacifico ritenere che con l'atto abrogativo non ci si limiti
a chiedere soltanto di esprimere una volontà meramente affermativa oppure
negativa – del tipo: "Vuoi il divorzio oppure no? Vuoi depenalizzare
l'uso di droghe oppure no?" – ma che con questo si tenda anche ad
innescare un processo di tipo propositivo.
Questo salto in avanti è stato reso possibile dall'instaurarsi di una
prassi, in base alla quale si è ritenuto di dover adottare degli interventi
legislativi ogni qual volta si è posta "l'esigenza" di dover perfezionare
determinati risultati referendari: o al fine di poter rendere le nuove
normative di perfetta attuazione, o al fine di non lasciare scoperte determinate
materie per le quali si riteneva essenziale che ci fosse un'adeguata copertura
normativa. Appare allora logico, in tal senso, che per questo tipo d'interventi
si debba far ricorso ad un'attività interpretativa che faccia riferimento
ad una presunta volontà normativa implicitamente espressa con l'atto abrogativo.
Ma i problemi, accettando questo tipo di logica, anziché ridursi tendono
ad aumentare, e non potrebbe essere altrimenti, visto che ci si viene
a trovare in un terreno dove non vigono più regole certe.
Infatti, è proprio a partire dalla fine di ogni tornata referendaria che
s'innescano le inevitabili polemiche riguardo al come interpretare la
volontà di chi sembrerebbe si sia espresso in modo univoco: se è infatti
pacifico che con l'abrogazione si sia detto un chiaro NO riguardo
ad un qualcosa che si vuole non debba più esistere, o che non debba più
esistere in un dato modo; nessuna certezza può però esserci riguardo a
quello che in sua sostituzione i cittadini potrebbero volere. Insomma,
tra il Sì ed il No potrebbero tranquillamente collocarsi
una variegata categoria intermedia di "Sì al cambiamento, ma a queste
condizioni"; ma come già accennato, l'esclusione di ogni attività
propositiva, imposta allo strumento referendario, nulla permette riguardo
al modo di come individuare con certezza la posizione intermedia che meglio
riesca a rappresentare la volontà dei cittadini.
Uno dei casi più clamorosi di presunto tradimento del risultato referendario
ci fu in occasione dell'abrogazione delle norme che delimitavano in pochi
casi circoscritti la responsabilità civile dei giudici. Ben presto, infatti,
il Parlamento approvò una nuova legge che, secondo la parte del Comitato
promotore rappresentato dai radicali, altro non era che un ritorno camuffato
alle norme abrogate, tanto da far ritenere a Mauro Mellini che ci fossero
dei margini d'intervento giuridico tali da poterne decretare l'annullamento:
-“La legge varata dalla Camera non avrebbe avuto l'effetto di non far
tenere il referendum se approvata prima della data fissata per il voto
popolare (lo stesso Vassalli espresse analogo parere per il progetto Rognoni).
Approvata dopo che il popolo si è pronunziato, essa non solo costituisce
un affronto politico ben più grave alla sovranità popolare, ma non può
secondo logica e Costituzione, rimanere senza un rimedio analogo a quello
che la Corte Costituzionale ha ritenuto dovesse operare per le norme meramente
«sostitutive», approvate prima del voto, attraverso lo spostamento su
di esse del giudizio del corpo elettorale.” (Mellini Mauro - AGORA'
TELEMATICA: ARCHIVIO PARTITO RADICALE Nº 705)
L'accenno qui fatto ad un'eventuale approvazione della “Legge 13/4/88 Nº
117”, prima che si svolgesse il referendum, fa riferimento ad una sentenza
della Corte (Nº 68 del 16/5/78) che, accogliendo un ricorso dei radicali,
determinava che si potevano sospendere le operazioni referendarie già avviate
soltanto in quei casi nei quali con degli interventi legislativi fossero
state nel frattempo cambiate nella sostanza la norme che con il referendum
si volevano abrogare.
Per Mellini era evidente che la nuova legge varata dal Parlamento fosse
molto simile, nella sostanza, alle norme abrogate dai cittadini,
per cui pose la questione del come comportarsi anche per il dopo referendum:
se si accettava il principio che il varo di quella legge non avrebbe potuto
avere l'effetto di far sospendere le operazioni referendarie, era chiaro
che gli effetti abrogativi si sarebbero trasferiti su quella nuova normativa
e che quindi, visti i risultati, anche se promulgata soltanto successivamente
al risultato referendario, andava ritenuta come abrogata.
A parte il fatto che un eventuale giudizio di merito avrebbe potuto dare
torto a Mellini, nel caso cioè che si fosse giudicato che quella legge poteva
ben ritenersi soddisfacente al fine di poter decretare sospese le operazioni
referendarie, va comunque evidenziato che quella di Mellini non poteva essere
una strada percorribile, avendo comunque il Parlamento la legittimità, nel
tempo, di poter legiferare senza nessun limite di competenza, e non essendoci
nessun elemento probante che potesse permettere di poter determinare con
precisione la presunta volontà dei cittadini che si era espressa nel voto
referendario; laddove era invece lecito ritenere che questa volontà non
aveva avuto modo di potersi esprimere con chiarezza.
Anche nel caso specifico, infatti, come poter determinare quale livello
di responsabilità civile, per i giudici, i cittadini avrebbero voluto instaurare?
Oppure, erano veramente interessati, i cittadini, al referendum in quanto
tale, in riferimento ai contenuti che poteva esprimere, o piuttosto, non
avendo altre opzioni a disposizione, lo avevano votato pur non condividendolo
in quanto possibile mezzo per poter mettere in discussione il sistema di
garanzie a tutela dei diritti dei cittadini?
Paradossalmente, aveva in precedenza già risposto, al tipo di rilievo
mosso da Mellini, proprio Marco Pannella:
-“Si recepisce in tal modo, da parte di quasi tutti, una “trovata”
della Corte: se il Parlamento legifera "nella direzione voluta" dai richiedenti,
il referendum non si tiene più, anche se è già stato convocato.
Così, il “referendum abrogativo” che presuppone alla sua base non già
una volontà positiva univoca di legiferare ma un “cartello dei no” per
l'abrogazione della norma esistente (che può dunque vedere convergere
anche forze con ispirazioni e motivazioni e obiettivi mediati diversi
o contrapposti) viene abusivamente inchiodato a presupporre ed assumere
obiettivi, idee, proposte, tendenze di diritto positivo implicite ma chiare
e determinate. Si impone, insomma, una ratio, una economia da “referendum
propositivo”, non a caso rifiutato dai costituenti e comunque estraneo
alla nostra Costituzione.” (Pannella Marco - AGORA': ARCHIVIO PARTITO
RADICALE Nº 2120)
Come si vede, timoroso di vedere sospesa la consultazione referendaria,
il primo a rifiutare qualsiasi logica propositiva, nel senso di poter ritenere
di sapere a priori la volontà degli italiani, fu proprio Pannella; e questo
perché, laddove si fosse accettato il principio che fosse stato chiaro il
risultato finale al quale tendevano i comitati promotori del referendum,
si sarebbe pure potuta mettere in discussione la necessità giuridica di
dover mantenere la scadenza referendaria in tutti quei casi nei quali ci
si poteva trovare in presenza di un intervento legislativo che andava nella
stessa direzione. E giustamente, Pannella rileva come sia impossibile poter
leggere in modo univoco le intenzioni di “forze con ispirazioni e motivazioni
e obiettivi mediati diversi o contrapposti”, per non parlare, poi, di
quello che avrebbero comunque potuto pensare i singoli cittadini chiamati
ad esprimersi.
Ma allora, alla luce di quanto affermato poi in seguito da Mellini, dobbiamo
ritenere di trovarci di fronte a tante logiche, tutte buone, a seconda del
risultato che si vuole raggiungere?
Una logica da seguire prima dello svolgimento del referendum, che tende
ad escludere ogni intervento teso a sospenderlo, anche nel caso venisse
individuato nell'intervenuta attività del legislatore il recepimento delle
intenzioni dei proponenti, in quanto si ritiene che non esista una volontà
univoca a cui far riferimento per poter esprimere dei giudizi di merito.
Un'altra logica, invece, buona per contestare tutti gli interventi successivi
del legislatore, laddove si giudichi che questi non facciano riferimento
alla chiara espressione di volontà, questa volta presunta univoca, avutasi
con il risultato referendario.
Detto questo, è opinione diffusa e ben giustificata che, come lamentato
dai radicali, con la nuova legge sulla responsabilità civile dei giudici
si sia in gran parte tradita la volontà dei cittadini che si espresse
con la vittoria referendaria.
Ma allora, perché spaccare il capello in quattro proprio dalla parte dei
radicali?
Semplice: per questo tipo di giudizi, visti i limiti tecnico-giuridici
imposti all'attuale strumento referendario, per il fatto stesso di essere
soltanto di natura abrogativa, non esistono elementi sostanziali da poter
far valere, perché nell'ambito della fascia intermedia fra il Sì
ed il No c'è posto per tutte le possibili soluzioni; anche per
quelle soluzioni che, per assurdo, potrebbero trovarsi molto vicine, nel
merito, alle questioni di partenza che si sono volute abrogare.
In altre parole, l'espressione di democrazia diretta attuata con il referendum
abrogativo, laddove non raggiunga dei risultati normativi che possano
esplicitamente escludere qualsiasi possibile successiva attività legislativa
(del legislatore!), non può che rimanere esposta alle più varie interpretazioni,
limitandosi, di fatto, ad assolvere una mera funzione d'indirizzo con
riferimento al come risolvere determinati problemi; se non, addirittura,
a ridursi a mera proposta d'intervento per alcune questioni.
Ma per meglio chiarire questo punto, è opportuno fare un accenno ad uno
dei tanti referendum promossi dalla Lista Pannella: quello che riguardava
la sanità e che per il quale la Corte Costituzionale ha sentenziato, nel
gennaio del 1995, la non ammissibilità.
Anche in questo caso, non è tanto la questione giuridica che è interessante
prendere in esame, ma quella squisitamente politica che si desume leggendo
quanto sintetizzato direttamente dai proponenti:
-“Richiesta di referendum per consentire la scelta tra l'iscrizione
al Servizio Sanitario Nazionale o ad un'assicurazione privata.
... Il referendum punta a “mettere in concorrenza” sanità pubblica
e intervento privato; questo sistema “porterebbe ad una drastica riduzione
dei costi”” (Lista Pannella - AGORA': ARCHIVIO PARTITO RADICALE Nº
5796)
Ora, anche ammettendo d'essere d'accordo con questo tipo d'impostazione,
riguardo al come far evolvere il sistema della Sanità in Italia, viene da
chiedersi: ma quale sarebbe stato il risultato normativo effettivamente
raggiunto in seguito all'affermazione del referendum proposto?
In altre parole, cosa avremmo potuto effettivamente determinare, noi cittadini,
con la vittoria dei Sì?
È evidente che il risultato di un voto favorevole a questo quesito avrebbe
poi comportato, da parte della classe politica, il dover elaborare un progetto
di riforma ancora tutto da definire.
Tanto per fare un esempio: allo stato attuale le assicurazioni private si
rifiutano di assicurare i malati cronici e le persone anziane, praticamente
il grosso della spesa sanitaria; grosso della spesa che rimarrebbe, quindi,
sempre a carico dello Stato, mentre i privati potrebbero tranquillamente
garantire un buon servizio a chi sta praticamente bene.
Ma allora, come regolamentare questo rapporto anomalo che sposta le risorse
economiche in maniera assurda e diseguale nell'ambito di un discorso concorrenziale?
Per non parlare, poi, di tutti i problemi relativi ai contenziosi che si
aprono con i privati: se ti dimentichi di pagare la polizza, sei immediatamente
perseguito e non hai più diritto a nulla; se devi invece farti rimborsare
mille Lire, passano anni fra avvocati e tribunali, alle prese con cartelle
cliniche contestate e perizie di ogni tipo. E vista questa situazione, sarebbe
quanto meno auspicabile che ci si preoccupi di creare delle corsie giudiziarie
preferenziali proprio per questo tipo di problemi; che già adesso sono all'ordine
del giorno e che tanto contribuiscono a far sentire il cittadino indifeso
e che, se presi seriamente di petto, si risolverebbero velocemente.
E di queste banalità da risolvere, si potrebbe andare avanti per ore.
Quindi, un voto referendario che non avrebbe prodotto risultati normativi
concreti, ma che avrebbe assegnato un ampio mandato legislativo al Parlamento
contenente soltanto una mera indicazione di massima; e come già scritto
in precedenza, la cosa somiglia pochissimo alla democrazia diretta, ma tanto
ad una democrazia “eccessivamente” delegata.
Si potrebbe subito obiettare: ma lo scopo di alcuni referendum è proprio
quello di costringere il Parlamento a legiferare su una data materia secondo
l'indicazione venuta dai cittadini.
Al che si potrebbe subito replicare: sì, va bene, ma visto che ci tenete
tanto a sapere il parere dei cittadini su una determinata questione, ma
perché non v'informate pure “di che morte vogliono morire?”
Uno potrebbe benissimo accettare la logica contenuta nella proposta referendaria,
ma a patto che... si verifichino pure tutta un'altra serie di condizioni.
Il dover accettare, invece, i principi contenuti nel referendum proposto,
senza avere alcun tipo di certezze sul come verrà poi regolamentato il tutto,
equivale a firmare una cambiale in bianco.
Fatta quest'altra considerazione, viene allora da chiedersi: ma conviene,
al cittadino, e in primo luogo ai promotori, far uso di questo strumento
di cosiddetta democrazia diretta, quando per veder realizzato lo scopo ultimo
al quale si tende è comunque indispensabile un'attività legislativa successiva?
Come si è ripetuto più volte, non si rischia, così, di delegare (in forma
eccessiva, visto che poi chi dovra' occuparsene sara' doppiamente legittimato:
e dal suo specifico ruolo istituzionale, e in virtu' di una richiesta venuta
direttamente dalla sovranita' popolare) la questione proprio a quel Potere
rispetto al quale si era invece ritenuto indispensabile intervenire?
E sì, mentre da un lato si decide che debba essere direttamente il Popolo
ad esprimere la propria opinione, dall'altro si dà poi mandato al Parlamento
per tutto quanto riguarda il come regolamentare le nuove situazioni determinate
dalla vittoria referendaria; insomma, una sorta di autogol!
Evidentemente, da parte dei promotori, l'eventuale incongruenza di fondo
del loro comportamento, derivante da un determinato uso dello strumento
di democrazia diretta, è giustificata dalle considerazioni da fare riguardo
ad un uso "positivo" del referendum come strumento di lotta politica.
E con questo, il passaggio dal referendum abrogativo come strumento di democrazia
diretta, al referendum abrogativo come strumento in mano ai vertici di partito,
è praticamente compiuto.
Sotto un certo modo d'intendere la politica, infatti, i risultati referendari
tendono ad assumere, sempre più, la forma di un'attribuzione di un mandato
legislativo incondizionato; ed è quanto alcune forze politiche, Pannella
e il suo Movimento in testa, hanno cercato d'imporre come metodo per la
corretta interpretazione della volontà popolare.
Risulta illuminante, in tal senso, quanto dichiarato da Marco Pannella
in un'intervista al Giornale:
Domanda> Se vincono i sì, cosa succede dopo?
Risposta> “Dopo dovremo badare che non si facciano leggi
truffa come accadde dopo il referendum sulla giustizia giusta, quando
decidemmo a stragrande maggioranza di estendere la responsabilità civile
ai magistrati, ma poi la legge Vassalli in pratica la negò. Sicuramente,
sarebbe una legge truffa quella che pretendesse, come si è tentato nella
Bicamerale con la proposta Mattarella, di creare un sistema maggioritario
al sessanta per cento e proporzionale al quaranta per cento poiché questo
sistema risulterebbe complessivamente proporzionale e quindi di piena
protrazione dell'attuale regime”.
Domanda> Ma anche la vittoria del sì nel referendum del Senato
ci darebbe una legge elettorale maggioritaria per tre quarti e proporzionale
per un quarto.
Risposta> “È vero, ma è soltanto per ragioni tecniche, dovute
alla configurazione dell'attuale legge elettorale del Senato che il
referendum impugna. Ma il nostro indirizzo politico è tutto maggioritario.
E quindi ci batteremo perché la nuova legge della Camera sia una legge
interamente maggioritaria.” (Pannella Marco - AGORA': ARCHIVIO PARTITO
RADICALE Nº 5215)
Come si può vedere dalla seconda risposta, Pannella prende finalmente
atto che esistono dei limiti tecnici – riferiti all'unica possibilità
che si ha per poter intervenire attraverso lo strumento referendario,
che può soltanto abrogare e nella sola misura concessa dalla legge che
va ad impugnare – che non permettono ai proponenti di poter esplicitare,
con un solo atto, tutte le loro reali intenzioni di modifica.
Per cui, anche in presenza di una legge elettorale perfetta, come nel
caso citato nell'articolo, frutto del risultato referendario, rimarrebbe
comunque il dubbio che i cittadini potrebbero aver desiderato altro, viste
le intenzioni di partenza dei proponenti.
Ma la presa d'atto non serve per far riflettere Pannella riguardo al cosa
fare per poter superare questa situazione d'incertezza; che so, proporre
delle modifiche all'art. 75 della Costituzione, al fine di cambiare la
natura del nostro Istituto referendario.
No, tutt'altro, la questione è già risolta: è lui l'unico depositario
della volontà dei cittadini, ed è a lui che questi hanno di fatto dato
mandato per concludere quello che essi hanno potuto “soltanto iniziare”.
Se da un lato, infatti, Pannella si limita a dire:
-“il nostro indirizzo politico è tutto maggioritario. E quindi ci batteremo
perché la nuova legge della Camera sia una legge interamente maggioritaria”;
dando così l'impressione che ci si trovi di fronte ad una nuova battaglia
politica tutta da impostare; riferito anche ad un consenso, riguardo ai
temi portati avanti, ancora tutto da verificare.
Dall'altro lato, però, chiarisce già da subito che esiste un cappello
politico:
-”Dopo dovremo badare che non si facciano leggi truffa come accadde
dopo il referendum sulla giustizia giusta ... Sicuramente, sarebbe una
legge truffa quella che pretendesse, ecc. ecc.”
Insomma, il tutto appare in netta contraddizione con quanto lo stesso
Pannella aveva affermato anni prima e riportato all'inizio di questo lavoro:
improvvisamente, “il cartello dei proponenti viene inchiodato a presupporre
e ad assumere obiettivi”; insomma, per essere chiari, esiste “una tendenza
di diritto positivo”.
Peccato, però, che questa propositività la si riconosca rappresentata
soltanto da alcuni e non da altri; e come si ricorderà, invece, i cartelli
a favore e contro il referendum per la riforma elettorale del Senato,
avevano la caratteristica di tagliare trasversalmente le posizioni di
destra, sinistra e di centro, il tutto in una confusione d'ipotesi possibili.
Per cui, mai, come in quel caso, poteva esistere alcun mandato assegnato
dai cittadini per poter proseguire oltre l'effettivo risultato legislativo
raggiunto con la vittoria referendaria. Chiunque avesse cercato di trovarci
altri significati, che non fossero stati anche quelli degli altri, barava
sapendo di barare.
Quello che preoccupa, quindi, è proprio questo tentativo di voler rendere
incandescente il clima politico usando le espressioni di democrazia diretta
a proprio uso e consumo; trasformandole in specifiche attribuzioni di
mandati che vanno oltre l'effettiva volontà dei cittadini che nelle specifiche
occasioni può venirsi ad esprimere.
Conclusioni
In conclusione, se proprio si vuole portare avanti una battaglia politica
per far esprimere direttamente i cittadini su quello che realmente vogliono,
va sicuramente escluso un certo modo d'intendere il referendum di tipo
abrogativo, in quanto strumento imperfetto e in alcuni casi in piena contraddizione
con il principio della democrazia diretta del quale dovrebbe invece essere
una concreta espressione.
Da qui, il discorso dovrebbe potersi allargare verso una concezione dell'intervento
diretto dei cittadini che possa essere propositivo in maniera chiara.
Certo, va dato ampio spazio alla meditazione, non affrettando i tempi
di decisioni che, spesse volte, sono motivate da particolari stati d'animo.
Si potrebbe anche, in tal senso, porre in stato concorrenziale l'attività
legislativa dei cittadini proponenti con quella del Parlamento, accettando
l'idea che si possano porre a giudizio più soluzioni per lo stesso problema,
come ad esempio già avviene in Svizzera per le modifiche costituzionali
d'iniziativa popolare.
E questo proprio per rendere difficoltoso il ricorso dell'Istituto referendario
per questioni demagogiche e con forti caratterizzazioni plebiscitarie.
Se soltanto pensiamo ad alcuni referendum votati negli ultimi anni, il
più delle volte vittoriosi perché potevano far leva sull'emotività della
gente, stufa di un sistema dei partiti che in un modo o nell'altro andava
punito, dovremmo renderci conto che in simili circostanze sarebbe auspicabile
poter avere l'opportunità d'innescare processi di riflessione fondati
anch'essi sulla possibilità di cambiare, innovare.
È assurdo che proprio coloro che da sempre si battono per mutare il sistema,
debbano ritrovarsi a difendere l'indifendibile soltanto perché, di fronte
ad una proposta demagogica di cambiamento, non c'è altro modo d'opporsi
criticamente se non sostenendo che per il momento “va lasciato tutto
così com'è”, dando così l'impressione di voler cedere ai politici
il monopolio dell'iniziativa politica.
Non dovrebbe essere allarmante e difficile concepire una consultazione
referendaria dove, oltre al decidere se lasciare tutto immutato, si possa
anche indicare un progetto di legge che, in alternativa alla vecchia legge,
si ritenga sia il più soddisfacente, potendo scegliere tra la proposta
legislativa dei cittadini e quella che, eventualmente, potrebbe essere
stata in alternativa prodotta dal Parlamento (idealmente due: una di maggioranza
ed una nella quale potrebbe ritrovarsi la minoranza). E nel caso di una
vittoria dei Sì all'abrogazione della vecchia normativa, non si dovrebbe
far altro che varare il progetto di legge maggiormente votato.
Un sistema senza trucchi, dove sarebbero chiare le intenzioni di tutti,
e dove non ci sarebbe più ampio spazio per dei successivi aggiustamenti
che facessero riferimento a delle improbabili e corrette interpretazioni
della volontà popolare.
Non si dimentichi, inoltre, che così verrebbe superato anche il limite
tecnico messo in evidenza nella prima parte di questo lavoro, che di fatto
divide i cittadini in due categorie: quelli di serie A, che possono
chiedere di far esprimere la volontà popolare riguardo ad una determinata
materia; e quelli di serie B, per i quali, invece, sempre sulla
stessa materia, questa possibilità potrebbe risultare preclusa a seguito
dell'intervenuta mancanza di riferimenti normativi sui quali poter far
agire l'unico strumento immediato di democrazia diretta di cui possono
disporre: il referendum abrogativo.
|