Capitolo II (seconda parte)
2.4 IL PRINCIPIO DI LEGALITÀ ED I NUOVI METODI DI ACCERTAMENTO
Nel corso dei secoli, ed in relazione ai diversi assetti istituzionali delle nazioni, si è
verificata una lenta e costante evoluzione riguardo il presupposto al verificarsi del quale chi deteneva
il potere poteva esigere una determinata prestazione.
Si è così passati dalla potestà pubblica di imporre tributi, tipica dell'epoca
romana, alle prestazioni spontanee dei feudatari al principe, durante il Medioevo, sino a giungere,
con i Comuni, al principio del consenso al tributo, manifestato dapprima dai singoli uomini e poi,
per loro conto, dalle corporazioni in cui questi si andavano organizzando.
Bisogna segnalare, peraltro, come l’instaurarsi in Europa, tra il 1400 ed il 1700, di monarchie
caratterizzate da un forte autoritarismo, abbia determinato sovente un fenomeno di accentramento di
tutti i poteri, compreso quello di imporre ed attuare prelievi, unicamente nelle mani del sovrano.
Soltanto con la scomparsa dell’assolutismo, ed il conseguente avvento di assetti istituzionali
democratici [41], - alla base dei quali
veniva posta, a garanzia dei diritti fondamentali dei cittadini, una Carta Costituzionale - è
riaffiorato nuovamente il principio del consenso al tributo, e, con esso, il principio del controllo
sull'impiego dell'imposta [42].
[41] Dapprima in Inghilterra, poi nel Nordamerica
e nell'Europa continentale.
[42] MARTINES, Diritto costituzionale, Milano, 1992, 468 sull’origine
storica della riserva di legge, afferma: “L’origine storica (e la ratio) della riserva
di legge vanno ricollegate al sorgere dei primi Parlamenti medievali, allorquando, cioè, il
potere del monarca venne limitato attribuendo alle assemblee elettive ogni decisione sui diritti patrimoniali
e personali dei sudditi. Tale carattere garantista della riserva di legge fu proprio, successivamente,
dello Stato di diritto…Oggi sappiamo…che questa funzione venne svolta dalla legge solo
in parte…le Costituzioni erano in buona parte flessibili; pertanto, anche per la generica formulazione
delle loro norme, il legislatore godeva di un’ampia discrezionalità nell’interpretare
la natura e l’intensità della riserva, al limite comprimendo l’esercizio della
libertà sino al punto di annullare la funzione garantista della riserva stessa, senza che alcun
potere potesse intervenire…Nelle riserve costituzionali contemporanee la funzione garantista
della riserva di legge risulta rafforzata dalla loro rigidità (che comporta l’obbligo
del legislatore di attenersi non soltanto alle norme in cui la riserva è contenuta ma anche
ai principi generali che presiedono all’ordinamento)”.
L'art. 30 dello Statuto Albertino secondo il quale "nessun tributo può essere imposto
se non è stato consentito dalle camere e sanzionato dal Re" segna l'ingresso, anche in
Italia, del principio della riserva di legge e di quello della necessaria approvazione del bilancio
dello Stato mediante una legge.
Con l'entrata in vigore dell'attuale Costituzione, nell'art. 23, si è voluto sancire il principio
in base al quale "nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non
in base alla legge", ribadendo così il ruolo primario che assume la legge nell'ambito
delle prestazioni imposte e, dunque anche, più in particolare, nell'imposizione tributaria.
La riserva di legge prevista dalla nostra Costituzione non è, peraltro, assoluta ma vuole garantire
che vi sia una base legislativa sufficiente ad escludere qualsiasi margine di discrezionalità
dell'Amministrazione finanziaria [43].
Grazie ad essa, infatti il legislatore è chiamato a disciplinare gli elementi essenziali che
identificano la prestazione, ossia: il presupposto, il soggetto passivo la base imponibile con l'aliquota
[44] e le sanzioni.
Per il resto la dottrina dominante [45],
concorde sulla natura relativa della riserva di legge, non ha perciò alcun dubbio sulla possibilità
di rimettere la disciplina degli aspetti marginali ad atti normativi secondari [46].
[43] CRISAFULLI V. Lezioni di diritto costituzionale,
Verona, 1993, 64 ss. sottolinea il diverso significato attribuibile ai concetti “riserva di
legge” e “principio di legalità”. “…la originaria funzione garantista
dei diritti di libertà della riserva di legge affonda le sue origini nelle ideologie (e nei
limiti) del liberalismo democratico ottocentesco, muovendo dal concetto ‘politico’ della
legge, strumento di autogoverno della colletività e quindi supremo mezzo di tutela delle libertà,
perché ogni limitazione stabilita con legge si tradurrebbe in una sorta di ‘autolimitazione’
indirettamente consentita dai soggetti interessati a mezzo dei loro ‘rappresentanti’.
Per questo aspetto l’istituto si accomuna al più generico ‘principio di legalità’,
che inerisce essenzialmente alla struttura dello ‘stato moderno’ (come stato di diritto)
ed è certamente accolto nel nostro vigente ordinamento, anche se non esplicitato in sede formalmente
costituzionale. Secondo concetto, tuttavia, riserva di legge e principio di legalità si distinguono
chiaramente: quel che esige il principio di legalità…è che l’esplicazione
dell’autorità trovi il proprio fondamento positivo, oltre che il proprio limite negativo,
in una previa norma…La riserva di legge esige, invece, molto di più, e cioè che
la legge regoli essa stessa, in tutto o in parte…le materie che ne sono oggetto. L’uno
è un limite al potere esecutivo, e più largamente ai pubblici poteri diversi dal potere
legislativo; l’altra un vincolo di contenuto alla stessa legge formale….L’istituto
della ‘riserva di legge’ si differenzia realmente, in pratica, dal principio di legalità,
in quanto vi sia rigidità costituzionale garantita dal sindacato sulle leggi…Anche essendovi
rigidità costituzionale garantita da controllo sulle leggi, riserve ‘relative’
e principio di legalità tendono a identificarsi, ove quest’ultimo debba essere inteso
in senso sostanziale, anziché come implicante semplicemente l’esigenza di previa norma
di legge attributiva di potere (come mera legalità formale, cioè) ”.
[44] La Corte Costituzionale si è espressa più di una volta
in tal senso: 18 marzo 1957, n. 47, in Giur. Cost. 1957, 45; 27 giugno 1959, n. 36, ibidem, 1959,
670; 6 luglio 1960, n. 51, ibidem, 1960, 705; 11 luglio 1969, n. 129, ibidem, 1969, 1763. FANTOZZI,
Diritto tributario, parla, in merito, di “concordia in dottrina e giurisprudenza nel ritenere
che la ‘base’ legislativa sia realizzata quando la legge disciplini almeno gli elementi
essenziali che identificano la prestazione” (ed in tal senso vede nelle pronunce della Corte
costituzionale la conferma del fatto che l’indicazione della base legislativa debba essere “sufficiente
ad impedire che la discrezionalità dell’Amministrazione ‘trasmodi in arbitrio’”).
[45] CRISAFULLI, Lezioni, op. cit. 61 ss.; FANTOZZI, Diritto tributario,
op. cit. 76; FEDELE, I principi, op. cit. 467; MICHELI, Corso, op. cit., 49.
[46] In tal senso, FEDELE, I principi, op. cit. 467, rileva: “…il
legislatore deve direttamente individuare i soggetti e il presupposto o fatto imponibile; è
appunto in questi aspetti della disciplina che più specificamente si evidenzia la scelta del
criterio del concorso alle pubbliche spese cui il tributo si ispira. Una volta fissato questo aspetto
essenziale, individuata quindi la prestazione imposta, la disciplina restante – rispetto alla
quale tradizionalmente si afferma l’elasticità della riserva – risulta, proprio
per la sua posizione funzionalmente dipendente, strumentale, già ampiamente vincolata”
In senso contrario, invece, bisogna rilevare come vi sia una parte della dottrina che ritiene la riserva
posta dall'’rt. 23 Cost. in parte assoluta ed in parte relativa: PALADIN La potestà legislativa
regionale, Padova, 1958, 79 ss. ed AMATO, Rapporti tra norme primarie e secondarie, Milano, 1962,
94.
Bisogna segnalare, tuttavia come talvolta la Corte [47] abbia ammesso la possibilità che i soggetti, il presupposto d'imposta o anche l'aliquota fossero disciplinati da fonti diverse dalla legge, purché vi fosse, però, una disciplina legislativa minima, volta, comunque, a circoscrivere i margini di discrezionalità amministrativa [48]. In tal modo, quindi, benché vi sia concordia sulla necessità della cosiddetta prefigurazione normativa delle prestazioni imposte, si ammette la possibilità di derogare a tale principio [49], integrando il disposto della legge con un regolamento [50].
[47] CORTE COSTITUZIONALE,
26 gennaio 1957, n. 4 in Giur. Cost. 1957, I 22 ss; 13 luglio 1963, n. 127, in Giur. Cost. 1963, II,
1404 ss; 29 marzo 1972, n. 56 in Giur. Cost. 1972, I, 254.
[48] FANTOZZI, ult. op. cit., 76: “la dottrina ha così richiamato
la necessità di limiti in senso stretto, costituiti, appunto da limiti quantitativi massimi
e minimi riferiti all’entità della prestazione o al tasso d’imposta”.
[49] M.S. GIANNINI Corso di Diritto amministrativo, Milano 1970, II,
1966; FEDELE Commento all'art. 23, in “Commentario alla Costituzione” a cura di G. Branca,
Bologna-Roma, 1978, 121.
[50] Contrario a tale tendenza è MICHELI, Corso, op. cit., che,
in merito rileva: “Tale tendenza, appoggiata anche da parte della dottrina, non persuade completamente,
poiché il precetto costituzionale non si limita a stabilire che il tributo deve essere istituito
con legge, ma precisa che tale prestazione coattiva non può essere imposta ‘che in base
alla legge’. Il che implica la necessità che la legge istitutiva del tributo debba contenere
tutti gli elementi idonei a stabilire il contenuto della prestazione escludendo perciò ogni
arbitrio da parte dell’esecutivo al riguardo… A questo fine non pare sufficiente che la
legge si limiti ad indicare alcuni elementi soggettivi ed oggettivi del tributo, senza indicare poi
quantomeno i limiti massimi in cui la prestazione deve essere contenuta…”
La dottrina si è soffermata ad analizzare il meccanismo che consentirebbe l'ingresso ad una
fonte di diritto secondaria, laddove, chiaramente, la Costituzione ponga una riserva di legge. Secondo
alcuni [51] i regolamenti in materia tributaria,
previamente "autorizzati" dal legislatore, dovrebbero limitarsi a dare semplice attuazione
alla disciplina posta dalla legge. Secondo parte prevalente della dottrina [52],
invece, la natura relativa della riserva di legge comporterebbe la possibilità di integrare,
con delle fonti di grado inferiore, la disciplina legislativa.
Benché, comunque, nella pratica trovino applicazione tanto i regolamenti delegati (o autorizzati)
quanto quelli posti ad integrazione di una disciplina legislativa, è stato rilevato [53]
come la distinzione, posta a livello teorico, si scontri, di fatto, con le difficoltà insite
nel voler delineare a tutti i costi i contorni di due concetti tanto effimeri quanto quelli di “integrazione”
ed “attuazione”.
Richiamando l’orientamento dottrinale prevalente si deve peraltro precisare che, sebbene i regolamenti
abbiano la possibilità di integrare la legislazione tributaria, essi, comunque, rimangono legati
a questa da un vincolo di subordinazione.
Si deve ricordare, inoltre, come un punto saliente della possibilità di integrare la disciplina
legislativa in materia tributaria sia costituito dal rispetto del principio di uguaglianza (art. 3
Cost.). Questo, infatti, rappresenta un aspetto fondamentale, che deve essere tenuto in considerazione
in primo luogo dal legislatore chiamato a stabilire i criteri per realizzare un’equa ripartizione
delle spese pubbliche, e poi, successivamente, anche in fase di attuazione o integrazione della norma
tributaria.
[51] CARLASSARE
Regolamenti, cit. 216 e segg.; BERLIRI Appunti sul fondamento e il contenuto dell’art. 23 della
Costituzione in Studi per A.P. Giannini, Milano, 1961, 171 ss.
[52] AMATO Rapporti, op. cit. 127 e segg.; FANTOZZI op.cit. 80; FEDELE
Commento, cit. 124.
[53] FANTOZZI, Ult. op. cit., 80; MELONCELLI, La “delegificazione”
ex art. 17, comma 2, L. n. 400/1988 in Atti del convegno di Salerno “Il nuovo accertamento tributario
tra teoria e processo”, tenutosi presso l’Università di Salerno il 20-21 maggio
1994, a cura di Preziosi, Roma – Milano, 1996.
L’esigenza di non creare ingiuste discriminazioni impone, infatti, che l’integrazione
della disciplina coperta dalla riserva posta dall’art. 23 Cost., avvenga unicamente con regolamento
o con atto amministrativo individuale [54],
poiché la possibilità di utilizzare anche dei provvedimenti amministrativi singolari
non permetterebbe di contemperare i molteplici interessi coinvolti, tra i quali si può ricordare,
a titolo di esempio, quello ad una più equa redistribuzione del reddito.
Se, da quanto si è detto sin qui, emerge chiaramente che la regolamentazione sostanziale dell’imposizione
è soggetta ad una riserva di legge relativa, più controversa risulta, invece, la questione
se debba considerarsi sottoposta alla medesima riserva anche la disciplina processuale o formale.
Sebbene quest’ultima attenga unicamente al momento in cui l’Amministrazione finanziaria
“realizza” le sue entrate, molto spesso accade, infatti, che i suoi effetti ricadano anche
nell’ambito sostanziale, involgendo direttamente gli interessi coinvolti dai criteri di “ripartizione
dei carichi pubblici” [55].
Con riguardo alle presunzioni assolute, in particolare, è stato rilevato [56],
come, il loro tradursi in "vere e proprie sostituzioni di fattispecie attinenti il presupposto,
i soggetti passivi o l'imponibile" fa sì che la loro disciplina ricada, senza alcun dubbio,
sotto la riserva di legge posta dall'art. 23 Cost..
[54] FEDELE Commento, op. cit., 125 ss.
[55] MELONCELLI La delegificazione, ult. op. cit., rileva in merito:
“Il momento critico, ai fini del rispetto della riserva di legge, quindi, si verifica quando
l’apprezzamento dell’amministrazione, come espressione della propria discrezionalità,
non trova più né margine né guida nella predeterminazione teleologica della legge.
Tanto più la finalità risulterà indefinita al momento dell’insorgere di
una situazione fattuale che metta in gioco un “pubblico interesse”, tanto più sarà
decisivo l’intervento dell’autorità amministrativa al punto da far trasmodare una
discrezionalità in attività normativa”.
[56] FEDELE, Rapporti tra nuovi metodi di accertamento e principio di
legalità, in Atti del Convegno di Salerno "Il nuovo accertamento tributario tra teoria
e processo", tenutosi presso l'Università di Salerno il 20-21 maggio 1994, a cura di Preziosi,
Roma-Milano 1996, pag. 45 riguardo alle presunzioni assolute che involgono il presupposto, i soggetti
passivi e l’imponibile, oltre ad evidenziare l’esistenza di una riserva di legge ex art.
23 Cost., rileva anche l’esistenza dei limiti sostanziali di legittimità costituzionale,
posti dagli artt. 3 e 53 della Costituzione.
Sempre attraverso la regolamentazione dell’attività di accertamento, inoltre, possono essere posti, ad esempio, dei coefficienti presuntivi di ricavi che, pur operando su un piano meramente probatorio (nell’ambito di presunzioni iuris tantum), possono, ciò nonostante, avere riflessi assai rilevanti sui contribuenti ai quali venga addossato l’onere di smentire le determinazioni operate dall’Amministrazione finanziaria [57].
[57] LA ROSA, Alternatività dei metodi di accertamento alla luce delle recenti innovazioni normative, in Atti del convegno di Salerno “Il nuovo accertamento tributario tra teoria e processo” tenutosi presso l’Università di Salerno il 20-21 maggio 1994, a cura di Preziosi, Roma – Milano, 1996, in relazione ai cambiamenti avvenuti nell’ambito dell’attività di accertamento propone un’interessante ripartizione temporale identificando essenzialmente tre fasi: di “alternatività sostanziale”, di “alternatività procedimentale o garantista” e di “alternatività probatoria”. Nella prima fase, che si conclude con l’avvento della riforma Vanoni l’aggettivo sostanziale evidenzia la stretta correlazione fra l’oggetto dell’imposizione (il reddito prodotto da soggetti tassabili in base al bilancio e quello prodotto, invece, dagli altri contribuenti) ed il tipo di accertamento utilizzato dall’Amministrazione (“analitico” e “induttivo”); la seconda fase, che idealmente coincide con la riforma Vanoni, pur contraddistinta ancora da una distinzione dei soggetti in “tassati in base al bilancio e non” determina l’introduzione di un sistema, nelle intenzioni, maggiormente garantista per il contribuente, poiché la scelta del tipo di accertamento viene ricollegata al rispetto o meno delle “regole del gioco”; l’ultima fase, quella attuale “si caratterizza, infine, per la tendenza ad una crescente sfumatura delle stesse differenze concettuali e contenutistiche tra i diversi metodi accertativi; i quali sembrano moltiplicarsi a dismisura; ma vengono anche sempre più assimilati e normativamente concepiti come fungibili ed interscambiabili, in una prospettiva sempre più chiaramente qualificabile in termini meramente probatori”.
La dottrina sopra menzionata, infatti, ha rilevato la preoccupante tendenza, tipica degli ultimi
anni, ad utilizzare la stessa disciplina dell'accertamento per giungere "più che ad un
puntuale adeguamento alla disciplina dell'imponibile, a risultati, in termini di effettivo concorso
alle pubbliche spese, rientranti in fasce medie, per categorie di contribuenti, stabilite con tecniche
diverse" [58].
In particolare è stato evidenziato come, se a tale risultato si può pervenire semplicemente
ponendo un'inversione dell'onere della prova, (ovvero con delle prove assolute che ricolleghino a
determinate circostanze di fatto conseguenze normativamente predeterminate), ciò comporti,
nondimeno, riflessi, oltre che di natura distributiva e di tutela fiscale, anche in termini di violazione
della fondamentale garanzia del diritto alla difesa riconosciuto e tutelato dall'art. 24 della Costituzione.
Inoltre, pur prescindendo da considerazioni di qualsiasi altra natura, bisogna tenere conto del fatto
che, solitamente, il comportamento di chi si trovi a determinare un presupposto d’imposta è
profondamente condizionato dalla legislazione in materia di accertamento, a causa della diffusa “ritrosia”
che hanno i contribuenti all’idea di un eventuale confronto diretto con l’Amministrazione
[59].
[58] FEDELE, Rapporti, op. cit., rilevando,
in particolare, “l’inserzione nella disciplina ‘procedimentale’ di interessi
‘sostanziali’ (relativi, essenzialmente, ad una più equa distribuzione, in fatto,
del carico fiscale e ad una maggiore sicurezza e consistenza del gettito)” mette in evidenza
la necessità di estendere l’operatività della riserva di legge, secondo il modulo
della preventiva fissazione di criteri e limiti.
[59] DI PIETRO Rilevanza sostanziale delle “nuove” procedure
di accertamento?, in Atti del Convegno di Salerno “Il nuovo accertamento tributario tra teoria
e processo” tenutosi presso l’Università di Salerno il 20-21 maggio 1994, a cura
di Preziosi, Roma – Milano, 1996, 29 evidenzia al riguardo: “In definitiva le medie di
ricavi, di redditi di settore, del reddito complessivo, prima utilizzati a fondamento delle presunzioni
legali finiscono poi con l’orientare anche le scelte del contribuente quando deve determinare
gli imponibili. Assumono così, anche se indirettamente, un efficacia sostanziale che è
tanto maggiore quanto la conformità alle medie comporta l’inapplicabilità delle
sanzioni…”.
Il fatto che attraverso la disciplina legale della prova (e più in generale, attraverso la
disciplina del processo o del procedimento) si possa, in effetti, incidere su interessi sostanziali
non sarebbe, di per sé in contrasto con altri principi costituzionali, purché, come
è stato rilevato in dottrina [60],
questa disciplina sia l’espressione di una “discrezionalità legislativa”.
Questo significa, perciò, che la riserva di legge posta dall’art. 23 Cost. investe anche
l’ambito “processuale o formale”, sia pur nei limiti dell’esigenza di garantire
una tutela agli interessi sostanziali che vi restino coinvolti [61].
E' per i motivi sopra esposti che appare assai preoccupante il fenomeno, tipico di questi ultimi anni,
che ha visto conferire sempre più spesso delega al Governo affinché identifichi esso
stesso elementi indicativi di capacità contributiva, senza che vi siano già delle leggi
che, predeterminando dei criteri di massima, garantiscano la tutela degli interessi sostanziali coinvolti
da tali provvedimenti .
Gli stessi decreti, inoltre, nell'introdurre nuovi coefficienti, sembrano sempre meno attenti ad evidenziare
quale sia il loro fondamento matematico-statistico, e ciò contribuisce notevolmente a rendere
ancora più difficile un'effettiva tutela giurisdizionale del contribuente.
Bisognerebbe, a questo punto, soffermarsi ad analizzare le implicazioni che il principio di legalità
ha sul procedimento di formazione ed approvazione degli “studi di settore”. Non avendo,
però, neppure introdotto, ancora, la trattazione di questo nuovo strumento di accertamento,
si ritiene opportuno rimandare anche questo argomento ad un momento successivo, così da poterlo
inquadrare in un contesto logico sistematico e, speriamo, coerente.
[60] FEDELE Rapporti, op. cit, rileva in proposito
come vi siano, “nell’ambito della ‘discrezionalità legislativa’ in
materia, i margini per scelte ispirate ad esigenze ulteriori rispetto alla tutela del diritto alla
difesa ed alla piena attuazione della funzione processuale”.
[61] FEDELE ibidem, rileva, in particolare, come ”l’area
di operatività della riserva di legge in materia di prestazioni imposte dovrebbe… estendersi
oltre l’area delle norme di natura esclusivamente ‘sostanziale’, in ragione della
anche parziale tutela riconosciuta ad interessi ‘sostanziali’ pur nell’ambito di
una disciplina con funzione essenzialmente ‘formale’”.
2.5 LA CAPACITA’ CONTRIBUTIVA E LE PRESUNZIONI
Uno dei principi fondamentali posti a base dell'attuale sistema tributario italiano è sancito
dall'art. 53 della Costituzione, che recita: "tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche
in ragione della loro capacità contributiva".
Le spese cui si riferisce l'articolo sono quelle sostenute dalla collettività organizzata nello
Stato per approntare dei servizi indivisibili, in quanto destinati a tutti indistintamente, e per
coprire il costo dei quali sarà dunque necessario ricorrere all'imposizione fiscale [62].
Il principio della capacità contributiva nel concorso alle spese pubbliche trova dunque applicazione
solo quando a fronte di un servizio organizzato dallo Stato, non sia già imposto un “corrispettivo”
a coloro che ne fruiscono, e che possono dunque essere individuati [63].
Il primo comma dell'art. 53 Cost. ha quindi posto, con la necessità di improntare la stessa
norma impositrice al criterio della capacità contributiva, un limite ben preciso al legislatore
ordinario, che, prima di poter prevedere qualsiasi forma di prelievo tributario, avrà così
il compito di trovare dei fatti espressivi di ricchezza idonei a giustificarlo [64].
Come è stato rilevato in dottrina [65],
lo spirito che impronta l'intera Costituzione, e che rivela un'attenzione addirittura meticolosa nel
garantire in ogni aspetto il benessere e la dignità delle persone, ha imposto di interpretare
l'articolo in questione nel senso che non debbano in nessun modo essere considerate imponibili le
forme di ricchezza minime, in grado, cioè, di assicurare appena un'esistenza libera e dignitosa.
[62] FEDELE, I principi costituzionali, op.
cit., 464, individua, nell’art. 53 Cost. una “definizione del fenomeno fiscale come ripartizione
fra i consociati dei carichi pubblici, delle pubbliche spese (…) l’essenza della disciplina
del fenomeno fiscale (…) è (…) la ricerca di soluzioni socialmente accettabili,
operativamente funzionali, ma conformi a parametri di razionalità e generale equità
nella fissazione dei criteri di ripartizione dei carichi pubblici”.
[63] FANTOZZI, Diritto tributario, Torino 1991, 32 evidenzia come le
spese pubbliche a cui si riferisce l’art. 53 Cost. siano “tutte quelle che rispondono
all’interesse generale della collettività, e che quindi meritano di essere ripartite
all’interno di questa (…) Per quanto riguarda i tributi, sono state escluse dalla previsione
dell’art. 53 ‘le contribuzioni relative a prestazioni di servizi il cui costo si può
determinare divisibilmente; mentre vi sono state ricomprese solo le prestazioni contributive caratterizzate
dal conseguimento di finalità generali”.
[64] MICHELI Corso, op. cit., 90 rileva in merito: “ Il legislatore,
nella sua previsione generale, deve qualificare la prestazione coattiva riferendosi ad una situazione
economicamente suscettibile di valutazione. Il possesso di un bene, un atto giuridico concernente
quel bene, la percezione di un reddito e così via sono tutte circostanze che il legislatore
può liberamente valutare, nell’attuazione di un dato indirizzo politico, per il conseguimento
di certe finalità economiche, politiche e sociali”.
[65] GIARDINA Le basi teoriche del principio
della capacità contributiva, Milano, 1961, 447; MANZONI Profili generali del contributo di
miglioria, Torino 1970, 193 e segg.; MAFFEZZONI Capacità contributiva, in Nov. Dig. It., App.
cit. 1011.
Sia pur indirettamente, inoltre, nell’art. 53 Cost., I comma, trova espressione, il principio
di uguaglianza dei cittadini e quello di solidarietà politica, economica e sociale [66],
anche se, a dire il vero, il principio di uguaglianza risulta meglio evidenziato nel II comma dello
stesso articolo, nel quale viene stabilito il principio della progressività del sistema tributario
italiano [67].
L'aspetto che ora interessa maggiormente evidenziare, comunque, è che la capacità contributiva
deve essere attuale ed effettiva: ciò significa, da un lato che non si può disporre
dei prelievi con delle leggi successive alla manifestazione di un qualunque indice di ricchezza economica;
dall'altro che il presupposto del prelievo tributario deve esprimere in modo certo la capacità,
in concreto, a poter concorrere alla spesa pubblica.
Nel corso degli anni è stato possibile notare, a tal proposito, un cambiamento di tendenza
anche nella giurisprudenza della Corte Costituzionale che, dapprima incline a riconoscere come legittime
le presunzioni legali in tema di capacità contributiva [68],
ha successivamente mutato il proprio orientamento formulando la nozione di "capacità contributiva
relativa". Successivamente, infatti, la Corte ha stabilito che "se è pur lecito
formulare previsioni logicamente valide ed attendibili, non è peraltro consentito trasformare
tali previsioni in certezze assolute, imperativamente stabilite, senza la possibilità che si
ammetta la prova del contrario e si salvaguardi quindi, accanto all'esigenza indiscutibile di garantire
l'interesse della finanza pubblica alla riscossione delle imposte, il ricordato ed altrettanto indiscutibile
diritto del contribuente alla prova ed effettività del reddito soggetto all'imposizione"[69].
[66] MICHELI
Diritto tributario, op. cit., 89,in tal senso rileva che “L’art. 53, I comma, si manifesta
non solo come espressione concreta del principio dell’uguaglianza dei sottoposti alla sovranità
dello Stato davanti alla legge (art. 3 Cost), ma altresì del principio di solidarietà
politica, economica e sociale (art. 2 Cost.). La prestazione coattiva tributaria, conseguente al dovere
istituzionale ‘di tutti’ di concorrere alle spese per la stessa vita della collettività
costituisce, infatti, un limite a taluni diritti di libertà dell’uomo, proprio in vista
dell’attuazione di una solidarietà che si deve esprimere anche sul piano economico e
quindi attuarsi come limite alla libertà del singolo ed alla sua integrità patrimoniale”.
FANTOZZI, Diritto tributario, op. cit., 31, evidenzia, inoltre, le analogie fra e l’art. 53
e l’art. 4 della Costituzione, “dove oggetto del dovere è il ‘concorso di
ogni cittadino secondo le proprie possibilità…al progresso materiale e spirituale della
società”.
[67] MICHELI, Corso, ult. op. cit., 94
evidenzia come, mentre al I comma dell’art. 53 si debba riconoscere la qualità di norma
precettiva, al II comma, invece, si debba riconoscere semplicemente il valore di “direttiva
per il legislatore”.
[68] Corte Cost.: 12 luglio 1965, n. 69,
in Giur. Cost , 1965, 855; 13 luglio 1967, n. 77 in Giur. Cost, 963 (in cui viene stabilito il principio
in base al quale “non è arbitrario ritenere in via del tutto provvisoria che il reddito
denunciato dal contribuente per un periodo d’imposta si produce, almeno nella stessa misura,
anche nei due periodi successivi, in base all’id quod plerumque accidit”); 22 luglio 1967,
n. 103, ibidem, 1149; 22 luglio 1967, n. 109, ibidem 1199.
[69] Corte Cost., 28 luglio 1976, n. 200,
in Giur. Cost., 1976, 1254. Si può ricordare, inoltre, la sentenza n. 41 del 1999 (Pres. Granata,
Red. Contri), con la quale è stata dichiarata la “illegittimità costituzionale
dell’art. 26, comma I del DPR 26/04/1986, n. 131 (approvazione del T.U. delle disposizioni concernenti
l’imposta di registro), nella parte in cui esclude la prova contraria diretta a superare la
presunzione di libertà dei trasferimenti mobiliari”.
L'illegittimità delle presunzioni assolute (pronunciata avendo riguardo ai diversi principi che improntano il nostro ordinamento, e non facendo riferimento solo all'art. 53 Cost.) ponendo l'accento sulla necessità di una determinazione esatta della capacità contributiva ha evidenziato altresì le gravi carenze che presentano sotto tale profilo i sistemi impositivi basati sulla catastalizzazione o sulla forfettizzazione dei redditi. Sebbene infatti siano indiscutibili i benefici in termini di semplificazione che si ritraggono dall'utilizzo di tali criteri di determinazione dell'imposta, tanto con riguardo all'aspetto della liquidazione che con riferimento all'eventuale fase di controllo posta in essere dall'Amministrazione finanziaria, non può negarsi che la capacità contributiva in tal modo individuata esprima un valore meramente convenzionale che solo in base alla comune esperienza può rispecchiare la realtà [70].
[70] FEDELE, I principi costituzionali, op. cit., 475, in merito alle prove legali (ma il discorso sembra altrettanto valido riguardo ai sistemi di imposizione “forfettari”) rileva, infatti, che “In realtà, qualsiasi disciplina legale della prova esprime l’apprezzamento, sul piano normativo, di interessi diversi da quelli direttamente implicati dall’equa ripartizione dei carichi pubblici, quindi un parziale sacrificio dei principi di giustizia distributiva per soddisfare interessi di sicurezza e rapidità nella percezione dell’entrata”.
In base a quanto si è detto sin qui bisogna dunque concordare con chi [71],
evidenziando il conflitto potenziale fra l’art. 53 Cost. e le presunzioni assolute, ha altresì
rilevato il rischio che si possa violare il principio della capacità contributiva anche mediante
la disciplina dell’attuazione del prelievo.
Quest’eventualità sembra aver suscitato un crescente interesse, in dottrina, in relazione
all’utilizzo sempre più frequente, da parte dell’Amministrazione finanziaria, di
strumenti di accertamento che si basano sull’utilizzo delle presunzioni [72].
Il timore, in particolare, è che attraverso la “disciplina dell’attuazione”
del prelievo (e, più specificatamente con l’attività di accertamento) si vada
ad incidere, di fatto, sui criteri di “distribuzione” dell’onere fiscale, individuando
delle fattispecie sostitutive del presupposto d’imposta che non indichino la medesima capacità
contributiva evidenziata dalle norme impositive e mettendo, di conseguenza, in pericolo la coerenza
dell’intero sistema impositivo [73].
[71] FEDELE,
ult. op. cit. 472 ss
[72] Fra gli altri, FEDELE, ibidem; DI
PIETRO A. Rilevanza,op. cit., 29; LA ROSA Alternatività, op. cit.,19.
[73] FEDELE I principi costituzionali,
op. cit., 474, al riguardo evidenzia: “ …ognuna di queste ipotesi di presunzione assoluta,
di coefficienti che determinano fatti e materie imponibili diversi e sostitutivi di quelli normali
od ordinari, richiede anche un controllo di compatibilità, un controllo, cioè, circa
la possibilità di un ragionevole coordinamento fra criteri di ripartizione dei carichi pubblici
fra loro, almeno in parte, diversi nell'’mbito di un medesimo tributo".
2.6 IL REDDITO NORMALE ED IL REDDITO EFFETTIVO
Se con il termine accertamento si può individuare “la fase di controllo del comportamento
(in specie della dichiarazione) del contribuente e di espletamento di operazioni tecnico-giuridiche
di valutazione e di stima del presupposto” [74],
è invece molto più difficile trovare, in dottrina, una definizione altrettanto chiara
e lineare del concetto di “presupposto d’imposta”.
Con la riforma del 1973 l'obiettivo maggiormente perseguito è stato chiaramente quello della
determinazione di un reddito "effettivo" attraverso l'ausilio delle scritture contabili
ma la possibilità, contemplata in determinate circostanze, di poter esperire accertamenti extracontabili
ha messo in evidenza come, in tali ipotesi, oggetto dell'imposizione divenisse, di fatto, un reddito
presunto. Del resto l'esigenza di prevedere, in taluni casi, modalità di accertamento svincolate
dalle risultanze contabili, come ad esempio nel caso dei coefficienti presuntivi, se da un lato porta
a determinazioni di natura estimativa (che collocandosi nella fattispecie procedurale dell'accertamento
la snelliscono) dall'altro non può comunque porre a proprio fondamento delle presunzioni assolute.
Questo perché, come già si è visto, l'attitudine effettiva a concorrere alle
spese pubbliche menzionata dall'art. 53 Cost., non può ricavarsi semplicemente attribuendo
natura sostanziale a delle presunzioni, ma dovrà semmai desumersi tramite l'utilizzo di queste
in un ambito meramente probatorio, suscettibile dunque di essere contrastato mediante l'adduzione
di prove contrarie.
[74] FANTOZZI Diritto tributario, op. cit., 275 individua in questa formula l’esatto significato del termine accertamento, alla luce della più recente disciplina legislativa, tesa a dare un significato sempre più preponderante all’aspetto attinente al controllo del contribuente. RUSSO La tutela del contribuente nel processo sui redditi virtuali o presunti: problemi generali, in Atti del Convegno di Salerno “Il nuovo accertamento tributario tra teoria e processo” tenutosi presso l’Università di Salerno il 20-21 maggio 1994, Roma-Milano, 53,evidenzia, invece, come il fine ultimo dell’attività di accertamento dell’Amministrazione finanziaria possa essere individuato nella determinazione autoritativa di un imponibile e/o di un'imposta.
Oggetto della ricerca sarà dunque sempre il reddito “effettivo”, ma nel caso in cui si riscontri l’impossibilità di procedere ad una ricostruzione del presupposto sulla base dei pochi dati contabili disponibili, risulterà certamente preferibile, in termini di attendibilità, una determinazione dello stesso su “redditi medio ordinari”[75].
[75] Nello stesso senso sia GALLO Il dilemma reddito normale o reddito effettivo: il ruolo dell'accertamento induttivo in Rass. Trib., 1989, 10, I, 460 che LUPI, Metodi induttivi, cit. pag. 88: “L’utilizzazione di criteri estimativi di larga massima appare cioè finalizzata non tanto a rendere irrilevante il ‘reddito effettivo’, quanto a superare l’impasse provocata dalla difficoltà di effettuarne ricostruzioni più attendibili (…) Il riferimento a redditi medio ordinari è dovuto quindi al fatto che parametri di medietà e riferimenti all’esperienza comune rappresentavano spesso, per la mancanza di conoscenze più specifiche, la determinazione più attendibile. Questo ragionamento non deve essere accostato alle imposizioni forfettarie o paracatastali, poiché, come si è detto, non rende irrilevanti più attendibili determinazioni eventualmente dimostrabili nella fattispecie (…) Anche alla base delle determinazioni forfettarie ci sono forse ragionamenti indiziari, ma la loro utilizzazione per predeterminare il reddito è ben diversa dalla formulazione a posteriori di ipotesi probabili concernenti il singolo contribuente…”.
E' interessante notare, comunque, come anche l'utilizzo dell'apparato contabile nella ricerca del
reddito sia fondato su delle scelte operate a priori dal legislatore, tanto che il valore che alla
fine se ne potrà ricavare sarà, comunque, di natura meramente convenzionale [76],
poiché fondato su valutazioni effettuate in base a criteri comuni, che spesso non tengono conto
delle specifiche realtà di singole situazioni [77].
Ciononostante è condivisibile l’idea [78]
che, se si prescinde dalle esigenze organizzative dell'Amministrazione finanziaria, è certamente
più equa una determinazione del reddito basata su elementi contabili, piuttosto che su sistemi
forfettari o paracatastali [79],
poiché il riferimento costante a valori analiticamente e correttamente contabilizzati dovrebbe
comunque garantire una maggiore aderenza alla situazione concreta dell'azienda.
Come è stato giustamente sottolineato dalla stessa dottrina, più che parlare della contrapposizione
reddito effettivo-reddito normale, è allora forse più giusto soffermarsi ad evidenziare
i differenti modi di determinare i redditi: "a priori, in via automatica ed extracontabile"
o "a posteriori, in base alla contabilità ed in modo analitico".
La scelta di un sistema piuttosto che di un altro sarà dunque il frutto di una valutazione
rimessa al legislatore che, nel tentativo di contemperare l’esigenza di equità nell'imposizione
dei redditi con le difficoltà che gli derivano dalla sua posizione di “inferiorità
conoscitiva” [80],
dovrà comunque cercare di ovviare alle gravi deficienze organizzative dell'Amministrazione
finanziaria nel gestire un ingente numero di accertamenti analitici.
Nasce dunque da una sorta di compromesso l'utilizzazione, nei casi in cui non è possibile ricostruire
analiticamente il presupposto d'imposta, di metodi estimativi, volti in primo luogo ad evidenziare
l'esistenza di un'evasione anche laddove la contabilità formalmente appare come regolare.
In questa prospettiva un presupposto d'imposta determinato in sede di accertamento avendo riguardo
ad indici volti a ricavare valori medi ha dunque la prerogativa di rappresentare, con buona probabilità,
il valore imponibile che, in una situazione normale, maggiormente si dovrebbe avvicinare a quello
effettivo correttamente determinato. Volendo usare le parole di altri, potremmo concludere, richiamando
un’affermazione che molti consensi ha riscosso in dottrina [81],
dicendo che "il reddito non è una realtà ontologica preesistente al dato normativo",
ma è il frutto di scelte concrete operate a monte dal legislatore, il quale, avendo riguardo
alle diverse esigenze, predilige ora soluzioni basate su elementi forfettari, ora quelle che tendono
invece alla effettività, creando talvolta dei presupposti che combinano addirittura in sé
le risultanti di metodi tra loro così diversi.
[76] GALLO Il
dilemma, op. cit., 460 nt.1 rileva addirittura come, paradossalmente, la convenzionalità del
reddito sia più ridotta nel sistema di determinazione del reddito previsto per le imprese minori,
dove le cosiddette valutazioni convenzionali (rimanenze, ammortamenti) sono assai poco significative.
[77] LUPI, Metodi induttivi, op. cit.,
91, evidenzia chiaramente come i concetti di “reddito effettivo” e “reddito medio
ordinario” rappresentino, già nel diritto sostanziale, “modelli di massima tra
i quali non esiste una precisa soluzione di continuità, poiché il ‘reddito’
non è una realtà ontologica preesistente (…) elementi ‘effettivi’
e ‘forfettari’ sono variamente combinati nelle categorie reddituali dell’imposizione
diretta…”.
[78] GALLO Il dilemma, op. cit..
[79] GALLO ivi, 467 “Difficilmente
può sostenersi che sussistano ancor oggi quelle condizioni politiche e sociali che hanno giustificato
nel passato la determinazione forfettaria e per quotità del reddito d’impresa o professionale.
Non sussiste più, innanzitutto, una situazione economica caratterizzata dalla prevalenza della
ricchezza immobiliare e, quindi, di una ricchezza che, per essere ‘fondata’, non richiede
analitiche individuazioni di ‘entità nette’: è evidente che l’industrializzazione
del paese e il progredire del settore terziario hanno prodotto un’articolazione della realtà
tale da richiedere sistemi più sofisticati e meno rozzi di tassazione”.
[80] LUPI Metodi, op. cit., 77.
[81] Le parole sono di BASCIU, Riflessioni
in margine alle c.d. questioni di fatto relative a valutazioni estimative, in Riv. Dir. Fin., 1978,
I, 665, ma sono state richiamate sia da LUPI, Metodi induttivi, op. cit., 91 che da GALLO Il dilemma,
op. cit.,462.
Per inquadrare correttamente il problema dell'accertamento induttivo con riguardo alla determinazione
del presupposto d'imposta bisogna rilevare poi che la presenza della facoltà di addurre prove
contrarie esclude che si sia in presenza di criteri forfettari automatici [82].
Naturalmente qualora ci si trovi di fronte alla possibilità concessa all'Amministrazione finanziaria
di porre alla base dei propri accertamenti dimostrazioni induttive poco articolate, a fronte delle
quali siano invece richieste prove contrarie assai ristrette, la tendenza riscontrabile sarà
indubbiamente quella a prediligere redditi predeterminati. Quello che sembra importante mettere in
risalto, tuttavia, è che finché esisterà la possibilità di controbattere
le determinazioni dell'Amministrazione finanziaria con delle prove contrarie, all'accertamento induttivo
dovrà comunque essere negata la natura sostanziale, per riconoscergli unicamente valore procedimentale.
[82] GALLO, Il dilemma, op. cit. 461, rileva, al riguardo: “…a mio avviso, nei sistemi fiscali costruiti su presupposti d’imposta di tipo analitico la dimostrazione induttiva di un maggior reddito attiene al fronte dell’accertamento e non a quello della determinazione del reddito in via automatica (… )Anche se concretamente l’accertamento induttivo riecheggia l’idea di un reddito commisurato alla potenzialità degli impianti, all’ammontare dei capitali, al numero dei dipendenti – e, quindi, a fattori extracontabili – esso tuttavia tende ad individuare il presupposto-possesso del reddito (contabile) così come è definito dal legislatore e così come può essere dimostrato nelle varie situazioni concrete. Non ha insomma l’effetto di alterare ‘il contenuto sostanziale dell’imposta’. Ciò dipende dal fatto che in tali sistemi è data- e non potrebbe essere altrimenti- al contribuente la facoltà di fornire la prova contraria di quanto accertato in via induttiva dall’ufficio e di riportare, quindi, la dialettica con il Fisco nell’ambito del presupposto d’imposta-reddito aziendale fissato dalla legge”.
2.7 IL CONTRADDITTORIO NEL PROCEDIMENTO DI ACCERTAMENTO E LE GARANZIE DI DIFESA DEL CONTRIBUENTE
Nell'ambito dell'accertamento induttivo assume un'importanza notevole il rispetto del cosiddetto
"principio del giusto procedimento" proclamato dalla Corte Costituzionale in ben due sentenze
[83], secondo
il quale i soggetti interessati dagli effetti di un provvedimento debbono essere sentiti prima che
lo stesso venga emesso.
Alla luce dell'art. 97 della Costituzione - che vuole comunque un'organizzazione dei pubblici uffici
idonea a garantire il buon andamento e l'imparzialità della loro amministrazione - non si vede,
inoltre, come si possa raggiungere tali obiettivi, nell'ambito dell'accertamento, prescindendo a priori
da una valutazione delle ragioni del contribuente.
Come è stato evidenziato con chiarezza in dottrina [84],
affinché vi sia effettivamente l'imparzialità vi deve essere la conoscenza di tutti
i dati di fatto, e, proprio a tal uopo, è necessario il contraddittorio tra le parti, anche
nell'accertamento induttivo. E' naturale che in quest'ultimo caso, data la complessità insita
nel lavoro di ricostruzione di un presupposto di imposta, l'attività dell'Amministrazione finanziaria
sia volta ad esprimere un semplice giudizio in termini di probabilismo sull'attendibilità di
una dimostrazione fondata su delle presunzioni.
[83] Corte Cost.le,
2 marzo 1962 n. 13 - 20 marzo 1978 n. 23.
[84] MOSCHETTI Avviso di accertamento
tributario e garanzie del Cittadino in Dir. Prat. Trib. 1983, I, 1937.
Questo non significa, però, che possa comunque dimostrarsi utile un contraddittorio intelligente
con il contribuente, volto a vagliare, con l'occhio critico dell'interessato, la validità degli
elementi di fatto sui quali le presunzioni stesse trovano il loro fondamento.
Il risultato dell’auspicata applicazione del principio "audita altera parte" in fase
istruttoria sarebbe sicuramente quello, oltre che di migliorare la qualità dell'accertamento,
anche di limitare, successivamente, i casi di contenzioso.
Bisogna porre in risalto, infatti, come, attualmente, la tutela degli interessi eventualmente lesi
nella fase istruttoria sia rimasta legata all'impugnativa dell'avviso d'accertamento, nel quale, attraverso
la motivazione, dovrebbe essere chiaramente esposto l'iter logico che ha portato l'Amministrazione
finanziaria a ricostruire un presupposto d'imposta diverso da quello denunciato dal contribuente.
Ciò che sembra interessante far notare, anche se solo incidentalmente, è come dall'attività
dell'Ufficio accertatore posta in essere in sede di verifica, sia possibile che derivino al contribuente
dei danni diversi da quelli connaturati all'accertamento stesso (come nel caso di violazione del diritto
alla riservatezza), che non trovano peraltro adeguata tutela nell'impugnazione dell'atto d'accertamento;
questo perché può accadere, ad esempio, che l'attività di controllo non porti
ad un accertamento, oppure perché, più semplicemente, il comportamento lesivo di un
diritto soggettivo è stato perpetrato ai danni di un soggetto diverso da quello sottoposto
a verifica [85].
Prescindendo da quest'ultima considerazione si deve comunque mettere in risalto come, se il discorso
sinora fatto è valido per l'accertamento in genere, esso assuma un valore ancora più
incisivo con riferimento a quelle ipotesi in cui vengono utilizzate, in concreto, determinazioni induttive
[86].
In tali casi, infatti, è ancora più evidente come l'accertamento sia l'ultimo atto di
un procedimento complesso, caratterizzato spesso da elementi inquisitori che lasciano non troppo spazio
alla tutela del contribuente [87],
ed è quindi naturale che, in un simile contesto, il contraddittorio possa rappresentare, attraverso
un proficuo dialogo tra Amministrazione finanziaria e contribuente sottoposto a verifica, un modo
per garantire l’effettiva ricerca della verità [88].
[85] SALVINI,
in un intervento riportato a pag. 135 ss in L’accertamento tributario: principi, metodi, funzioni.
A cura di Adriano Di Pietro, 1994 parla, più diffusamente, dell’argomento.
[86] FEDELE, I principi, op. cit., rileva,
in proposito, “…le diverse forme di ‘parametrazione’ dei redditi imponibili
rafforzano l’esigenza di adeguate forme di contraddittorio in sede amministrativa, per ridurre
la possibilità che gli ‘automatismi’ normativi determinino risultati sostanzialmente
iniqui ed anticipare le argomentazioni e deduzioni probatorie che il contribuente sarebbe altrimenti
costretto a fornire solo in sede contenziosa”.
[87] GALLO, Garanzie del contribuente,
in L’accertamento tributario: principi, metodi, funzioni, a cura di Adriano Di Pietro, 1994,
104 rileva in merito: “Finora, la mancanza di una specifica e diretta tutela del contribuente
nella fase istruttoria è stata in gran parte giustificata dal fatto che, confluendo gli atti
istruttori nell’avviso di accertamento, l’impugnativa di quest’ultimo assicurerebbe
anche la tutela degli interessi lesi nel compimento degli atti precedenti”.
[88] FEDELE, I principi, op. cit., 477
rileva in merito come sia sintomatico che le prime previsioni di “contraddittorio necessario”
siano apparse proprio nella disciplina di “redditometri” e coefficienti. Rileva altresì
come non sia ancora chiaro se tali previsioni siano espressione di una regola generale e, soprattutto,
“se il contraddittorio, nell’attività di controllo ed accertamento abbia uno specifico
referente costituzionale”.
Sulla base di queste premesse non vi è dubbio che la motivazione, rappresentando sovente l’unica
forma di “esternazione” del procedimento logico seguito dall’Ufficio accertatore,
diviene un elemento assolutamente indispensabile per garantire effettivamente, al contribuente, il
diritto alla difesa [89].
Rileviamo, per inciso, che è stato evidenziato in tal proposito come la motivazione mantenga
il suo ruolo centrale anche negli accertamenti che si avvalgano di una rideterminazione parametrata
del reddito [90].
Anzi, al riguardo, si è voluto segnalare [91]
più in particolare, come la possibilità di esercitare in concreto il diritto alla difesa
- attraverso l’adduzione di prove contrarie alle argomentazioni formulate dall’Amministrazione
– sia intimamente condizionata dalla effettiva conoscenza del procedimento seguito per determinare
i “parametri” utilizzati.
[89] GALLO,
ivi, 105 espone le ragioni per le quali è essenziale che sia indicata la motivazione nell’avviso
di accertamento: “…l’avviso di accertamento rappresenta l’atto culminante
del procedimento applicativo del tributo, la cui emissione è il riflesso anche del compimento
di atti istruttori propedeutici e nel quale si coagulano e rilevano in posizione paritaria gli interessi
toccati dalla funzione di controllo e di accertamento. In questo contesto la nullità comminata
per la mancata esposizione delle ragioni della pretesa costituisce una sorta di ‘compensazione’
in favore del contribuente per l’andamento inquisitorio dell’attività di verifica
e, corrispondentemente, un fermo richiamo all’Ufficio ad esternare in modo congruo le prove
raccolte in una situazione carente di tutela per il contribuente sotto il profilo del contraddittorio
e non più raccoglibili nelle successive fasi contenziose”.
[90] FEDELE, I principi, op. cit. 477
evidenzia: “E’ ovvio, infatti, che l’accertamento deve evidenziare i presupposti
per il ricorso alla determinazione ‘parametrata’ del reddito ed i ‘parametri’
in concreto utilizzati. Ma, anche a voler ammettere che null’altro debba esplicitamente essere
riportato nel testo dell’atto, si dovrà riconoscere che l’indicazione della specifica
relazione fra parametri prescelti e misura del reddito accertato risulta per implicito riferimento
ai criteri a procedimenti tecnici utilizzati per la formulazione di ’redditometri’ e coefficienti,
appunto”.
[91] FEDELE, ivi, 478.
Riprendendo, comunque, le fila del discorso si può rilevare come, se nel passato la carenza
della motivazione conduceva direttamente alla nullità dell’avviso di accertamento [92],
ciò che si registra negli ultimi anni è, invece, un preoccupante ammorbidimento della
giurisprudenza della Cassazione. Con una pronuncia a sezioni unite [93]
relativa all’imposta di registro, è stato enunciato, infatti, il principio in base al
quale è sufficiente che l'Amministrazione finanziaria esponga nell'avviso di accertamento un
semplice inizio di motivazione, ben potendo completare poi, in sede contenziosa, la spiegazione compiuta
delle proprie argomentazioni.
Questo significa che vengono confinate ad ipotesi di nullità solo gli avvisi di accertamento
le cui motivazioni non facciano alcuna menzione delle prove su cui si basano, mentre basterà
anche un accenno incompiuto a questa o quella prova perché l'attività dell'Ufficio accertatore
debba ritenersi ineccepibile. In questo modo la possibilità per il contribuente di motivare
con cognizione di causa il proprio ricorso, risulta irrimediabilmente compromessa, posta l'impossibilità,
in cui esso si trova, di conoscere compiutamente su quali elementi probatori si fondino le pretese
avanzate dall’Amministrazione in sede d'accertamento.
[92] GALLO,
Garanzie, op. cit., mette in evidenza al riguardo “E poiché è con la motivazione
che si da conto del procedimento logico-mentale descrittivo delle ragioni della pretesa e delle prove
raccolte, si capisce perché, almeno nell’ottica della dominante teoria dichiarativistica,
la carenza di essa culmini nella grave sanzione della nullità insanabile…”.
[93] Sentenza n. 4853 del 3 giugno 1987,
in Riv. Dir. Trib. 1988, 6, I, 284.
Alla luce del richiamato orientamento della Suprema Corte, è stata evidenziata [94]
l'utilità che deriverebbe dal far culminare il contraddittorio fra contribuente e Amministrazione
finanziaria proprio nell'atto d'accertamento, attraverso l'obbligo, per quest'ultima, di motivare
le ragioni per le quali non ritiene di fatto convincenti le argomentazioni che il soggetto passivo
adduce a sostegno delle proprie tesi.
L'auspicio che un tale sistema venga accolto è motivato dall'esigenza di ripristinare un certo
equilibrio nel dialogo tra Amministrazione finanziaria e contribuente che sappia contemperare, soprattutto
ove vi siano determinazioni meramente induttive, le esigenze di verifiche fiscali dotate di un certo
grado di discrezionalità, con l'imprescindibile rispetto delle garanzie fondamentali del contribuente.
[94] GALLO Garanzie, op. cit..