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Corte d’Appello di Milano, sez. V penale, Presidente Riccardi, est. Franciosi, ord. 4.10.98, ricorrente Castelluccia A. + altri

 

IL PROVVEDIMENTO INTEGRALE

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

proc. n. 54/97

 

LA CORTE D'APPELLO DI MILANO, SEZ. V PENALE

 

composta dai seguenti giudici:

 

Dott. Giorgio Riccardi - Presidente

Dott Niccolò Franciosi - Consigliere (rel. ed est.)

Dott. Giovanni Budano - Consigliere

 

Riunita in camera di consiglio (art. 127 C.P.P.);

 

decidendo sui ricorsi in appello proposti  da CASTELLUCCIA ALDO e dai terzi interessati PETRACCA FRANCESCO, TREZZI AMELIA, CASTELLUCCIA PATRIZIA, CASTELLUCCIA MASSIMO, PIAZZINI GIOVANNI, avverso il decreto n. 1/96 M.P., emesso dal Tribunale di Como in data  24-10-'96, col quale veniva applicata a Castelluccia Aldo la misura di prevenzione della sorveglianza speciale di p.s. per anni quattro e disposta la confisca di beni direttamente od indirettamente allo stesso riconducibili;

esminati gli atti e sentite le Parti ed i loro difensori;

a scioglimento della riserva formulata all'esito dell'odierno procedimento camerale d'appello;

 

ha emesso la presente

 

 

ORDINANZA

 

 

FATTO

 

Col predetto decreto 24-10-'96 il Tribunale di Como, visti gli artt. 666 C.P.P., 1 e segg. L. 1423/56, 1 1 e segg. L. 5757/65 e succ. modifiche, ha disposto  l'applicazione , nei confronti  di CASTELLUCCIA ALDO, nato a Rodi Garganico il 1°-4 1939, della misura di prevenzione personale della sorveglianza speciale di p.s., con obbligo di soggiorno e con altre prescrizioni  accessorie ex lege come da provvedimento in atti, per la durata di anni quattro.

Con lo stesso provvedimento il Tribunale ha altresì disposto la confisca dei seguenti beni, indicati più precisamente nei decreti di sequestro 22-4-'96 e 18-5-'96, in atti, ai seguenti numeri: 1 e 2 (compresi usufrutto e proprietà, come da parte motiva dell'impugnato provvedimento, agli atti); 4 e 6 (sia l'immobile che l'autovettura); 8 (compresi usufrutto e proprietà , come da parte motiva); 9 (con la precisazione di cui alla parte motiva); 15, 17, 18 (limitatamente alle particelle 2695, 2701, 3936); 21, 22, 34, 35, 36 (con le precisazioni di cui alla parte motiva); 37, 42 (nei limiti di cui alla parte motiva); dal numero 43 al n. 58 (nei limiti di cui alla parte motiva); 59 (come da parte motiva); 60 (come da parte motiva); 80 (come da parte motiva); 86 , 87 (come da parte motiva); 91 (limitatamente alle posizioni di Castelluccia Aldo e di Abegaz Yemer Aster per quanto concerne le somme a saldo dei conti correnti c/o banca Popolare di Novara, agenzia di Campione d'Italia, nn.: 2225, intestato a Castelluccia Aldo, 2235, intestato ad entrambi, 9990, intestato all'Abegaz, 21196, intestato al Castelluccia, 21287, intestato all'Abegaz, nonché il conto corrente c/o la B.N.L., agenzia di Ponte Chiasso, intestato alla stessa Abegaz.

Col prefato decreto, infine, il Tribunale ha imposto al Castelluccia il pagamento della somma di £ 10.000.000 (dieci milioni) a favore della Cassa delle Ammende, a titolo di cauzione ed ha delegato per l'esecuzione il G.I.C.O di Milano, con facoltà di subdelega.

 

Avverso tale provvedimento hanno interposto appello, tramite i difensori, Castelluccia

Aldo, Petracca Francesco, Trezzi Amelia, Castelluccia Patrizia, Castelluccia Masssimo, Piazzini Giovanni, spiegando motivi di doglianza e richieste di revoca  dell'impugnato provvedimento come da atti di gravame. Il P.G., con parere scritto del 7-11.'97, ha chiesto il rigetto dei ricorsi e la conferma del decreto appellato.

All'esito dell'odierno procedimento camerale P.G. e Difese hanno concluso come da verbale di udienza.

 

 

MOTIVI DELLA DECISIONE

 

 

I ricorsi in appello avverso il citato decreto del Tribunale di Como vanno accolti.

 

Va preliminarmente osservato che, nelle more del presente procedimento, Castelluccia Aldo è stato assolto da tutte le imputazioni che gli erano state contestate nei due processi penali scaturiti dalle operazioni di p.g. denominate, l'una, "Fiori della notte di San Vito", l'altra, "Isola felice I".

Con sentenza 13-11-1997, invero, la Corte d'Assise di Varese, davanti alla quale il Castelluccia doveva rispondere del delitto ex art. 416 bis C.P. (Capo 1°), del delitto ex art. art. 75 L. 685/75 (Capo 164) nonché di quello p. e p. dagli artt. 110 C.P.: - 71 e 74 L. 685/75 (Capo 167), ha assolto il predetto dal reato di cui al capo n. 1 "per non aver commesso il fatto" e da quelli di cui ai capi 164 e 167 della rubrica "perché il fatto non sussiste".

In più, con sentenza 21-10-'97  il Tribunale di Milano, nel procedimento n° 2425/95 R.G., ha assolto il Castelluccia dalla imputazione ascrittagli in quel procedimento (artt. 81 cpv. - 110 C.P.: -73 D.P.R. 309/90) (capo n° 148) "perché il fatto non sussiste".

Già in precedenza, tuttavia, il proposto era stato prosciolto dal G.I.P. del Tribunale di Milano, "perché il fatto non sussiste", dal reato di cui agli artt. 81 cpv. C.P. - D.P.R. 309/90, nel procedimento denominato "Isola felice II".

Allo stato, pertanto, il Castelluccia deve unicamente rispondere, davanti al Tribunale di Como, del reato di esercizio abusivo del credito.

Orbene, appare ormai pacifico - per consolidato indirizzo giurisprudenziale di legittimità e di merito - come il Giudice della prevenzione abbia ampia possibilità di attingere anche dagli elementi indiziari del processo penale ordinario senza alcun vincolo di subordinazione rispetto all'esito del procedimento parallelo; ciò in nome della "natura sintomatica che caratterizza la valutazione della pericolosità sociale" (ribadita dalla pubblica Accusa) e nell'ambito della rispettiva autonomia concettuale, normativa e finalistica, dei due procedimenti. Tuttavia, il rapporto di connessione che lega quello di prevenzione al procedimento di cognizione penale, per il quale nel primo possono essere trasfuse le risultanze indiziarie del secondo - pur nell'ambito di una doverosa rivalutazione critica ed autonoma delle stesse ad opera del Giudice della prevenzione - non potrà giammai portare alla conclusione che, per poter applicare ad un proposto in prevenzione una misura personale o patrimoniale, si debba attendere il passaggio in giudicato della sentenza conclusiva del processo penale ordinario (pena la creazione di una pregiudiziale obbligatoria a favore di questo nei confronti dell'altro procedimento, non prevista dall'Ordinamento). D'altra parte, la possibilità per il giudice della prevenzione i suddetti elementi indiziari non potrà giammai essere considerata assoluta ed indiscriminata tanto da consentire ad esso l'utilizzo in senso unidirezionale delle emergenze del processo ordinario, recependole in toto od in parte ove esse agevolino l'applicazione di una misura di prevenzione e negando, invece, loro rilevanza, nel caso in cui le risultanze indiziarie si siano frantumate, non avendo retto al vaglio dibattimentale.

In altre parole se, come nel caso che ne occupa, il giudice della prevenzione ha posto a fondamento dell'applicazione della sorveglianza speciale e dei provvedimenti ablatori di confisca dei beni direttamente od indirettamente riconducibili al proposto Castelluccia Aldo, unicamente i risultati delle operazioni di polizia "I fiori della notte di San Vito" ed "Isola felice I°" (segnatamente le chiamate in correità e le indicazione di reità del collaboratore Zagari Antonio), ossia gli elementi indiziari che hanno portato al rinvio a giudizio del Castelluccia per i reati che a lui sono che a lui sono stati contestati sulla base di quelle indagini di p.g. e dei successivi approfondimenti istruttori - elementi mediati ed autonomamente rivalutati nella proposta di prevenzione avanzata dal P.M. presso il Tribunale di Como e fatti propri da quel Tribunale che la stessa ha accolto - va da sé che, sia pur nell'ambito dell'autonomia di giudizio dianzi rimarcata, una volta scelta la via di ancorare l'applicazione della misura personale e patrimoniale di prevenzione unicamente al quadro indiziario emergente in un primo tempo dal procedimento penale sopra indicato, lo stesso giudice della prevenzione non potrà più discostarsi dall'esito di quel procedimento, pena la formulazione di un giudizio apodittico e non correttamente motivato, in considerazione dell'assoluta carenza di elementi indizianti a carico del proposto a sua disposizione, diversi da quelli indicati.

Nel caso in esame, come tra breve si vedrà, dalla sentenza assolutoria della Corte d'Assise di Varese, acquisita agli atti del presente procedimento, risulta, da un lato, che le dichiarazioni del pentito Zagari Antonio - soggetto per altri versi ritenuto credibile dai giudici di questo e di altri procedimenti principali - concernenti la partecipazione del Castelluccia, negli anni 1981 - 1983, ad associazioni per delinquere di stampo mafioso e finalizzate al narcotraffico (alle prime equiparate) non hanno trovato riscontri; dall'altro, che è stata da quei giudici accreditata la tesi che il Castelluccia sia stato vittima  di clan della malavita organizzata, dei loro soprusi e delle loro angherie, susseguitesi nel tempo. In tal modo quei giudici hanno offerto adeguata spiegazione anche degli indiscutibili rapporti che il proposto ha intessuto, nel corso degli anni '80 e dei primissimi '90, con vari e qualificati esponenti della malavita organizzata.

Vero è, quindi, che questo giudice della prevenzione in grado d'appello possiede - come quello di prime cure - piena autonomia di giudizio in subjecta materia rispetto alle conclusioni del giudice della cognizione penale, ma è pur vero che gli elementi che hanno indotto la Corte d'Assise di Varese (ma anche il Tribunale di Milano) ad assolvere il proposto non possono dallo stesso essere trascurati ove, come nella vicenda processuale de qua, esso ne sia venuto ritualmente a conoscenza. Questa Corte di merito, come del resto il Tribunale che ha emesso l'impugnato provvedimento, non possiede altri elementi di giudizio che quelli indicati nella proposta di prevenzione, ossia le indagini di P.G. sopra citate. A queste, tuttavia, nelle more del presente procedimento di prevenzione, si sono aggiunte le risultanze delle sentenze assolutorie dianzi indicate, segnatamente di quella della Corte d'Assise di Varese, dalle quali non si può prescindere, anche se vanno riviste ed analizzate criticamente anche nella presente fase processuale.

Orbene, la conclusione - come tra breve si vedrà - non può che essere che quella per cui gli indizi fondanti il provvedimento del Tribunale di Como sono da considerarsi caducati, non avendo retto al vaglio dibattimentale, o perché non riscontati o perché radicalmente contraddetti.

Né sul punto potrebbe obiettarsi che trattasi solo di sentenze di primo grado, che potrebbero essere rovesciate in appello o, eventualmente, in Cassazione, in quanto in tal modo si ritornerebbe alla suggestiva teoria della pregiudizialità obbligatoria di fatto della sentenza di cognizione penale - come tale necessariamente definitiva - rispetto alla decisione da prendersi in sede di giudizio di prevenzione.

Quanto sopra detto rivela, a parere di chi giudica, tanto più esatto in quanto si tenga nella dovuta considerazione il fatto che il procedimento di prevenzione si basa pur sempre su indizi, dovendosi attribuire a tale categoria giuridica due distinti significati a seconda della fase procedimentale che investe colui che ne è attinto.

Come esattamente osserva la Difesa del Castelluccia (pagg. 4 e segg. memoria avv. Behare) ".... nella fase delle indagini, gli indizi integrano il dato rappresentativo del futuro thema probandum che andrà a proporsi nella sede dibattimentale; in altre parole, costituiscono la prova in nuce, siccome idonea a divenire tale nella sede del giudizio (con un grado di probabilità massimo o consistente, a seconda della gravità o meno dei medesimi, ma di soglia non inferiore, ché altrimenti non si darà luogo a giudizio, ma a proscioglimento)".

"Nella fase dibattimentale gli indizi tendono a rarefarsi fino a scomparire dal significato giuridico, a meno che non sfocino essi stessi in prova rappresentativa del thema probandum (prova diretta), ovvero non si fondino in un coacervo di risultanze fattuali note che, seppur non direttamente rappresentative del thema probandum, certamente riconducano ad esso attraverso lo schema induttivo del sillogismo giuridico".

"Tanto per significare che la connotazione giuridica di un fatto quale indizio ha significato transeunte, che non sopravvive - se non a determinate condizioni - all'esito del procedimento che l'indizio ha generato, se non nella veste di prova".

"Pertanto, affermare, come del resto si afferma, che il giudice della prevenzione, che pur si serve di indizi per maturare il proprio convincimento, possa pervenire a soluzioni contrastanti con l'esito del parallelo processo penale (da cui, pur tuttavia, a piene mani solitamente, come in specie, attinge) ha un senso, solo e nella misura in cui il processo di riesumazione ad opera del giudice della prevenzione investa solo i "defunti" indizi in sede penale (perché di tanto si tratta, laddove l'imputato in ordine ai medesimi fatti di cui si vede, da un lato, indiziato, dall'altro finisce assolto) di grande consistenza, quand'anche già dichiarati insufficienti, quanto ad univoca concludenza (ai fini del processo penale ordinario, nota dell'est.)".

In altre parole, l'avvenuta assoluzione dell'indiziato nella sede penale con formula dubitativa (rectius, ai sensi dell'art. 530 cpv C.P.P. nota dell'est.) legittima la surrettizia sopravvivenza degli indizi propri della sede penale, di cui il giudice della prevenzione potrà servirsi per maturare il suo convincimento".

"Del resto, solo nel caso in cui il giudice concluda che la prova è 'insufficiente o contraddittoria' (dunque non la prova in senso tecnico, bensì il complesso indiziario che non merita, perché lacunoso o discordante, di assurgere a prova), in ordine alla stessa (o meglio in ordine agli indizi che pretendono, a torto, di comporla) può, semmai, residuare un margine di "manipolazione" da parte del giudice della prevenzione per i fini (non i mezzi, si badi, i fini) propri di tale giudizio".

Nel caso in cui venga deciso nel procedimento principale, che la prova non esiste (nel senso che non sussiste indizio alcuno atto ad integrarla) in quanto sia stato riconosciuto in sentenza che il fatto non sussiste o che l'imputato non lo abbia commesso, la Difesa Castelluccia, di cui questa Corte condivide appieno le suesposte tesi, giunge alla conclusione giuridicamente esatta, dianzi tratteggiata: "... o il procedimento di prevenzione fonda il proprio convincimento di pericolosità sociale qualificata sulla scorta di indizi tutti estranei alla vicenda penale chiusasi con sentenza di assoluzione con formula piena (la quale ipotesi appartiene più alla sfera accademica che al giudizio concreto), ovvero, se - come in specie - la sede penale null'altro è che il procedimento 'madre', vale a dire lo stimolo generatore delle aspettative di tutela sociale che l'instaurazione del procedimento di prevenzione mira a soddisfare, non v'è chi non veda come solo una visione miope, incentrata sul mito della ostinata e indiscriminata autonomia del procedimento di prevenzione (autonomia che va misurata in concreto e non già assunta quale petizione di principio), possa rimanere indifferente di fronte ai devastanti - l'assunto accusatorio s'intende - esiti dei paralleli procedimenti penali, qualora abbiano a concludersi proprio con l'assoluzione con formula piena del proposto in ordine all'accusa e agli elementi che la compongono - di regola, comune ai due procedimenti - di appartenere ad un sodalizio criminale qualificato".

Ciò detto, va anche evidenziato che, se è giuridicamente corretto teorizzare la possibilità di infliggere una misura di prevenzione personale sulla base di meri sospetti, sia pure ragionevoli e non contraddetti da fatti di diverso tenore, per l'applicazione della misura patrimoniale ablatoria (la confisca dei beni direttamente od indirettamente riferibili al soggetto proposto in prevenzione) occorrono, per consolidata ed alquanto pacifica giurisprudenza di legittimità, indizi gravi di partecipazione a sodalizi di tipo mafioso od equiparati, oltre alla estrema probabilità che i beni, oggetto prima di sequestro e poi di confisca, siano il profitto od il reimpiego di illeciti guadagni.

Nel caso di specie, a seguito del ribaltamento delle tesi accusatorie compiuto nelle due prefate sentenze, a carico del Castelluccia non residuano altro che meri sospetti di appartenenza ad associazioni criminose qualificate e di spaccio di stupefacenti, sospetti, tuttavia, non utilizzabili in sede di prevenzione in quanto in astratto ragionevoli, ma in concreto contraddetti da numerose testimonianze e da dati di fatto, come tra breve si chiarirà.

Pertinente appare, pertanto, la considerazione finale della Difesa (pag. 7 memoria citata) che stigmatizza la necessità della non automatica incidenza di una sentenza assolutoria in un procedimento di prevenzione "fintanto che, ovviamente all'esito del procedimento camerale e ad esaurimento del contraddittorio, non sia data al giudice la possibilità di appurare in concreto la qualità del giudizio assolutorio, attraverso l'esame (reso ancor più cogente dal fatto che l'assoluzione non porta il crisma del giudicato) dei suoi contenuti (e, in specifico, della conferenza dei fatti oggetto di accertamento - in negativo - rispetto a quelli assunti a base del giudizio di pericolosità), e "non altrimenti", pena l'assumere detto provvedimento i connotati di una indebita anticipazione di giudizio nel merito della "res judicanda".

resta ora da riesaminare autonomamente e criticamente, in questa fase di merito dell'odierno procedimento di prevenzione, dopo le suesposte premesse e la duplice assoluzione del Castelluccia, quegli indizi che hanno indotto il Tribunale di Como ad infliggere allo stesso la sorveglianza speciale per anni quattro e la confisca dei beni, suoi o di terzi ma comunque a lui riconducibili, asseritamente provento di illecita attività.

Orbene, l'analisi critica delle emergenze dibattimentali che hanno indotto la Corte d'Assise di Varese ad assolvere Casteluccia Aldo dalle tre gravi imputazioni a  lui contestate in quel procedimento (Capi 1, 164, 167), non può prescindere, a parere di questo Collegio, dal richiamo e dalla sintetica illustrazione delle stesse, oltre che dalla sommaria esposizione di quegli "indizi" che hanno determinato il primo giudice della prevenzione ad infliggere le suddette misure, personale e patrimoniali, oggetto dell'odierno gravame.

La tesi "colpevolista" del Tribunale di Como si è fondata quasi esclusivamente sulle dichiarazioni del collaborante, coimputato, Zagari Antonio. Appare opportuno riportarla integralmente in questa sede:

"Sull'appartenenza all'associazione di stampo mafioso denominata 'ndrangheta si citano le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Antonio Zagari , già ad essa affiliato, sui traffici di droga gestiti dall'attuale proposto in complicità con altro affiliato, Domenico Gligora, di cui indica la comune appartenenza al gruppo dei "Ferraro" (nell'ambito, si ripete, della "ndrangheta" dislocata in territorio lombardo: conformi ad esempio, le dichiarazioni di Domenco Quaranta a f. 420), traffici in cui appunto Castelluccia si era inserito a partire dall''81 e cui si dedicava utilizzando come supporto logistico anche i propri locali notturni. Ed ancora, Zagari nel prosieguo dei suoi resoconti conferma la immanenza di Castelluccia nel periodo 89/90 nella "cellula" della quale forniva il lungo elenco di componenti, calabresi e non. Aggiunge Zagari che a Castelluccia, erano affidati i proventi delle attività criminose (esempio: sequestri di pesona) perché li 'riciclasse' al Casinò di Campione d'Italia".

"Conferma di tutto ciò si trae dalle dichiarazioni di altri collaboratori ('Alfa' e 'Beta', fol. 394) (Maimone Salvatore e Marcenò Calogero, nota est.) che aggiungono della 'protezione' dei locali di Castelluccia accordata in passato dagli Zagari stessi e, dopo la ricostituzione del 'locale' (cellula di base della 'ndrangheta' organizzata su base territoriale), dell'interessamento al riguardo da parte di Gligora e Patamia, altri affiliati.

Riscontri ulteriori si ottengono dalle dichiarazioni testimoniali del Comandante del Nucleo Op. Colella (fol. 398 e segg.), che ha riferito anche circa le frequentazioni del proposto con pericolosi pregiudicati; del citato Gligora (f. 409 e segg.) da cui è confermato che i nights di Castelluccia, quali il "Borsalino" ed il "Patrizia" fungevano da punto di ritrovo e riunione tra delinquenti; di Maimone Salvatore (f. 412 e segg.) che cenna pure alla successione nella "protezione" di quel locale del gruppo cui appunto lui apparteneva. E' il caso di puntualizzare che tale ultima circostanza dalla Difesa per prospettare la tesi che Castelluccia sarebbe stato vittima del "racket" anziché suo attivo fautore, non appare idonea a ribaltare l'originale impostazione del ruolo assegnato al proposto. Al riguardo possono citarsi le dichiarazioni (nel proc.7/95 C.Ass. di Varese a carico di Zagari A. +125) d'altro primario collaboratore di giustizia, Marcenò Calogero, esponente di spicco della 'ndrangheta' sin dai primi anni '80  che ben conobbe Castelluccia  dall'88/89 come gestore di alcuni nights (tra cui il "Borsalino") da lui frequentati e già oggetto della "protezione"  del "locale" di Appiano Gentile. Marcenò chiarisce che tali nights passarono sotto la "protezione  del "locale" di Varese da lui capeggiato, precisando tuttavia che Castelluccia no era soggetto ad alcun pagamento, stante il preesistente rapporto con l'organizzazione criminale: dunque i locali erano "protetti" nell'interesse stesso  dell'organizzazione, col vantaggio ulteriore e particolare che ove Marcenò e compari avessero voluto colà intrattenersi per svago, non pagavano le consumazioni" (Decreto Trib. di Como, pagg. 6-7-8).

I primi giudici, poi, richiamano i punti di rilievo sopra tratteggiati, chiarendo che essi sono desunti dalla produzione documentale fatta dal P.M.:, relativa a dichiarazioni rese nel corso dei procedimenti pendenti a carico del proposto e di altri: volume VII, fogli 388, 389, 392, 393, 394, 396, 398, 400, 403, 404, 405, 408, 410, 412, 413, 414, 415, 416, 420, 421, 422, 423, 428, 429, 430 e segg., nonché gli allegati nel volume 1°, relativi ancora alle dichiarazioni di Zagari Antonio, in particolare l'allegato 24, costituito dagli interrogatori rei dal predetto ai P.M.: presso il Tribunale di Milano in data 3-12.-91 e 3-7-'93.

Si procede ora all'analisi critica delle risultanze del processo principale, le quali, per quanto sopra detto, non possono che essere, in linea di massima, le stesse che i giudici di merito hanno espresso nella sentenza della Corte d'Assise di Varese che ha assolto il Castelluccia.

In tale sentenza (pag. 1729), ad esempio si afferma che "... Il collaborante non era in grado di confermare se il Castelluccia fosse stato vittima di estorsioni poste in essere dal gruppo Zagari o da altre organizzazioni malavitose"; che quegli "...neppure era a conoscenza dell'epoca e delle modalità di svolgimento di tale affiliazione e dei suoi "padrini di battesimo"..."ma soggiunge che si poteva tranquillamente essere affiliato alla 'ndrangheta senza una formale cerimonia di battesimo.

Ancora (pag. 1866, idem) si afferma che il collaborante..."aveva dedotto che il Gligora (guardaspalle e compare del Castelluccia, nota dell'estensore) avesse probabilmente offerto la propria "protezione" al Castelluccia in cambio di danaro". Se ne deduce che era quindi il Castelluccia  a dover pagare il Gligora per ottenere quella protezione che, se egli davvero fosse stato affiliato ad una cosca mafiosa, avrebbe certamente potuto fare  a meno di avere. Ma c'è di più: <<...costituito il "locale" di Varese ed acquisito il controllo del territorio, egli (il citato collaborante, nota dell'est.) ed altri affiliati a tale gruppo si erano incontrati , nel night "Borsalino", con Nino La Rosa (-compare del Gligora-) e Castelluccia Aldo, offrendo a quest'ultimo la "protezione" del "locale" di Varese e sollecitando a richiedere, all'occorrenza, l'intervento di Patamia Franco, così surrogandosi al predetto Gligora nella ricezione del "pizzo">> (ibidem). Ebbene, a parere di chi giudica, ciò è la conferma dell'anomalia della posizione del Castelluccia Aldo rispetto ad altri soggetti malavitosi la cui affiliazione alla 'ndrangheta è stata realmente dimostrata nel procedimento principale.

Dal suo canto, il Castelluccia, nell'ammettere le sue conoscenze con soggetti a rischio, generalmente calabresi o siciliani e negando vari addebiti ha ricordato che <<...nel 1987 uno sconosciuto aveva esploso un colpo di fucile contro la Fiat 127 di suo figlio Massimo, in sosta nel piazzale del piano - bar "New York" in Brissago Valtravaglia, sottolineando che nella stessa occasione un altro colpo di fucile era stato esploso contro la finestra di un locale soprastante il proprio immobile>> (pag. 1892, idem).

Il Castelluccia ha poi riferito che <<...a seguito di tali intimidazioni, aveva chiesto consiglio a Gligora Domenico, il quale aveva organizzato una riunione alla quale avevano preso parte Zagari Giacomo, Patamia Franco e Gammuto Leonardo. Nel corso di tale incontro, Zagari Giacomo aveva escluso decisamente che l'autore delle telefonate fosse stato suo figlio Antonio.>>. (pag. 1893, idem).

Orbene sembra essere sfuggito al Tribunale di Como, autore del provvedimento impugnato, che forse in questo episodio (l'attribuzione originaria, da parte del Castelluccia, dell'attentato al proprio figlio alla persona di Zagari Antonio) poggia , a lume di logica, la causa prima delle successive, gravi, chiamate in correità ed indicazioni di reità operate dallo Zagari nei confronti del primo, dichiarazioni che possono, verosimilmente, essere improntate a forte risentimento, ma che, comunque sono state ritenute idonee a sostenere la tesi che il Castelluccia, affiliato alla 'ndrangheta col grado di camorrista, avrebbe commesso, oltre al reato associativo qualificato, gli ulteriori delitti di traffico di stupefacenti dai quali poi è stato puntualmente assolto.

Non si comprende bene, inoltre, come si possa conciliare l'ipotesi del pagamento del pizzo agli Zagari ad opera del Castelluccia con la sua affiliazione mafiosa prima al gruppo Zagari, indi, a quello, idealmente vicino, anzi, limitrofo, dei Ferraro.

Altro computato (Gammuto), inoltre, afferma che nel periodo 1989...<<la moglie del Castelluccia aveva ricevuto alcune telefonate estorsive con le quali l'interlocutore, asserendo di essere Zagari Antonio, aveva richiesto la consegna di danaro, di armi, e di droga>> (pag. 1912, idem). Vale a tal proposito il rilievo critico dianzi espresso.

Si legge nella prefata sentenza (ibidem) che...<<In occasione di tale incontro con Patamia - con il quale non aveva mai avuto alcun precedente rapporto - quest'ultimo aveva sconsigliato a Castelluccia di recarsi a casa di Zagari Antonio per chiedergli giustificazione dell'accaduto, prospettandogli che lo Zagari, nel vederlo sopraggiungere con i propri amici, avrebbe potuto sparargli contro>>. Ad ogni buon fine <<...A seguito dell'incontro intercorso con Gammuto, Patamia e Zagari Giacomo, erano cessate (guarda caso, osservazione dell'estensore)  - per circa un anno - le telefonate minatorie ai danni del Castelluccia ed i danneggiamenti ai suoi locali. In seguito, però, Castellucccia gli aveva confidato di aver paura di Marcenò Calogero e di alcuni siciliani e di essere intenzionato a cessare la sua attività e di vendere i propri locali. In tale periodo aveva sovente "scortato" Castelluccia nei suoi spostamenti, così consentendogli di "farsi forte" della presenza, al suo fianco, di un calabrese.>> (ibidem)

Si ripete che, a parere di chi giudica, tutto ciò ha un senso solo nell'ipotesi che l'odierno proposto sia stato vittima, non partecipe, della mafia calabrese o siciliana che fosse.

La Corte d'Assise di Varese, nella citata sentenza, è drastica nel negare qualsivoglia rilevanza alle dichiarazioni del pentito Zagari Antonio - pur ritenuto attendibile in ordine ad altre posizioni processuali ricostruite mercè la sua collaborazione - in relazione alla posizione del Castelluccia. Si legge, infatti, in sentenza  (pagg. 2075 e segg., idem), tra l'altro, quanto segue: <<Le indicazioni del collaborante in ordine alla appartenenza del Castelluccia alla "societas sceleris" degli Zagari (e, poi, quella dei Ferraro) non hanno trovato, però, conferma in altri riferimenti dello stesso segno operati dagli altri collaboranti>> (idem, pag. 2076).

<<Maimone Salvatore pur descrivendo, genericamente, il Castelluccia come "legato" o "avvicinato" alla famiglia Zagari e ricordandone i rapporti di amicizia e di frequentazione con esponenti di tale gruppo, non ha indicato alcuna specifica condotta dell'imputato idonea ad avvalorare la prospettazione accusatoria di un suo coinvolgimento nella contestatagli associazione di stampo mafioso>> (ibidem).

<< Tale collaborante, inoltre, ha precisato che il Castelluccia, nell'esercizio della propria attività di gestore di locali pubblici, è stato reiteratamente sottoposto a taglieggiamenti, inizialmente ad opera della famiglia Zagari e, successivamente, ad opera di Gligora Domenico e, poi, con la nascita del "locale" di Varese, ad opera di esponenti di tale sodalizio succeduto a quello Zagari nel controllo del territorio varesino>> (ibidem).

<<Di analogo segno sono le dichiarazioni di Marcenò Calogero il quale ha escluso che il Castelluccia possa essere stato inserito organicamente nella famiglia mafiosa di Malnate e, comunque, in qualsiasi analogo gruppo mafioso - come riferito, invece, da Zagari Antonio - giacché costui era stato sottoposto a taglieggiamenti ad opera di tale gruppo, di Crisafulli Santi e, poi, di esponenti del "locale" di Appiano Gentile rappresentati da Gligora Domenico, sintomatici della estraneità di tale imputato al sodalizio mafioso, retto, invece, da regole di solidarietà tra affiliati, incompatibili con attività di vessazioni e di soprusi in danno degli affiliati>> (sic!) (ibidem).

<<Parimenti conformi alle dichiarazioni di tali ultimi collaboranti sono le dichiarazioni di Marcenò Giuseppe, il quale ha ricordato che, dopo la nascita del locale di Varese si era svolta una riunione nel night "Borsalino" del Castelluccia Aldo>> (pag. 2077, idem).

Nella sentenza in esame, inoltre, la Corte d'Assise rileva che...<<nessuna altra univoca indicazione, in ordine all'appartenenza dell'imputato al sodalizio ascrittogli ed agli eventuali rapporti di "affari" con esso intercorsi, si può trarre dalle dichiarazioni di altri collaboranti esaminati in dibattimento.

Ed invero:

- Quaranta Domenico, escludendo di avere avuto rapporti illeciti con il Castelluccia, ha negato che tale imputato sia stato affiliato ad organizzazioni mafiose operanti nel territorio della provincia di Varese, riferendo, tuttavia, la propria mera supposizione di un'appartenenza di costui alla "famiglia" dei Ferraro;

- Tibaldi Franco, inoltre, nel corso della sua lunga deposizione, pur tratteggiando minuziosamente le attività delinquenziali del gruppo Zagari, con il quale ha intrattenuto assidui ed intensi rapporti per finalità illecite, non ha mai indicato il Castelluccia come affiliato alla cosca Zagari o ad altri gruppi mafiosi ad essa collegati, né ha riferito fatti o circostanze idonee ad avvalorare l'assunto accusatorio di un contributo causale offerto dall'imputato alla vita o all'esistenza di tale famiglia, in vista del perseguimento del suo programma delinquenziale;

- Sciacca Savino, a sua volta, ha escluso di avere avuto rapporti con il Castelluccia legati al traffico di stupefacenti o alla commissione di altri reati; non ha, poi, confermato l'appartenenza di tale imputato a sodalizi mafiosi, limitandosi a ricordare generici rapporti di frequentazione, ad opera d alcuni coimputati del Castelluccia, dei night-clubs gestiti da quest'ultimo;

- analoghe considerazioni valgono per le dichiarazione rese da tutti gli altri numerosi collaboranti esaminati nel corso del dibattimento>> (idem).

E' detto ancora in sentenza: <<Ne consegue, quindi, l'assenza di qualsiasi riscontro della narrazione di Zagari Antonio in ordine all'inserimento del Castelluccia nella societas sceleris, proveniente dagli altri collaboratori esaminati>>. Ed ancora <<dalle concordanti dichiarazioni rese dai predetti Maimone Salvatore, Marcenò Calogero e Marcenò Giuseppe emerge, piuttosto, un quadro nel quale Castelluccia Aldo appare vittima, più che partecipe, di associazioni di stampo mafioso. Lo stesso appare, infatti, in rapporto di subordinazione rispetto alle ricordate "famiglie" alle quali è assoggettato attraverso il meccanismo dell'estorsione-protezione. Non risulta del resto acquisito alcun elemento idoneo a dimostrare che, in cambio di tali "protezioni", il Castelluccia abbia comunque intrattenuto con i propri "estorsori" rapporti di scambio stabili e continuativi, mediante azioni di sostegno al clan malavitoso, offerte di informazioni, ospitalità a latitanti, costituzione di vere e proprie società  con esponenti di tale gruppo  con la realizzazione di altre prestazioni diffuse in favore  dello stesso, sì da renderlo comunque colluso con il sodalizio e partecipe, quindi, del reato associativo, per effetto del contributo arrecato alla esistenza della societas sceleris quale controprestazione della benevolenza o della protezione attiva ricevuta dal clan>> (idem, pagg. 2078 e 2079).

Dalla citata sentenza della Corte di Varese, inoltre, emergono altri elementi che contribuiscono a polverizzare il quadro indiziario originariamente gravante a carico del Castelluccia, quadro pure abbondantemente utilizzato dai primi giudici della prevenzione. Anche Marcenò Calogero, invero, parlando dell'adesione di altro grosso criminale, il Crisafulli, al clan degli Zagari, ne ricorda l'attività estorsiva dallo stesso posta in essere, per conto della famiglia Zagari, ai danni del Castelluccia, persona a suo dire sottoposta a "protezione" da parte del gruppo Zagari (pag. 283, idem).

A proposito della posizione "Gligora" (posizione che presenta alcune analogie con quella dell'odierno proposto) i giudici della prefata Cote d'Assise rilevano - alla luce delle risultanze di quel dibattimento - che le generiche indicazioni di Antonio Zagari circa i rapporti intercorsi tra Gligora e la cosca capeggiata da Zagari Giacomo (-"e quindi in ordine all'eventuale contributo arrecato da tale imputato al perseguimento delle finalità di tale sodalizio"-) non trovano conferma nelle dichiarazioni rese dagli altri collaboranti esaminati in dibattimento (pag. 2128, idem).

Il collaborante Maimone Salvatore, ad esempio, ricorda che, nel 1990, con la nascita del nuovo "locale" di Varese del clan "Mazzaferro", si era tenuta una riunione tra esponenti del gruppo di Appiano Gentile-Fino Mornasco e di quello di Varese diretta da Marcenò Calogero e Patamia, nel corso della quale era stato deciso che la "protezione" ( degli esercizi pubblici del Castelluccia doveva essere trasferita ad esponenti del nuovo "locale" varesino (pag. 2129, idem). Sul punto si osserva ancora una volta che, se si è costretti a subire la protezione che comporta ovviamente il pagamento della stessa) non si è partecipi bensì vittime, di un sodalizio criminoso che, tra le finalità istituzionali, abbia proprio l'imposizione della suddetta protezione e quindi del pagamento del "pizzo" ad opera dei protetti.

In conclusione, in ordine all'asserita partecipazione di Castelluccia Aldo ad un sodalizio mafioso o ad altra associazione finalizzata al narcotraffico, appare evidente che l'originario quadro indiziario si è letteralmente infranto a seguito della complessa istruttoria dibattimentale, di talché può dirsi che di esso non è rimasto che qualche sospetto su qualche dettaglio (ad esempio che dietro la "protezione" pagata dal Castelluccia vi fosse comunque un rapporto di tipo associativo di questi con i suoi "protettori").

Tali sospetti, tuttavia, essendo allo stato attuale smentiti da fatti e circostanze obiettive, non possono nemmeno legittimare l'irrogazione al proposto della più lieve sanzione della sorveglianza speciale di p.s., a maggior ragione non possono rappresentare la base per l'applicazione al predetto o ai terzi intestatari dei beni che vengono fatti risalire alle illecite attività di un soggetto in odor di appartenenza mafiosa, di una misura patrimoniale ablatoria quale la confisca, pur disposta dal Tribunale di Como prima che quegli indizi fossero letteralmente travolti dalle emergenze del dibattimento di primo grado davanti alla Corte d'Assise di Varese.

In ordine al delitto di spaccio continuato di stupefacenti (reato contestato al Castelluccia, in concorso con altri, al capo 167 della citata sentenza), il discorso da fare si palesa identico.

Secondo il pentito Zagari Antonio, le riunioni finalizzate all'organizzazione di vari episodi di narcotraffico sarebbero avvenute nel più volte citato locale "Borsalino" gestito dal Castelluccia, "...o in un angolo appartato del locale o nell'ufficio del Castelluccia nel retro del night. Tale ufficio era abbastanza piccolo ed al suo interno vi era un tavolo. Di più il collaboratore non era in grado di riferire" (pag. 2479, idem).

"Quando le sostanze stupefacenti erano fornite al gruppo Zagari dai Ferraro" scrivono i giudici di Varese "il pagamento veniva effettuato ai Ferraro, quando erano fornite da Fotia il pagamento veniva effettuato direttamente al Fotia, quando erano fornite dal gruppo di Luino, cioè da Castelluccia e da Guzzi Fioravante, i soldi venivano portati a Guzzi Fioravante da Ierinò Antonio, da Zagari Vincenzo o dal collaboratore stesso. In qualche occasione, era anche capitato che lo stupefacente fosse stato consegnato agli Zagari da Guzzi Fioravante, alla presenza di Castelluccia Aldo". (pag. 2480, idem).

Il collaborante Zagari Antonio, invero, riferisce anche di non essersi mai occupato dei pagamenti delle forniture di droga effettuate dal Castelluccia e di non ricordare i quantitativi di sostanze stupefacenti contratti con costui. Dichiara, infine, che in un'occasione, nel night "Borsalino", egli ebbe a trattare l'acquisto di stupefacente  con Balzano Aniello e che a tale incontro era presente anche il Castelluccia (ibidem).

Il collaborante Maimone Salvatore, invero, riferisce che "...in un'occasione si erano ritrovati, dopo il pentimento di Zagari Antonio, in uno dei locali del Castelluccia, per discutere a chi toccava incassare i soldi che prima il Castelluccia pagava agli Zagari per la protezione dei suoi locali" (pag. 2481, idem).

Altro collaboratore, Quaranta Domenico, rifersce di aver conosciuto Castelluccia Aldo nel 1990 in un night. All'inizio i suoi rapporti con Castelluccia erano stati" burrascosi", in quanto il Quaranta aveva sparato in aria dei colpi di pistola nel di lui locale. Il pentito aggiunge che il Castelluccia si accompagnava sistematicamente a Gligora Domenico e che egli era si convinto  che quegli facesse parte della famiglia dei Ferraro. Aggiunge, pio, che  una sera il Gligora aveva portato nel locale del Castelluccia della cocaina, che era stata consumata dagli astanti, tra i quali egli quaranta. Afferma che la droga era del Castelluccia.

Orbene, a fronte degli indizi sopra riportati, le conclusioni cui giunge la Corte d'Assise di Varese sono ancora una volta diametralmente opposte agli indizi stessi, i quali mostrano di non aver retto al vaglio dibattimentale.

Si legge infatti nella citata sentenza quanto segue:

<<In ordine alla vicenda in esame, per la posizione di Castelluccia Aldo, sono stati esaminati (ud. 6-12-96), i testi Bizzarri Bruno, Vasik Maria e Palaia Maria.

 

Dall'esame di Bizzarri Bruno è emerso che questi, dal 1984, aveva svolto le mansioni di cameriere nel locale "Borsalino" di proprietà del Castelluccia. Dal 1984 al 1986, il teste aveva dormito all'interno del locale in una camera retrostante. Nel night, secondo il Bizzarri, non vi erano sale riservate, né vi era un ufficio: c'era solo un locale con un telefono ed una scrivania che poteva fungere da spogliatoio.

Durante il periodo nel quale il Bizzarri faceva il cameriere nel predetto locale, questi aveva visto il Castelluccia pochissime volte, così come, durante tale periodo, il teste non aveva notato mai riunioni tra il Castelluccia ed altre persone, dopo l'orario di chiusura del locale.

Di eguale tenore è la deposizione della teste Vasik, che ha riferito di avere svolto le mansioni di cameriera nel locale "Patrizia" dal 1990 al 1993.

Altrettanto dicasi della teste Palaia, che ha precisato di aver lavorato, dal '77 al '79 nel night "Patrizia" e, dall''82 all''83, nel night "Borsalino" e poi, dal '90 al '92, con le mansioni di cameriera.

All'udienza del 28-2-97 è stato esaminato, ex art. 507 c.p.p., il Brigadiere Latenza Giuseppe, il quale ha detto di aver conosciuto Gligora Domenico, in quanto, nel periodo agosto 1982-marzo 1983, aveva effettuato dei controlli nel night "Patrizia" gestito dal Gligora.

Il teste aveva notato il Gligora, all'interno del locale, dalla fine di ottobre/primi di novembre dal 1982.

In precedenza il night "Patrizia" era gestito dalla moglie di Castelluccia Aldo. Il Laterza ha riferito di aver notato qualche volta, sempre nel periodo agosto '82-marzo'83, il Castelluccia all'interno del night, solitamente sempre nelle vicinanze della cassa o del banco di mescita.

In una occasione, il Brig. Laterza aveva coadiuvato la Squadra Mobile di Como nell'arresto del Gligora per traffico di stupefacenti. Tale arresto era avvenuto nel night "Borsalino", che era gestito dal Castelluccia. Il teste ha dichiarato, altresì, di avere visto il Castelluccia al banco mescita del locale, anche insieme alla sua convivente.>> (pag. 2484-2485, idem).

Orbene, alla luce di tale ricostruzione del materiale probatorio operata dai giudici del processo principale - puntuale in quanto pienamente conforme a quelle risultanze dibattimentali - una considerazione si impone in via prioritaria: se il Gligora è stato arrestato per spaccio di droga nel locale del Castelluccia, non si vede perché gli operanti avrebbero dovuto evitare l'arresto del Castelluccia, che del locale era il gestore, ove lo avessero ritenuto complice del Gligora in quello o anche in altri episodi  di traffico di stupefacenti.

Le considerazioni conclusive della Corte d'Assise di Varese, infine, appaiono davvero illuminanti.

Si ritiene opportuno trascriverle integralmente:

<<Per quanto concerne i criteri di valutazione della chiamata in correità di Zagari Antonio, questa Corte, per comodità espositiva e per evitare inutili ripetizioni, rinvia alle considerazioni già espresse nella parte I della presente decisione (criteri di valutazione della chiamata in correità).

Sull'attendibilità soggettiva ed oggettiva del collaborante Zagari Antonio v'è, però, da osservare che la chiamata accusatoria nei confronti del Castelluccia  e del Gligora, in relazione al reato di spaccio di quantitativi imprecisati di eroina, comunque consistenti, appare generica e, a volte, contraddittoria.

Il collaborante ha riferito di riunioni , avvenute tra il suo gruppo, il Gligora ed il Castelluccia, nel corso delle quali avrebbero parlato di traffico di stupefacenti, dei prezzi da praticare e di altre questioni attinenti tali traffici illeciti.

La chiamata è generica, in quanto, lo Zagari non riferisce di specifiche cessioni di droga (tempo, luogo, modalità delle stesse), né di episodi particolari inerenti all'attività materiale di spaccio. Non solo, ma egli stesso ammette di non avere mai ricevuto direttamente dal Gligora sostanze stupefacenti e di non ricordare i quantitativi di droga contrattati con il Castelluccia.

E' contraddittoria, in quanto, riferendo in ordine alle modalità di pagamento della sostanza stupefacente al gruppo di Castelluccia Aldo e di Guzzi Fioravante, dapprima dice di essersene occupato personalmente, alternativamente con suo fratello Enzo o con Ierinò Antonio, poi, contraddicendosi, riferisce di non essersi mai interessato dei pagamenti delle forniture di droga  effettuate dal Castelluccia.

Ancora, il collaborante ha riferito di aver notato Gligora Domenico nel night "Borsalino", di proprietà del Castelluccia, nel 1981 ed ancora tra l''82 e l''83: dal 25-5-1981 al 28-12-1981 il Gligora era detenuto in carcere ed è stato accertato, nel corso dell'istruzione dibattimentale, che tra l'82 e l'83 il Gligora gestiva il night "Patrizia".

Tali ultime considerazioni consentono di affermare che le dichiarazioni rese dal collaborante Zagari Antonio, per quanto riguarda la specifica posizione di Castelluccia Aldo e di Gligora Domenico, sono del tutto generiche e in qualche caso contraddittorie.

Restano da esaminare le dichiarazioni rese dagli altri collaboranti.

Per quanto riguarda Brunero Franco, si osserva che trattasi di dichiarazioni riguardanti Balzano Aniello già esaminate nel capo 155: ben poco dice il collaborante a carico del Castelluccia e del Gligora. La droga che gli era stata offerta all'interno del "Borsalino" era del Balzano.

Ancora, Sciacca Savino nulla dice nei confronti degli odierni imputati  in merito al traffico di stupefacenti, se non che nel night "Patrizia" aveva incontrato Gligora Domenico e Versace Pietro in compagnia del Castelluccia.

Maimone Salvatore riferisce che quando egli stesso, Patamia Francesco o Marcenò Calogero avevano bisogno di sostanze stupefacenti, si rivolgevano al Castelluccia, il quale, tramite altre persone, aveva disponibilità di droga.

La chiamata del Maimone è estremamente generica: non specifica il periodo e non dà ulteriori indicazioni sulle persone che avrebbero permesso al Castelluccia di disporre di sostanze stupefacenti.

Quanto alla cocaina offerta al Maimone dal Castelluccia, siamo, in ogni caso, fuori dai  fatti oggetto del presente capo d'imputazione, che attiene specificamente ad episodi riguardanti lo spaccio di eroina.

Restano da esaminare le dichiarazioni di quaranta Domenico, il quale ha narrato fatti relativi al 1990 (una offerta di cocaina da parte del Gligora).

I fatti per cui oggi è processo sono collocabili temporalmente dall'autunno del 1981 al maggio del 1983.

Le dichiarazioni del Quaranta riguardano fatti che saranno eventualmente oggetto di altro procedimento penale.

In assenza, pertanto, di elementi di prova riguardanti direttamente le persone dei chiamati in correità, in relazione allo specifico fatto a loro addebitato, i predetti Castelluccia Aldo e Gligora Domenico devono essere assolti dalla imputazione loro ascritta, perché il fatto non sussiste.>> (pag. 2485-2488, idem).

Caduti gli indizi di traffico continuato di droga a carico dell'odierno proposto - non essendo quegli indizi riusciti ad acquisire dignità di prova - restano a carico del Castelluccia, nell'odierno procedimento di prevenzione, le circostanze per le quali i giudici d'Assise hanno ritenuto la possibilità che il P.M. competente possa separatamente intraprendere l'azione penale. Esse. tuttavia, non sono state prese in considerazione dal Tribunale di Como ai fini dell'applicazione delle misure oggetto di gravame, essendosi stemperate nello sfondo nebuloso delle asserite e non dimostrate attività illecite del Castelluccia e della sua convivente Abegaz Aster. Trattasi, ad ogni buon fine, risalenti a diciassette-diciotto anni fa. Parlare di essi come di indizi eventualmente rilevanti ai fini che ne occupano urta contro la logica. ritenerli meri sospetti è consentito, ma le conseguenze non possono certamente essere l'applicazione di una misura di prevenzione personale, la quale dovrebbe essere inflitta circa tre lustri dopo, in stridente violazione con il principio secondo il quale, perché si possa applicare una misura di prevenzione, occorre le sussistenza dell'ineludibile presupposto dell'attualità della pericolosità sociale; men che mai si può fondare su di essi un grave e definitivo provvedimento ablatorio di natura patrimoniale.

Ritiene, pertanto, questo Collegio che nel caso in esame il complesso di elementi emersi a carico di Castelluccia Aldo non rappresenti altro che una congerie di sospetti derivanti quasi del tutto dalle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Zagari Antonio. Tali elementi di sospetto, come si è dianzi illustrato, in quanto più volte da fatti di opposto tenore e significato ed in quanto - visti nel loro complesso - non dotati di intrinseca coerenza, non appaiono idonei a legittimare l'applicazione della richiesta confisca dei beni direttamente o indirettamente riferibili allo stesso Castelluccia; neppure essi sembrano utili alla formulazione, nei confronti del proposto, di un giudizio di pericolosità sociale, tale da consentire l'irrogazione allo stesso della misura di prevenzione personale della sorveglianza speciale di p.s., pur richiesta e concessa dai giudici di prime cure.

Oltre che dalle dichiarazioni dei numerosi collaboranti e testimoni del processo principale sopra citate, le affermazioni dello Zagari appaiono contraddette anche da ulteriori circostanze di fatto, processualmente accertate, che indicano a chiare lettere che il Castelluccia può anche avere evaso od eluso sistematicamente il Fisco, ma certamente ha svolto una continuativa attività lavorativa nel corso di circa un ventennio, accumulando una significativa ricchezza, la cui derivazione dalle asserite e non dimostrate sue attività delinquenziali l'Accusa non è riuscita a provare.

Alla luce di ciò perdono valore le argomentazioni dei primi giudici della prevenzione circa il significato indiziario, nei confronti di Castelluccia, dell'inadempimento colpevole da parte di questi o più ancora del "rifiuto volontario di allegazione sui punti pertinenti alle indagini" (pag. 11 decreto impugnato). Si rivela, inoltre, una mera petizione di principio l'assunto del Tribunale  di Como secondo il quale "il presupposto dell'appartenenza di Castelluccia ad un'associazione di stampo mafioso e la dedizione, ad apprezzabile livello, ad attività criminali in "settori" notoriamente redditizi (droga, riciclaggio) obbligano a concludere che egli doveva trarne assai rilevanti profitti, una ricchezza oggettiva, palesata dalle indagini patrimoniali della G. di F. (cui si rimanda), ricchezza che lo stesso Castelluccia, che non può negarla né imputare ad originarie risorse familiari, cerca di proporre come frutto progressivamente accresciuto di antiche fatiche di lavoro e di felici investimenti, immuni da coinvolgimenti in attività criminose" (pag. 12, idem).

Come può sostenersi ciò, ci si chiede, quando, a seguito di un processo penale di rara complessità caratterizzato da un'istruttoria dibattimentale nutrita ed approfondita, un altro organo giudiziario, la Corte d'Assise di Varese, ha dimostrato - anche se con sentenza non ancora definitiva - che le dichiarazioni accusatorie del collaborante Zagari Antonio e gli accenni colpevolisti di qualche altro pentito (vds. supra) non sono idonei a fondare un giudizio di colpevolezza a carico del proposto, sia per i due reati associativi allo stesso contestati, che per il traffico di stupefacenti?

Si è dianzi ribadita l'autonomia del procedimento di prevenzione rispetto a quello ordinario di cognizione penale, principio più volte affermato dalla giurisprudenza di legittimità e di merito, cui questa Corte ritiene di dovere uniformarsi in toto. E' pur vero, tuttavia, che tale autonomia può fondarsi unicamente su una diversa ed indipendente valutazione del quadro indiziario gravante sul soggetto proposto in prevenzione. Tale quadro può, infatti, essere ritenuto insufficiente a fondare un giudizio di penale responsabilità dal giudice del processo principale ed invece idoneo all'irrogazione di una misura di prevenzione da quello investito di tale tipologia di procedimento. Quando, tuttavia, quel quadro - cui pur sempre anche il giudice della prevenzione finisce per riferirsi del tutto o quasi, non avendo in genere altro da utilizzare per l'applicazione di una misura di prevenzione, personale o patrimoniale - si dissolve come nel caso di specie, pur nel rispetto del citato, fondamentale, principio dell'autonomia dei due procedimenti, il giudice chiamata ad applicare la sorveglianza  di p.s. e/o la confisca dei beni direttamente od indirettamente riferibili al proposto, non potrà - in mancanza di altri elementi d'accusa diversi dalle risultanze di indagini preliminari ed eventualmente dell'istruttoria dibattimentale - prescindere dall'esito del procedimento principale (dal quale pur avrebbe attinto a piene mani, ove avesse trovato in esso sicuri indizi di pericolosità sociale, generica o qualificata, tali da imporre l'applicazione della richiesta misura di prevenzione) senza finire per sovrapporre un argomentare apodittico e non logicamente fondato a dati processuali, pur non consacrati in sentenze definitive, di segno completamente opposto all'ipotesi accusatoria, come nel caso che ne occupa.

In altre parole, crollato il quadro indiziario costituito dalle dichiarazioni del pentito Zagari Antonio e dai suddetti accenni di qualche altro collaborante - frantumatisi letteralmente di fronte al dilagare degli indizi e prove nettamente contrarie e tali da togliere da essi qualsiasi valenza, anche meramente indiziante - ai giudici della prevenzione davvero non rimane altro nei confronti dell'odierno ricorrente Castelluccia Aldo.

Per quanto sopra detto, in accoglimento degli appelli proposti dal Castelluccia e dagli altri "terzi interessati" dianzi indicati, si ritiene conforme a Giustizia revocare in toto l'impugnato decreto 24.10.'96 del Tribunale di Como, emesso nei confronti dello stesso e degli altri appellanti, terzi interessati, dianzi indicati.

 

P.Q.M.

 

La Corte, su difforme parere del P.G:, revoca il decreto 24-10-'96 del Tribunale Di Como, emesso in sede di prevenzione nei confronti di CASTELLUCCIA ALDO e degli altri ricorrenti sopra menzionati. Delega per l'esecuzione del presene provvedimento il Comandante del G.I.C.O. del Gruppo G. di F. di Milano, con facoltà di subdelega.

 

Milano, 4-10-1998

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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data ultima modifica 19/07/00