Capitolo III (seconda parte)
Con la L. 438 del 14 novembre 1992 è stato introdotto un nuovo sistema d’accertamento che, affiancandosi a quello già esistente operato in base ai coefficienti presuntivi, ha creato, per i periodi d'imposta che vanno dal 1992 al 1994 compreso, e sia pur con qualche variante d’anno in anno, una situazione più articolata e complessa rispetto a quella precedente. Il nuovo meccanismo, che si basava sul contributo diretto lavorativo [48] (detto anche minimum tax), mirava, in pratica, a determinare un reddito minimo al di sotto del quale il contribuente non poteva scendere: ove si fosse verificata tale eventualità, infatti, l'Amministrazione finanziaria [49] avrebbe automaticamente iscritto a ruolo l’importo risultante dalla differenza fra le imposte autoliquidate e quelle determinate in base alla minimum tax, comprensivo anche dei relativi interessi e sanzioni [50].
[48] Come già
accennato nel paragrafo precedente, in realtà il "contributo diretto lavorativo"
era stato introdotto, per la prima volta, dalla L. 413 del 1991, (la quale, fra l'altro, aveva modificato
l'art. 11 del D.L. 2 marzo 1989 n. 69), ma la sua determinazione, rimessa al pari di quella di qualsiasi
altro coefficiente presuntivo, al dettato di appositi decreti ministeriali, non era stata vincolata
da alcun criterio predeterminato; l'art. 11 D.L. n. 384 del 1992 (convertito nella L.14 novembre 1992
n. 438), aveva, per converso, ancorato l'elaborazione dello stesso a "dati oggettivi e soggettivi
e, in particolare, al tipo di attività esercitata, all'ambito economico in cui essa viene svolta,
all'organizzazione imprenditoriale o professionale, al tempo in cui risale l'inizio dell'esercizio
dell'attività, nonché all'entità dell'apporto considerata anche con riferimento
all'età del soggetto".
[49] Art.11 bis D.L. n.384 del 1992: “…qualora
il reddito derivante dall’esercizio di attività commerciali o di arti o professioni dichiarato
risulti inferiore all’ammontare del contributo diretto lavorativo dell’imprenditore o
dell’esercente l’arte o la professione, e dei suoi collaboratori familiari, soci o associati…l’Ufficio
delle entrate, anche avvalendosi di procedure automatizzate, provvede alla liquidazione e alla riscossione
delle maggiori imposte con le modalità previste per la liquidazione e la riscossione delle
maggiori imposte sui redditi dovute in base alla dichiarazione…”.
[50] Sulle maggiori imposte dovute era
prevista, infatti, una soprattassa del 40%, nonché gli interessi da calcolarsi nella misura
annua del 9%.
Questa prima forma di controllo operata dagli Uffici accertatori poneva dunque, per i contribuenti,
un "limite minimo" di reddito da dichiarare, ma non li garantiva affatto rispetto all'eventualità
di una valutazione dello stesso in termini di congruità. Ciò significa, dunque, che
anche i contribuenti che avessero dichiarato un reddito uguale o superiore rispetto a quello previsto
in base al contributo diretto lavorativo, rimanevano in ogni modo soggetti ad un accertamento con
i coefficienti presuntivi.
Mentre però quest'ultima forma di controllo era riservata solo ad alcune categorie specifiche
di contribuenti [51] la minimum tax era
applicata, ai sensi del primo comma dell’art. 11 bis D.L. 384 del 1992, indipendentemente dal
regime contabile adottato, nei confronti delle imprese di servizi [52]
e dei professionisti con ricavi e compensi non superiori a 360 milioni di lire e delle imprese che
non svolgevano attività di servizi ed avevano ricavi non superiori al miliardo di lire [53].
[51] Questa forma
di accertamento si applicava, infatti, nei confronti delle imprese o degli esercenti arti o professioni
che non si trovavano in contabilità ordinaria (e che non avevano conseguito per il periodo
d'imposta precedente compensi per un ammontare superiore ai 360 milioni di lire o di un miliardo se
esercitavano un'attività diversa da quella rientrante nel campo dei servizi). Potevano essere
accertati in base ai coefficienti presuntivi anche i contribuenti in contabilità ordinaria
, qualora non avessero rispettato i principi di una corretta contabilità o fossero comunque
emerse presunzioni gravi, precise e concordanti sull'esistenza di gravi irregolarità nelle
registrazioni dei componenti positivi.
[52] Costituiscono prestazioni di servizi
le prestazioni dietro corrispettivo derivanti da contratti d'opera, appalto, trasporto, mandato, spedizione,
agenzia, mediazione, deposito e in genere da obbligazioni di fare, di non fare e di permettere quale
ne sia la fonte.
[53] In caso di contemporaneo esercizio
di prestazioni di servizi e di altre attività, occorre fare riferimento all'ammontare dei ricavi
relativi all'attività prevalente, e, in mancanza della distinta annotazione dei ricavi, si
fa riferimento al limite di un miliardo.
Rientravano nell'ambito d'applicazione della minimum tax [54]
tutti gli imprenditori commerciali che non erano soggetti ad IRPEG e gli esercenti arti e professioni
i cui ricavi e compensi non avessero superato i limiti inerenti alla tenuta della contabilità
semplificata (a prescindere, dunque, dal regime contabile adottato in concreto), e che, inoltre, non
avessero iniziato o cessato l’attività nel corso dell’anno [55].
Per quanto riguardava, invece, le attività stagionali, il contributo diretto lavorativo andava
comunque rapportato al periodo d’effettivo svolgimento dell’attività [56].
Erano poi previste una serie di fattispecie che determinavano automaticamente l’inapplicabilità
dalla minimum tax, ovvero che, mettendo in evidenza una situazione di “marginalità”[57],
costituivano il presupposto per la richiesta d’esonero dall’applicazione della stessa:
in quest’ultimo caso era però necessario presentare domanda [58]
ad apposite commissioni provinciali, presiedute dal Prefetto e composte dal direttore regionale delle
entrate, dal direttore dell’ufficio delle entrate, dal sindaco e da un suo delegato con specifiche
conoscenze sulle condizioni socioeconomiche del luogo d’esercizio dell’attività.
[54] Art. 11 bis DL 19 settembre 1992 n. 384,
convertito nella legge 14 novembre 1992, n. 438.
[55] Art.1, II comma D.P.C.M. 18/12/1992 pubblicato sulla G.U. n. 297
del 18/12/1992.
[56] Art.1, III comma D.P.C.M. 18/12/1992, pubblicato sulla G.U. n.297
del 18/12/1992.
Potevano essere considerati “marginali”, ai sensi dell’art. 2 del D.P.C.M. 23 dicembre
1992 pubblicato sulla G.U. n. 2 del 4/01/1993 gli imprenditori che avessero avuto i seguenti requisiti:
- età superiore ai 60 anni o inferiore e ai 26;
- invalidità che comportasse una riduzione della capacità lavorativa superiore al 40%;
- ammontare complessivo dei debiti, a fine esercizio, non superiore ai 5 milioni di lire;
- un decremento dei ricavi, rispetto al periodo d’imposta precedente, superiore al 40%;
- beni strumentali non superiori ai 10 milioni di lire per le imprese che svolgono attività
di prestazione di servizi, e di 30 milioni per quelle che producono beni, e comunque,
in entrambi i casi, qualora abbiano una ridotta efficienza economica;
- esercizio dell’attività in un comune con meno di mille abitanti;
- svolgimento dell’attività in locali di scarso pregio.
Per i soggetti esercenti arti o professioni i requisiti, invece, erano previsti dall’art.3 del
D.P.C.M. cit., ed erano:
- età superiore ai 70 anni;
- esercizio dell’arte o professione da meno di 5 anni;
- invalidità che comporti una riduzione della capacità lavorativa superiore al 40%;
- decremento dei compensi, rispetto al precedente periodo d’imposta superiore al 40%;
- svolgimento dell’attività in locali di scarso pregio e con l’impiego di beni
strumentali di scarsa efficienza economica.
[58] La disciplina relativa alla domanda di esenzione è contenuta
nell’art. 4 del D.P.C.M. 23/12/1992 pubblicato sulla G.U. n.2 del 4/01/1993.
I contribuenti la cui domanda fosse stata accolta, e che comunque avessero dichiarato un reddito
superiore ai 12 milioni, erano, inoltre, esclusi dal controllo a sorteggio sulla base di criteri selettivi
fissati annualmente dal Ministero delle Finanze e dagli accertamenti automatici dei coefficienti presuntivi
dei ricavi.
Oltre alla possibilità di ottenere a priori l’esonero dalla minimum tax, il contribuente,
nei cui confronti fossero già state iscritte a ruolo delle somme, poteva chiederne lo sgravio
presentando un’apposita documentazione asseverata da cui risultasse:
a) che “i dati presi a base per la determinazione del contributo diretto lavorativo sono infondati”;
b) “ovvero che sussistono componenti negativi deducibili non compresi tra quelli ordinariamente
imputabili al settore o all’attività” [59].
[59] Art. 11-bis, comma 2 D.L. n 384 del 1992.
Di conseguenza, al di fuori delle ipotesi di “marginalità” legalmente disciplinate
ed in mancanza di costi straordinari, i contribuenti erano soggetti, ancora una volta, alla tassazione
di un reddito ipotetico di categoria.
Si è visto, nel paragrafo precedente, come, riguardo ai coefficienti, i dubbi sulla loro legittimità
si fossero risolti attribuendo agli stessi natura esclusivamente procedimentale. Natura certamente
estranea, invece, alla minimum tax, in quanto la maggiore imposizione determinata sulla base del contributo
diretto lavorativo veniva, come già detto, automaticamente iscritta a ruolo.
La misura del contributo diretto lavorativo, fissata annualmente per le diverse tipologie di contribuenti
[60], era comunque ridotta nel caso in
cui si svolgesse nel contempo anche attività di lavoro dipendente [61];
nel caso in cui si fossero svolte contemporaneamente più attività [62],
inoltre, questa veniva ricavata, per ognuna di esse, applicando al valore previsto nell’apposita
tabella, la percentuale che scaturiva dal rapporto fra i ricavi ed i compensi derivanti dall’esercizio
della stessa e l’ammontare complessivo dei ricavi e compensi.
[60] Per il 1992 il contributo diretto lavorativo
era stabilito dalla tabella A allegata al D.P.C.M. 18/12/1992 pubblicato sulla G.U. 297 del 18/12/1992;
le imprese erano distinte, oltre che in base alla presenza o meno del personale dipendente, anche
con riguardo ai diversi settori economici di appartenenza: agricoltura, produzione di beni, produzione
di servizi, commercio, trasporti ed altre attività; le professioni, invece, si distinguevano
a seconda che per il loro esercizio fosse richiesto il diploma, la laurea ovvero una particolare specializzazione
e/o attrezzatura.
[61] La misura della riduzione, prevista dal V comma dell’art.1
del D.P.C.M. 18/12/1992, variava a seconda che si svolgesse l’attività di lavoro dipendente
a tempo parziale (30%) o a tempo pieno (50%).
Erano assimilati, fra gli altri, ai redditi di lavoro dipendente: i compensi corrisposti ai lavoratori
soci delle cooperative di produzione e lavoro (entro i limiti dei salari correnti maggiorati del 20%),
le borse di studio, gli assegni i premi ed i sussidi per fini di studio o di addestramento professionale,
le indennità, i gettoni di presenza e gli altri compensi corrisposti dallo Stato, dalle Regioni,
dalle Provincie per l’esercizio delle pubbliche funzioni.
[62] Art. 1 IV comma D.P.C.M. 18/12/1992.
Nel caso in cui le attività svolte contemporaneamente fossero entrambe rivolte alla produzione
di reddito agrario [63], la misura della
minimum tax veniva ridotta del 50%, ma in nessun caso, applicando le riduzioni accordate dalla legge,
si poteva comunque scendere al di sotto della metà del valore previsto come contributo diretto
lavorativo.
Numerosi correttivi erano stati studiati [64]
per adeguare gli importi indicati nella tabella A alle diverse situazioni determinate da “variabili”
quali la diversa localizzazione geografica [65],
l’età del contribuente, la sua eventuale invalidità ed il periodo di esercizio
dell’attività in questione, anche se, nel caso in cui sussistessero contemporaneamente
le condizioni per l’applicazione di due o più coefficienti bisognava comunque applicare
soltanto quello meno elevato.
[63] Comma VI art 1.
[64] Vedi l’art. 3 del D.P.C.M 18/12/1992 pubblicato sulla G.U.
n. 297 del 18/12/1992.
[65] Il D.P.C.M. 18 dicembre 1992, pubblicato sulla G.U. n.297 del 18
dicembre 1992, aveva suddiviso il territorio nazionale in: regioni deboli (Abruzzo, Umbria, Molise,
Puglia, Campania, Basilicata, Calabria, Sicilia e Sardegna), aree urbane minori, aree montane e rurali,
zone di particolare rilievo, urbane ed extra urbane, ed, infine, comuni con popolazione inferiore
a 5.000 abitanti, ed, in relazione alle differenti tipologie di aree, aveva previsto dei “coefficienti
territoriali di adeguamento”.
Nonostante i correttivi apportati, gli sforzi del legislatore per rendere i risultati ottenuti con
l’utilizzo di questo strumento d’accertamento il più possibile vicini alle diverse
situazioni reali dei contribuenti, non portarono, tuttavia, a risultati soddisfacenti.
Non è difficile pensare, perciò, come del resto ha prospettato una parte della dottrina
[66], che è stato forse proprio
a causa del fatto che inquietanti dubbi di legittimità costituzionale [67]
continuassero ad accompagnare l’utilizzo del contributo diretto lavorativo che si è giunti,
con il D.L. 30 agosto 1993, n. 331 (convertito in L. 29 ottobre 1993, n.427), alla sua definitiva
abrogazione.
[66] MOSCHETTI Evoluzione, op. cit. , 121.
[67] MOSCHETTI, ibidem, prospetta l’ipotesi della violazione degli
art. 3, 53, e 41 della Costituzione.
3.4 I PARAMETRI: TRAIT D’UNION TRA I COEFFICIENTI PRESUNTIVI E GLI STUDI DI SETTORE
La “Visentini-ter”, i coefficienti e la minimum tax costituiscono soltanto alcune tappe
nel lento e difficile processo d’affinamento degli strumenti forniti all’Amministrazione
finanziaria per facilitare la sua attività d’accertamento; la ricerca di sistemi capaci
di migliorare l’attendibilità dei risultati forniti da meccanismi presuntivi “automatici”,
laddove l’utilizzo di questi ultimi fosse apparso come l’unica strada percorribile per
la ricerca del “reale” valore del presupposto d’imposta del contribuente assoggettato
a verifica, appariva, dunque, ancora come una necessità.
E’ stato, perciò, proprio con l’intento di effettuare quel “salto di qualità”
che purtroppo, nonostante gli sforzi, non era sino ad allora ancora riuscito, che è stato pensato
il D.L. 331 del 30 agosto del 1993 convertito in legge n.427 il 29 ottobre 1993.
Uno dei punti di maggiore rilevanza della nuova disciplina è senz’ombra di dubbio l’art.
62-sexies del D.L. 331/1993 [68], che,
con effetto dagli accertamenti emessi successivamente al 30 ottobre 1993, introduce la possibilità
di effettuare delle rettifiche analitiche dei redditi
d’impresa e di quelli professionali, attraverso una determinazione presuntiva dei ricavi, dei
compensi e del volume d’affari, nel caso in cui si evidenzino gravi incongruenze fra il giro
d’affari dichiarato e quello fondatamente desumibile dalle caratteristiche specifiche dell’attività
svolta o mediante l’ausilio degli “studi di settore” [69].
In tal modo si è indubbiamente ampliato il potere di rettifica di cui agli artt. 39, comma
1, lettera d), del D.P.R. n. 600/1973 e 54 del D.P.R. n. 633/1972 e, ciò che più è
importante, lo si è finalmente liberato dalle innumerevoli difficoltà in cui spesso
s’incagliava in presenza di una contabilità formalmente corretta.
Nonostante l’art. 62-sexies abbia innovato positivamente la disciplina dell’accertamento
delle imposte sui redditi e dell’I.V.A., il motivo principale per il quale è stato introdotto
è, comunque, per poter preparare il terreno agli studi di settore, previsti dall’art.
62-bis [70] sempre dallo stesso decreto.
[68] Art. 62-sexies: Attività di accertamento
nei riguardi dei contribuenti obbligati alla tenuta delle scritture contabili, comma 3, “Gli
accertamenti di cui agli artt. 39, primo comma, lettera d), del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600,
e successive modificazioni, e 54 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n.633, e successive modificazioni, possono
essere fondati anche sull’esistenza di gravi incongruenze tra i ricavi, i compensi ed i corrispettivi
dichiarati e quelli fondatamente desumibili dalle caratteristiche e dalle condizioni di esercizio
della specifica attività svolta, ovvero dagli studi di settore elaborati ai sensi dell’art.
62-bis del presente decreto”.
[69] FALSITTA G. Manuale di diritto tributario, Padova, 1995, 229, evidenzia,
perplesso, come alle presunzioni qualificate di cui all’art. 2729 c.c., che costituiscono una
valida garanzia per il contribuente, si sia posta la possibilità di disattendere le risultanze
delle scritture contabili, qualora sia dimostrata l’esistenza di gravi incongruenze.
[70] Art. 62-bis, comma I, Studi di settore: “Gli uffici del Dipartimento
delle entrate del Ministero delle finanze, sentite le associazioni di categoria, elaborano, entro
il 31 dicembre 1995, in relazione ai vari settori economici, appositi studi di settore al fine di
rendere più efficace l’azione accertatrice e di consentire una più articolata
determinazione dei coefficienti presuntivi di cui all’art. 11 del D.L. 2 marzo 1989, n. 69,
convertito, con modificazioni, dalla L. 27 aprile 1989, n. 154, e successive modificazioni. A tal
fine gli stessi uffici identificano campioni significativi di contribuenti appartenenti ai medesimi
settori da sottoporre a controllo allo scopo di individuare elementi caratterizzanti l’attività
esercitata, con particolare riferimento agli acquisti di beni e servizi ai prezzi medi praticati,
ai consumi di materie prime e sussidiarie, al capitale investito, all’impiego di attività
lavorativa, ai beni strumentali impiegati, alla localizzazione dell’attività e ad altri
elementi significativi in relazione all’attività esercitata. Gli studi di settore sono
approvati con decreti del Ministro delle finanze, da pubblicare sulla Gazzetta Ufficiale entro il
31 dicembre 1995, possono essere soggetti a revisione ed hanno validità ai fini dell’accertamento
a decorrere dal periodo d’imposta 1995”.
Il menzionato articolo, infatti, estendendo l’ambito di applicazione dell’art. 39, I
comma, lettera d), del D.P.R. 600/1973, ha garantito la possibilità di utilizzare gli studi
di settore indipendentemente dal fatto che l’esistenza d’attività non dichiarate
o l’inesistenza di passività dichiarate sia desumibile da presunzioni gravi, precise
e concordanti.
Rimandando al proseguo l’analisi del meccanismo con il quale è stato introdotto questo
nuovo strumento d’accertamento, ciò che bisogna ora sottolineare, invece, è che
il cammino attraverso il quale si è giunti a questo traguardo è stato, comunque, abbastanza
lungo, tanto che, non appena il legislatore si è reso conto che sarebbe stato praticamente
impossibile avvalersi degli studi di settore già dal periodo d’imposta in corso al 31/12/95,
così come invece era stato originariamente previsto, ha introdotto una sorta di “surrogato”
degli stessi, da utilizzarsi nel lasso di tempo che sarebbe ulteriormente occorso rispetto a quelle
che erano state le previsioni iniziali.
Sebbene, dunque, sin dall’inizio sia apparso chiaro che la posizione che avrebbero dovuto occupare
gli studi di settore sarebbe stata, nell’ambito del nuovo sistema di accertamento, di assoluta
preminenza, il legislatore, ha dovuto, suo malgrado, cimentarsi nella disciplina di un nuovo ed ulteriore
strumento di accertamento.
I parametri sono perciò il frutto di un’autonoma previsione normativa, la L. 28 dicembre
1995 n. 549, concernente “Misure di razionalizzazione della finanza pubblica”, la quale
al comma 181
dell’art.3 [71], li pone alla base
di una nuova procedura di accertamento, classificabile nell’ambito degli accertamenti di tipo
presuntivo di cui all’art.39, comma I, lettera d) del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, e successive
modificazioni.
Così facendo era stato dunque colmato il vuoto normativo che si era determinato a causa della
mancata predisposizione degli studi di settore entro il termine stabilito dall’art. 62-bis del
D.L. 331/1993 ed, anzi, si era provveduto proprio a rinviare formalmente la loro entrata in vigore
[72]; ma, cosa più importante,
si era fornita all’Amministrazione finanziaria, una valida disciplina di supporto, che le permettesse
di fondare le proprie “ricostruzioni” su parametri idonei a determinare i ricavi, i compensi
ed il volume d’affari “fondatamente attribuibili al contribuente in base alle caratteristiche
e alle condizioni di esercizio della specifica attività svolta” [73].
[71] Art. 3, comma 181, L. 549/1995,: “fino
all’approvazione degli studi di settore, gli accertamenti di cui all’art. 39, primo comma,
lettera d), del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, e successive modificazioni,
possono essere effettuati, senza pregiudizio della ulteriore azione accertatrice con riferimento alle
altre categorie reddituali utilizzando i parametri di cui al comma 184 del presente articolo ai fini
della determinazione presuntiva dei ricavi, dei compensi e del volume d’affari”.
[72] Art. 3, comma 180 L. 28 dicembre 1995, n. 549 pone una prima proroga
per l’approvazione degli studi di settore; l’art. 3, comma 124, della L. 23 dicembre 1996,
n. 662 ha ulteriormente prorogato al 31 dicembre 1998 il termine per l’approvazione e la pubblicazione
degli studi di settore, stabilendo, conseguentemente, che le disposizioni riguardanti gli accertamenti
in base ai parametri continuassero ad applicarsi per gli accertamenti relativi ai periodi d’imposta
1996 e 1997.
[73] Art.3, comma 184, L. n. 549/1995: “il Ministero delle finanze-Dipartimento
delle entrate, elabora parametri in base ai quali determinare i ricavi, i compensi ed il volume d’affari
fondatamente attribuibili al contribuente in base alle caratteristiche e alle condizioni di esercizio
della specifica attività svolta. A tal fine sono identificati, in riferimento a settori omogenei
di attività, campioni di contribuenti che hanno presentato dichiarazioni dalle quali si rilevano
coerenti indici di natura economica e contabile; sulla base degli stessi sono determinati parametri
che tengano conto delle specifiche caratteristiche dell’attività esercitata”.
L’elaborazione dei parametri è avvenuta mediante l’ausilio di una complessa procedura
statistica e rappresenta, rispetto agli strumenti presuntivi precedentemente utilizzati, una decisa
inversione di tendenza, destinata a svilupparsi e perfezionarsi con gli studi di settore. Ciò
che il legislatore vuole fornire all’Amministrazione finanziaria, infatti, è sì,
uno strumento presuntivo, ma tanto prossimo alla realtà da poter essere posto, nell’ambito
delle ricostruzioni extracontabili, fra quelle suscettibili di determinare un accertamento “analitico”.
Le presunzioni poste alla base di questa procedura d’accertamento trarrebbero dunque la loro
attendibilità non già da fatti quali, ad esempio, l’avvenuto riscontro dell’esistenza
di ricavi e compensi non contabilizzati, ma, più semplicemente, da elaborazioni statistiche
effettuate, per le diverse categorie produttive, sulla base degli elementi contabili estrapolati dalle
dichiarazioni dei redditi presentate, negli anni precedenti, dai contribuenti stessi.
Ci troviamo perciò dinanzi ad un meccanismo con il quale, per facilitare l’attività
dell’Amministrazione finanziaria, le si è permesso di ragionare con valori che, seppure
a livello statistico hanno un “sufficiente grado di attendibilità”, in concreto,
purtroppo non possono certo scongiurare il pericolo di rettifiche del presupposto d’imposta
non coerenti con quelle che sono le situazioni effettive dei soggetti sottoposti a verifica.
Poiché, come già si è visto, il comma 181 dell’art. 3 della L. 28 dicembre
1995, n. 549 classifica chiaramente la procedura d’accertamento in base ai parametri tra gli
accertamenti di tipo presuntivo di cui all’art. 39, comma I, lettera d) del D.P.R. 29 settembre
1973, n.600, la conseguenza che naturalmente ne discende è che il valore attribuito ai “parametri”
è, in pratica, quello di una presunzione semplice, alla quale, in ragione del fondamento matematico-statistico
proprio di questo nuovo strumento, si può senza dubbio riconoscere i requisiti della gravità,
precisione e concordanza [74].
La natura “relativa” della presunzione posta in essere tramite l’ausilio dei parametri
fa sì che venga data al contribuente la facoltà di eccepire, in sede contenziosa, la
loro inapplicabilità a causa di fatti che abbiano determinato una “situazione non normale”,
quali, ad esempio, lo stato di liquidazione, di fallimento o, più semplicemente, per una situazione
di “marginalità” [75].
[74] SANTACROCE Soluzione nel solco dei parametri
in “Il sole- 24 ore” 10 marzo 1999 n. 67 pag. 23,rileva come le modifiche più rilevanti
apportate mediante i parametri, siano quelle metodologiche e probatorie, “in quanto, vene, di
fatto, abbandonato lo schema della presunzione legale relativa e dell’inversione dell’onere
probatorio proprio dei coefficienti presuntivi, per sostituirlo con un sistema di accertamento indiretto
fondato su presunzioni semplici e ammissibile solo nei confronti di particolari soggetti che risultavano
difficilmente accertabili in modo analitico…”.
[75] MAGISTRO L. Guida al ricavometro e ai nuovi parametri, IPSOA, 1995;”…
altre situazioni oggettivamente anomale che potrebbero giustificare l’inoperatività,
completa o parziale dello strumento presuntivo sono rappresentate da accadimenti eccezionali che abbiano
inciso sulla capacità produttiva del contribuente, e consentano quindi di motivare adeguatamente
la divergenza rispetto al modello parametrico…E’ il caso, ad esempio, di un allagamento
del magazzino…”.
In circostanze particolari, infatti, il risultato ottenuto mediante l’applicazione dei parametri
può non essere attendibile poiché il campione sul quale è stata costruita la
procedura di elaborazione degli stessi non ha un sufficiente grado di “significatività”
rispetto all’universo di appartenenza.
Spetterà, quindi, proprio al giudice tributario il compito di esprimere il suo prudente apprezzamento
circa la validità della presunzione posta in essere con i parametri, tenendo conto delle peculiarità
che presenta la singola fattispecie.
Sono soggetti ai parametri [76] tutti
coloro che esercitano un’attività d’impresa, che non siano soggetti all’IRPEG,
e che si trovino in regime contabile semplificato. Analogamente, anche per quanto riguarda gli esercenti
arti e professioni, bisogna considerare il tipo di contabilità adottata, poiché è
questa la vera linea di demarcazione che separa i contribuenti ai fini della scelta del tipo d’accertamento
da intraprendere.
Posto quindi che i contribuenti in regime contabile semplificato sono sempre soggetti ai parametri,
analizziamo ora, invece, quelli che sono i limiti di applicabilità degli stessi nei casi in
cui ci si trovi di fronte ad una contabilità ordinaria [77],
anche se per opzione.
Si tratta, in particolare, di due condizioni che debbono considerarsi tassative, cosicché,
qualora non si realizzino in concreto, non si potrà in nessun caso effettuare un accertamento
in base ai parametri: la prima di queste prevede che l’attività assoggettata a controllo
debba presentare un volume d’affari inferiore ai dieci miliardi di lire [78],
mentre la seconda, invece, restringe ulteriormente i limiti di applicabilità dell’accertamento
in base ai parametri, ai casi in cui risulti da un apposito verbale d’ispezione, redatto ai
sensi dell’art. 33 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 [79],
che la contabilità tenuta secondo il metodo ordinario, è inattendibile [80].
[76] Art. 3, comma 181, lettera a) L. 549/1995.
[77] La previsione normativa citata è contenuta nell’art.
3, comma 181, lettera b) della L. 549 del 1995.
[78] MAGISTRO L. Guida al ricavometro, op. cit., 23 ss. rileva come la
scelta di limitare l’ambito soggettivo di applicabilità dei parametri ai soli contribuenti
di medie e piccole dimensioni, sia stata dettata proprio dalla realtà produttiva italiana,
caratterizzata, per la maggior parte da contribuenti con un fatturato inferiore al miliardo di lire,
mentre pochi sarebbero quelli con un fatturato tra 1 e 10 miliardi di lire e, a livello percentuale,
addirittura del tutto insignificante sarebbe il numero di quelli con un fatturato che supera i 10
miliardi di lire; questa situazione avrebbe limitato la disponibilità dei dati relativi alle
grandi imprese, precludendo così la possibilità, per costoro, di procedere ad elaborazioni
che abbiano un qualunque valore statistico.
[79] Dal verbale d’ispezione devono cioè risultare: 1) la
descrizione delle rilevazioni eseguite; 2) le richieste fatte al contribuente o a chi lo rappresenta
e le risposte ricevute; 3) la sottoscrizione del verbale, una copia del quale deve essere consegnata
al contribuente o al suo rappresentante.
[80] Nel Regolamento emanato con D.P.R. 16 settembre 1996, n. 570 sono
elencate le contestazioni previste per l’inattendibilità della contabilità ordinaria
ai soli fini dello accertamento parametrico (e che sono diverse da quelle necessarie per poter dimostrare
l’inattendibilità sostanziale”):
a) la contestazione delle omissioni, irregolarità e contraddizioni rappresentate da: 1) scostamenti
dei valori rilevati rispetto a quelli indicati in contabilità; 2) mancata
indicazione in contabilità dei beni strumentali; 3) impiego di lavoratori dipendenti non risultanti
iscritti nei libri previsti dalla legislazione sul lavoro;
b) la constatazione del superamento del limite del 10% previsto per la rilevanza delle infrazioni,
con le seguenti regole di validità: 1) gli scostamenti inferiori a
5 milioni di lire non causano inattendibilità (anche se superano il limite previsto del 10%);
2) le irregolarità superiori a 50 milioni di lire causano sempre inattendibilità
(anche quando inferiori al 10%).
Emerge chiaramente, che, mentre nel caso in cui il contribuente si trovi in regime contabile semplificato
è possibile procedere ad accertamenti per parametri anche senza necessità di accessi
ed ispezioni, quando, invece, si è in presenza di una contabilità ordinaria il riscontro
concreto della rispondenza fra gli elementi reali e quelli contabili rappresenta un momento assolutamente
indispensabile.
E’ interessante, inoltre, notare come, qualora si riscontrino gravi irregolarità formali
nonché contraddizioni nella contabilità, nulla dovrebbe impedire all’Ufficio accertatore
di preferire, eventualmente, all’accertamento induttivo parametrico quello, invece, ordinario.
Naturalmente la giustificazione di una tal scelta sarebbe necessariamente da ricercare nella sua maggiore
convenienza, avendo però sempre riguardo, oltre che alle maggiori entrate per l’Erario,
anche al perseguimento di due principi fondamentali ai quali l’azione accertatrice dovrebbe
comunque ispirarsi: quelli della razionalità ed efficienza [81].
Sembra opportuno, infine, rilevare come non sia ben chiara la ratio legis sottesa all’art. 3,
comma 181 della L. n. 549 del 1995, laddove si è espressamente limitata l’operatività
della norma ivi contenuta, richiamando esclusivamente la lettera d) dell’art. 39, comma primo,
del D.P.R. 29 settembre 1973, n.600, anziché riferirsi, come, del resto, sarebbe apparso maggiormente
logico, anche al secondo comma [82].
Infatti, ciò che sembra essere stato introdotto con i parametri, per dover continuare poi ad
operare sotto forma di studi di settore, è un tipo di rettifica che non riguarda solo singole
poste contabili positive o negative, ma mira di certo all’obiettivo di determinare il reddito
dichiarato dal contribuente nella sua “globalità”.
L’intero sistema, insomma, ha, indubbiamente compiuto un passo decisivo verso un ampliamento
dell’utilizzo del metodo di controllo indiretto o presuntivo, apparentemente ignaro, o comunque
noncurante, del fatto che il legislatore della Riforma del 1971 avesse chiaramente posto quale regola
primaria nell’accertamento, quella che privilegia, ove possibile, la determinazione “analitica”
del presupposto d’imposta [83].
[81] MERCURIO. Coefficienti, op. cit., evidenzia
infatti, come nel caso in cui, per ipotesi, sia rinvenuta, in sede d’accesso, una doppia contabilità
che possa con certezza portare alla ricostruzione dell’effettiva capacità contributiva
del soggetto sottoposto a verifica, la scelta di un tipo d’accertamento induttivo ordinario,
(anche se potrebbe dar luogo ad una maggiore imposta inferiore a quella derivante dall’applicazione
dei parametri), sia, molto spesso preferibile. Questo, infatti, poiché in tal modo si baserebbero
le proprie rideterminazioni su dati certi che si riferiscono comunque alla situazione economico-patrimoniale
del contribuente e perciò il risultato così ottenuto sarebbe, più difficile da
contrastare in un’eventuale fase contenziosa.
[82] In tal senso, in dottrina, si veda: MAGISTRO, Guida al ricavometro,
op. cit.; ALBANESE L’accertamento con l’utilizzo del metodo di controllo indiretto, in
“il fisco” n. 34 del 22 settembre 1997, pag. 9917, il quale rileva al riguardo: “Questa
rideterminazione complessiva dei ricavi viene costantemente ricondotta, dalla Cassazione, al comma
1, lettera d), dell’art. 39 del D.P.R. n. 600/1973, invece che al comma 2 dello stesso articolo.
A rigore queste rettifiche globali dei ricavi dovrebbero, invece, inquadrarsi nell’accertamento
induttivo, perché smentiscono, nel suo complesso, la stessa base di partenza della contabilità
(i ricavi)…”.
[83] LOCHE M. Accertamento ed obblighi contabili, in “il fisco”,
1994, 6658 individua addirittura nella generale applicabilità del nuovo disposto normativo
a tutti i contribuenti obbligati alla tenuta della contabilità, un punto di “rottura”
con il sistema d’accertamento analitico.
Anzi, a dire il vero, è la stessa circolare ministeriale n.44/E del 4 maggio 1994 [84]
a non far misteri su come, attraverso l’art. 62-sexies, terzo comma, si sia cercato di attenuare
fortemente il vincolo e la cautela sino ad allora richiesti, all’Amministrazione finanziaria,
per poter ricorrere al metodo di controllo “indiretto”, cosicché, a quest’ultimo
potesse essere riconosciuto un ruolo di maggiore importanza.
Come anche un’attenta dottrina ha rilevato [85],
insomma questa norma “non vuole introdurre un privilegio probatorio per gli uffici fiscali,
quanto eliminare un’irragionevole penalizzazione cui essi erano esposti a causa di una rigida
interpretazione degli art. 39 D.P.R. n. 600/1973 e 54 D.P.R. n. 633/1972 (…omissis…).
Gli artt.39 e 54 provocavano indubbiamente una suggestione sfavorevole all’accertamento: il
giudice aveva davanti una normativa molto rigorosa e un’immagine molto sbiadita (e lontana nel
tempo) del contribuente accertato.
Ciò provocava un effetto psicologico di pregiudiziale prevenzione nei confronti delle stime
indirette dei ricavi, anche quando (a mente fredda) il dichiarato doveva senz’altro considerarsi
inverosimile…”.
L’autore sembra salutare, dunque, con grande entusiasmo la nuova disciplina che, spianando la
strada all’utilizzo delle presunzioni prepara il terreno agli studi di settore.
La speranza riposta in questo nuovo strumento è, infatti, che riesca finalmente a creare un
nuovo equilibrio fra Amministrazione finanziaria e contribuente, che permetta alla prima di discostarsi
da una contabilità formalmente corretta quando i ricavi dichiarati appaiano comunque inverosimili,
ed al secondo di controbattere le rettifiche da questa operate soltanto, però, con argomentazioni
sufficientemente convincenti.
L’auspicio, insomma, è che, restituendo alla contabilità quel ruolo di semplice
“elemento di convincimento” da valutare, come tutte le prove e le presunzioni semplici
a livello empirico, nel caso concreto, gli uffici accertatori sapranno trarre quella spinta necessaria
a ridare smalto e credibilità alla loro attività.
[84] In “il fisco”, 1994, 5096.
[85] LUPI, Nuove tendenze per il controllo indiretto del volume d’affari:
quello che resta da fare in “Rass. Trib.”, 1994, 5, 799.