Capitolo IV (seconda parte)
4.4 LA COLLABORAZIONE DELLE ASSOCIAZIONI PROFESSIONALI E DI CATEGORIA
Si è già avuto modo di rilevare come l’art. 62-bis, nell’attribuire il
compito di elaborare gli studi di settore agli uffici del Dipartimento delle Entrate, imponesse loro
l’obbligo di “sentire” le associazioni professionali e di categoria.
A tal riguardo è possibile innanzitutto rilevare come ci si trovi in presenza di un parere
che deve essere richiesto obbligatoriamente [57],
ma che può, di fatto, essere tranquillamente disatteso poiché, in effetti, non risulta
essere in alcun modo vincolante [58].
E’ interessante notare, inoltre, come, posta l’impossibilità di impugnare i pareri
non vincolanti [59], nell’eventualità
in cui il parere rilasciato dall’associazione professionale o di categoria concorra a convalidare
uno studio di settore, la tutela giurisdizionale del singolo - volta ad evidenziare eventuali vizi
emersi durante il procedimento di formazione dello stesso – si concretizzi, in ogni modo, nella
possibilità di impugnare il decreto ministeriale d’approvazione dello stesso. In tal
merito si deve peraltro segnalare come lo stesso parere, del resto, debba essere rilasciato avendo
riguardo proprio al contenuto del decreto [60]
e come, nell’eventualità in cui il parere sia negativo, sempre nel decreto vadano esposte
le ragioni dello scostamento [61].
[57] PENNELLA, Forma e procedimento degli studi
di settore, in Atti del convegno di Salerno “Il nuovo accertamento tributario tra teoria e processo”,
tenutosi presso l’Università di Salerno il 20-21 maggio 1994 a cura di Preziosi, Roma
– Milano, 458, rileva: “Un atto con tali caratteristiche viene, pertanto, qualificato
da parte di alcuna dottrina quale parere in funzione di coordinamento in quanto espressione dell’esercizio
di un’attività codeliberativa ripartita tra Pubblica Amministrazione e privati (…)
Tale ricostruzione, seppur possa considerarsi appagante in via teorica in ordine ai rapporti tra i
diversi soggetti giuridici individuati ex lege, non può però esserne condiviso l’effetto
relativo all’esistenza di un potere, totalmente discrezionale, in capo alla P.A. di valutare
se emettere o meno l’atto cui concorre il parere privato”.
[58] In tal merito si può consultare, fra gli altri, VIRGA, Diritto
Amministrativo I, I principi, Milano 1994, 30.
[59] CORREALE, Parere, (dir. Amm.), in Enc. Dir. XXXI, 1981, 685.
[60] Cons. Stato, Sez. VI, 1° dicembre 1986, n. 875, in Foro amm.
1986, 2741.
[61] VIRGA, Diritto, op. cit. 30.
In base alle considerazioni svolte è stato evidenziato [62]
il rischio che, qualora il singolo decreto di approvazione degli studi di settore non renda possibile
“l’individuazione del competente parere in relazione ad uno specifico studio di settore
elaborato dall’Amministrazione finanziaria…pur in presenza dei rispettivi pareri corporativi”
possa, in effetti essere sospettato del vizio di illegittimità.
Questo pericolo, prospettato quando ancora non era stata definita, in concreto, la modalità
attraverso la quale le associazioni professionali e di categoria sarebbero state chiamate a fornire
il proprio parere, veniva in rilievo, in particolare, in relazione alla possibilità di adottare,
con un unico decreto, diversi studi di settore.
Come si rileverà in seguito, tuttavia, il fatto che le associazioni professionali e di categoria
abbiano costituito un’unica Commissione d’esperti chiamata a dar voce ai propri interessi
ha di fatto reso possibile l’approvazione di molteplici studi di settore con un unico decreto
ministeriale nel quale è stata opportunamente evidenziata l’avvenuta acquisizione del
parere della predetta Commissione [63].
Per quanto attiene al profilo contenutistico del parere rilasciato dai privati è stato rilevato
[64], in particolare, come questo debba
raffigurare gli interessi complessivi dell’intera categoria rappresentata, prescindendo, perciò,
da considerazioni che si riferiscano ai singoli associati.
L’obiettivo che si vuole perseguire attraverso l’individuazione degli interessi dei privati,
tuttavia, non è - almeno in via diretta - quello di tutelare gli stessi, bensì quello
di favorire l’imparzialità ed il buon andamento dell’attività amministrativa
[65], attraverso il miglioramento della
conoscenza delle circostanze che sono poste alla sua base.
Nel decreto d’approvazione degli studi di settore, in ultima analisi, è così possibile
individuare l’obiettivo del perseguimento di un interesse pubblico che, pur essendo rimesso,
quindi, alla cura del Ministero delle Finanze, si avvale, tuttavia, anche della cooperazione coordinata
di altri soggetti, portatori d’interessi differenti.
Sembra interessante indagare, a questo punto, sulle motivazioni che hanno indotto il legislatore ad
imporre, agli uffici del Dipartimento delle Entrate, l’obbligo di “sentire” le rappresentanze
delle categorie economiche interessate.
[62] PENNELLA, Forma, op. cit., 461.
[63] In particolare ci si riferisce ai D.M. del 30/03/1999, pubblicati
nel Supplemento ordinario alla Gazzetta Ufficiale n.75 del 31/03/1999.
[64] PENNELLA, Forma, op. cit., 461.
[65] SALVINI La partecipazione del privato all’accertamento, Padova,
1990, 81.
Probabilmente il “dialogo” promosso dal legislatore tra l’Amministrazione e le
rappresentanze delle organizzazioni professionali e di categoria è apparso, sin dall’inizio,
come una necessità. Una necessità, beninteso, non basata sullo spirito di lealtà
o su altri principi morali, e neppure (o almeno non soltanto) sul presupposto della maggiore conoscenza,
che le associazioni indubbiamente hanno, delle differenti realtà che caratterizzano le attività
che rappresentano, quanto piuttosto per offrire una sorta di “corrispettivo” ai contribuenti
in cambio delle conseguenze negative [66]
che l’applicazione degli studi di settore è destinata a produrre nei loro confronti.
Questi ultimi, infatti, pongono a carico del contribuente l’onere di dimostrare all’Amministrazione
finanziaria che, in effetti, non esistono incongruenze fra i ricavi dichiarati e quelli fondatamente
desumibili, e, nell’eventualità in cui delle incongruenze, invece, effettivamente esistano,
di trovare delle argomentazioni che siano in grado di giustificarle.
Le ragioni di quest’inversione dell’onere della prova (come già si è visto)
sono da ricercare nell’enorme difficoltà che - dopo l’entrata in vigore della riforma
tributaria del 1973 - l’Amministrazione finanziaria ha incontrato nel dimostrare l’esistenza
di presupposti che legittimassero l’utilizzazione di ricostruzioni induttive, specie laddove
l’evasione fosse stata celata dietro ad una contabilità formalmente ineccepibile.
[66] MAGLIO, Accordi sindacali finanziari e studi
di settore: confronto storico e prospettive, in Atti del convegno di Salerno “Il nuovo accertamento
tributario tra teoria e processo”, tenutosi presso l’Università di Salerno il 20-21
maggio 1994, a cura di Preziosi, Roma – Milano 1996, 297 ss. rileva in merito: “ Appare
comunque innegabile che da un simile costrutto normativo scaturiranno effetti certamente – e
forse eccessivamente – sfavorevoli per il contribuente…”.
Se, perciò, ampliare i presupposti contemplati dall’articolo 39, I comma, lett. d),
del D.P.R. 600/73 è apparsa una soluzione per superare l’impasse nella quale si trovava
l’Amministrazione nella sua attività di controllo, la perdita, da parte dei contribuenti,
di alcune di quelle garanzie che con tanta pervicacia erano state anelate dal legislatore della riforma
del 1973, è stata, tuttavia, inevitabile.
In un siffatto contesto, dunque, il coinvolgimento delle associazioni professionali e di categoria
ha rappresentato un atto indispensabile al fine di dotare gli studi di settore di un valore giuridico
formale [67].
In tal modo, infatti, è stato possibile creare uno strumento di accertamento “a rilevanza
esterna”, che non sia solo in grado di permettere delle rettifiche convincenti, ma che possa
altresì spiegare i suoi effetti sul piano probatorio [68].
Il dialogo con le associazioni professionali e di categoria, in particolare, dovrà tendere
dapprima a concordare quali siano gli elementi più importanti nella determinazione dei ricavi
per una particolare attività economica, e poi, successivamente, dovrà fornire un giudizio
critico sui risultati ottenuti, così da contribuire, eventualmente, ad individuare e correggere
le eventuali “anomalie” riscontrate.
[67] In tal senso MAGLIO, Accordi, op. cit.,
il quale, in mancanza di un tale coinvolgimento precisa come il valore attribuibile a tali studi,
sarebbe soltanto quello di semplici “schede di settore”.
[68] MAGLIO, ibidem.
Bisogna segnalare, peraltro, come, sin dall’inizio, la dottrina [69]
si sia interrogata su quale dovesse essere, esattamente, il ruolo delle associazioni, nella fase di
vera e propria redazione degli studi di settore, e da subito è apparso chiaro che lasciare
l’elaborazione di tale strumento nelle mani delle categorie economiche interessate sarebbe stato
“pericoloso”.
E’ stato rilevato [70], del resto,
come risponda ad un’esigenza delle stesse associazioni professionali e di categoria, sapere
quale sia, effettivamente, “il prodotto finito che il Ministero ha in mente: ad esempio se si
vuole una specie di catasto oppure un accertamento personalizzato”, ed è indubbio, inoltre,
che per conoscere le reali aspettative dell’Amministrazione si debba lasciare proprio a quest’ultima
il compito di elaborare una “proposta” da sottoporre al vaglio dei rappresentanti delle
categorie interessate.
In tal modo sarà così possibile scongiurare il pericolo di “innescare una commedia
degli equivoci” che, permettendo al Ministero di gettare dubbi su degli studi elaborati dalle
stesse categorie, priverebbe, in effetti, questo strumento di accertamento di qualsiasi utilità
pratica.
Di seguito fornirà un breve quadro del procedimento adottato per l’elaborazione dei primi
studi di settore, cosicché sarà possibile evidenziare l’effettivo ruolo che è
stato riconosciuto alla partecipazione delle associazioni professionali e di categoria.
[69] MAGLIO, Accordi, op. cit..
[70] LUPI, Controllo di lavoratori autonomi e piccole imprese: i problemi
italiani e l’esperienza israeliana del tachshiv, - Tachshiv e studi di settore: esperienze israeliane
e problemi italiani, in Rass. Trib. N. 10/1994, 1569 ss.
4.5 L’ELABORAZIONE DEGLI STUDI DI SETTORE
La raccolta di informazioni circa le caratteristiche, sia di natura contabile sia extracontabile,
attuata principalmente attraverso i questionari ha rappresentato, chiaramente, solo il primo passo
verso la realizzazione di questo nuovo strumento.
Per far capire la modalità attraverso la quale sarebbero stati realizzati gli studi di settore,
le istruzioni ai questionari spiegavano come fosse necessario rilevare, per ogni singola categoria
economica, le molteplici relazioni esistenti fra le variabili contabili e quelle strutturali, sia
interne che esterne all’azienda. Un altro aspetto messo in evidenza, inoltre, era la necessità
di specificare le diverse fasi dell’attività produttiva, così da rendere più
facile l’individuazione del momento in cui, eventualmente, l’attività presa in
esame si fosse discostata dai dati rilevati in base agli studi.
Accertata, infine, l’enorme importanza che assume il fattore territoriale sulla capacità
produttiva di una qualsiasi attività, è stata evidenziata la conseguente necessità
di tenere conto di una suddivisione del territorio in aree omogenee, in base a fattori quali il livello
dei prezzi, l’esistenza e la qualità delle infrastrutture, la capacità di spesa,
la tipologia dei fabbisogni ed altri ancora.
Per garantire una valutazione il più possibile oggettiva della diversa incidenza che, effettivamente,
avrebbero avuto queste e simili “variabili” sulle molteplici realtà presenti sul
nostro territorio, si è perciò deciso di coinvolgere anche le strutture periferiche
dell’Amministrazione finanziaria, certamente più informate su quelle che sono le peculiarità
locali, oltreché degli esperti appositamente indicati dalle associazioni di categoria e dagli
ordini professionali.
I dati estrapolati dai questionari inviati ai contribuenti [71]
sono stati oggetto di accurate analisi statistiche, volte, in primo luogo a valutarne la completezza
e la coerenza.
Sin dall’inizio, si è prospettata l’esigenza di suddividere le imprese poste sotto
esame in base alle loro caratteristiche strutturali, così da ottenere dei gruppi “omogenei”
[72].
L’obiettivo immediatamente successivo è stato, chiaramente, quello di individuare quale
fosse la funzione matematica che meglio rappresentasse l’andamento dei ricavi all’interno
di ogni singolo gruppo di imprese A tal uopo si è proceduto a selezionare adeguatamente, all’interno
del gruppo in esame, un campione di imprese con la caratteristica comune di presentare tutti gli indicatori
presi in considerazione compresi nell'ambito di una forcella precedentemente stabilita .
[71] Ai contribuenti sono stati inviati, nel
corso del 1997, circa 2 milioni e mezzo di questionari, dei quali, però, soltanto l’80%
circa è stato restituito all’Amministrazione finanziaria. (fonte: articolo di Jean Marie
del Bo, pubblicati su “il sole 24-ore” di Venerdì 19marzo 1999).
[72] Quella che è stata a tale scopo adottata, come spiega la
circolare del ministero delle finanze n. 110/E del 21 maggio 1999 (in “il fisco” n. 22/1999,
7540 ss.) è la combinazione di due tecniche statistiche. Attraverso la prima di queste –
rappresentata da una “analisi in componenti principali” - è possibile “ridurre
il numero delle variabili originarie di una matrice di dati quantitativi, in un numero inferiore di
nuove variabili, dette componenti principali, tra loro indipendenti che spieghino il massimo possibile
della varianza totale delle variabili originarie, per rendere minima la perdita di informazioni…”.
Gli elementi considerati in questo tipo di analisi sono stati tutti quelli di natura extracontabile
presenti sui questionari, con l’intento, dunque, di dare forte rilevanza a tutte le informazioni
“operative” attinenti alle imprese.
I fattori dell’analisi fornita in base a questa prima procedura statistica sono stati, quindi,
valutati a livello economico, per venire poi impiegati, in seconda battuta, in un diverso procedimento
statistico, la ”Cluster Analysis”: grazie a questo è stato possibile identificare
dei gruppi omogenei di imprese, caratterizzati, in altre parole, dalle analoghe caratteristiche strutturali
che li contraddistinguevano.
Soltanto a questo punto, quindi, sulla base dei valori riscontrati nelle imprese selezionate come
“campione”, è stata determinata - tanto con riguardo agli elementi contabili che
a quelli strutturali - la “funzione dei ricavi” [73].
Il territorio nazionale, inoltre, è stato suddiviso in aree geografiche omogenee sotto l’aspetto
attinente, ad esempio, la presenza di infrastrutture, il grado di sviluppo socio-economico ed altri
fattori ancora, in grado di influenzare, avendo riguardo alle diverse attività prese in esame,
la produttività delle stesse. Si è, infatti, giustamente voluto evidenziare come il
fattore territoriale fosse strettamente legato al grado di produttività e quindi, di conseguenza,
capace di incidere notevolmente sulla “funzione di ricavo”.
Nel comma VII dell’art. 10 della L. 146/1998, è stata prevista l’istituzione di
una Commissione di esperti nominati dalle associazioni di categoria, con il compito di esprimersi
riguardo alla validità, in concreto, dei singoli studi di settore.
[73] Circ. Ministero delle Finanze, ult. cit. “…Una volta selezionate le variabili, la determinazione della ‘funzione di ricavo’ si è ottenuta applicando il metodo dei minimi quadrati generalizzati, che consente di controllare l’eventuale presenza di variabilità legata a fattori dimensionali (eteroschedasticità). Affinché il modello di regressione non risentisse degli effetti derivanti da soggetti anomali (outliers), sono stati esclusi tutti coloro che presentavano un valore dei residui (R di student) al di fuori dell’intervallo compreso tra i valori –2,5 e +2.5”. A tal riguardo si può rilevare, inoltre, come il ricavo di riferimento “puntuale” determinato per ogni impresa è utilizzato per calcolare la media dei ricavi di riferimento di ogni gruppo omogeneo e, di conseguenza, il relativo intervallo di confidenza rappresenta la media degli intervalli di confidenza del gruppo omogeneo, a livello del 99,99%.
Il parere fornito dalla Commissione, prima della pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale degli studi
di settore, ha in pratica il compito di evidenziare la capacità di questo strumento di rappresentare
la realtà economica di un particolare settore produttivo.
La Commissione, istituita con decreto ministeriale del 10 novembre 1998, ha proceduto a verificare
la validità degli studi di settore elaborati in base ai dati forniti dai questionari su circa
60.000 casi reali, i cui dati sono stati forniti, in forma anonima, dalle associazioni di categoria.
In base alle osservazioni avanzate dalla Commissione di esperti, quindi, sono state apportate delle
modifiche agli studi già predisposti con lo scopo di migliorare l’aderenza dei dati forniti
dallo studio alla realtà concreta [74]
ed, inoltre, è stata avanzata la proposta di ampliare l’intervallo di confidenza, così
da rendere “più morbido” l’avvio per l’utilizzo di questo nuovo strumento
[75].
[74] Come evidenzia la circolare del Ministero
delle finanze ult. cit., dai lavori della Commissione emerge un parere sostanzialmente favorevole
agli studi analizzati, poiché circa il 50% dei casi esaminati risulta congruo, mentre la restante
parte si discosta solo di poco dalla congruità.
[75] Già con l’incontro del 5 marzo 1999 fra il Ministro
delle finanze Vincenzo Visco ed i vertici delle associazioni del lavoro autonomo (Confcommercio, Confesercenti,
Confartigianato, Cna, Casa e Claai), sul quale vedi “il sole-24 ore” di sabato 6 marzo
1999, si era giunti ad un accordo sull’ampliamento dell’intervallo di confidenza che veniva
addirittura raddoppiato. Nel medesimo incontro, inoltre, come si spiegherà di seguito, era
stata evidenziata la necessità di istituire degli specifici comitati territoriali per assicurare
un monitoraggio continuo sugli esiti dell’applicazione degli studi di settore in “periferia”.
Per i 46 studi di settore in corso di approvazione nel 1999 la Commissione, nella riunione plenaria
del 18/03/1999, ha espresso parere favorevole [76]
per 45 studi di settore con il coinvolgimento stimato di circa 1,3 milioni di contribuenti [77].
Con un decreto direttoriale del 15 aprile 1999 [78],
inoltre, sono stati istituiti, presso le Direzioni Regionali delle Entrate, degli Osservatori provinciali
[79], chiamati ad un “monitoraggio
costante dell’applicazione degli studi in sede locale e per la debita considerazione di tutte
le situazioni marginali non rispecchiate dalle analisi compiute”[80].
La funzione degli Osservatori provinciali, quindi, è quella di evidenziare l’esistenza
di realtà per le quali, le peculiarità legate alla localizzazione in una determinata
area geografica di alcune attività produttive renderebbero, di fatto, insoddisfacenti i risultati
ottenuti con l’applicazione di uno specifico studio di settore. Infatti, più in generale,
il compito istituzionale degli Osservatori provinciali è proprio quello di rilevare qualsiasi
tipo di informazione capace di migliorare la capacità degli studi di settore di rappresentare
la realtà dei settori economici ai quali si riferiscono.
[76] L’unica
riserva è stata mossa nei confronti dello studio di settore relativo all’estrazione di
ghiaia e sabbia, per il quale è stato richiesto un supplemento di valutazione.
[77] Di questo milione e 300 mila, soltanto 1.156.252 di contribuenti
costituiscono la base di riferimento sulla quale si è proceduto ad elaborare gli studi di settore.
[78] Pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n.109 del 12 maggio 1999.
[79] Gli osservatori provinciali, costituiti con provvedimento del direttore
regionale delle Entrate, sono composti di due funzionari degli Uffici del Dipartimento delle Entrate
presenti sul territorio provinciale, oltre che da un dirigente della direzione regionale delle Entrate,
con funzioni di Presidente; fanno inoltre parte degli Osservatori due rappresentanti delle associazioni
di categoria più rappresentative in sede provinciale in ciascuno dei settori produttivi dell’industria,
del commercio, dell’artigianato, e quattro rappresentanti degli ordini professionali degli esercenti
arti e professioni: uno per il settore economico, uno per quello giuridico, un altro per quello tecnico
ed, infine, uno per il settore sanitario.
[80] Comunicato stampa diramato il 5 marzo 1999 dal Ministero delle finanze
sugli studi di settore, in “il sole-24 ore” di sabato 6 marzo 1999.
Le notizie acquisite a livello locale, tramite la Direzione Regionale delle Entrate, sono trasmesse
alla Commissione di esperti, la quale ha il compito di raccoglierle e valutarle.
La fase successiva alla formulazione del parere – consultivo - della Commissione d’esperti
è stata, per i 45 studi menzionati, l’approvazione da parte del Ministero delle Finanze,
avvenuta con i decreti del 30 marzo 1999 [81].
Si può, infine, segnalare come tutto l’impegno speso per elaborare gli studi di settore
sia stato tradotto in un software di nome Gerico (Gestione dei ricavi e dei compensi), che l’Amministrazione
finanziaria ha distribuito ai contribuenti, fornendo loro, così, la possibilità - semplicemente
inserendo gli elementi richiesti [82]
nelle diverse maschere di questo programma - di sapere se i ricavi dichiarati siano considerati o
meno congrui dall’Amministrazione finanziaria.
Per completezza si deve rilevare, sia pur incidentalmente, come l’art. 62-bis contempli la possibilità,
per gli studi di settore, di essere assoggettati a revisione.
[81] Pubblicati nei Supplementi ordinari nn.
61 e 62 alla Gazzetta Ufficiale n. 75 del 31 marzo 1999. In particolare, il Supplemento ordinario
n. 61 contiene il decreto con l’approvazione degli studi di settore per l’area dei servizi,
mentre il Supplemento n. 62 contiene gli altri due decreti con le disposizioni per l’area del
commercio e delle manifatture. Si deve segnalare inoltre come, nel corso del 2000 siano stati approvati
(a tutt’oggi, 19 aprile 2000) ben 41 nuovi studi di settore, applicabili per la prima volta
a partire dal periodo d’imposta 1999. Il primo scaglione di 24 studi è stato approvato
con tre decreti ministeriali del 3 febbraio 2000, mentre i successivi 17 studi di settore sono stati
pubblicati con 3 decreti ministeriali del 26 febbraio 2000.
[82] In conformità a quanto disposto dai decreti di approvazione
dei diversi studi di settore.
Il problema, in questo caso, s’identifica con l’esigenza di modificare un atto, - che
in precedenza era stato considerato, comunque, opportuno - a causa di circostanze sopravvenute che
hanno determinato un cambiamento nella sua capacità di rispondere ad un interesse pubblico
[83].
In tal merito è stato evidenziato [84]
come, proprio sulla base del presupposto costituito dalla partecipazione democratica delle associazioni
professionali e di categoria alla formazione degli studi di settore, si debba riconoscere la possibilità,
alle rappresentanze economiche di queste, di adoperarsi per l’attivazione del procedimento di
revisione degli stessi.
[83] M.S. GIANNINI, Corso di Diritto Amministrativo,
Milano, 1970, in particolare, evidenzia come si possa parlare di ritiro di un atto inficiato da un
vizio di inopportunità.
[84] PENNELLA, Forma, op. cit., 463.
4.6 L’AMBITO D’APPLICAZIONE DEGLI STUDI DI SETTORE
L’art. 10 della L. 146/1998, definisce le modalità di utilizzazione degli studi di
settore in sede d’accertamento, delineando, in particolar modo i contorni dell’ambito
soggettivo di applicazione di questo strumento.
Innanzi tutto, in via generale, si deve evidenziare come siano previste alcune cause di esclusione
dall’applicabilità degli studi di settore, dinanzi ad alcune situazioni marginali. Così,
in particolare, non si può mai procedere all’applicazione degli studi di settore, in
sede d’accertamento, nei confronti di quei contribuenti che presentino un periodo d’imposta
diverso dai dodici mesi [85] (indipendentemente
dal fatto che tale periodo si trovi a cavallo di due esercizi), né per quei contribuenti il
cui ammontare dei ricavi dichiarato superi il limite (che comunque non può mai essere maggiore
di 10 miliardi di lire) fissato dal decreto del Ministero delle finanze che approva i singoli studi
di settore [86].
[85] Art. 10,
comma I, legge 8 maggio 1998, n. 146.
[86] L’art. 10, comma 4 della legge 8 maggio 1998, n. 146, stabilisce,
in particolare, che il limite di cui sopra si riferisce ai ricavi dichiarati di cui all’articolo
53, comma I, esclusi quelli di cui alla lettera C), o ai compensi dichiarati di cui all’articolo
50, comma I del T.U.I.R.. La circolare del Ministero delle finanze ult. cit. chiarisce, in merito
che: “La determinazione di un limite di ricavi o compensi da individuare per ciascuna attività,
si basa sulla constatazione che ogni studio di settore va distintamente valutato con riferimento alle
specifiche peculiarità delle singole attività economiche. La fissazione del limite massimo
dei dieci miliardi di ricavi o compensi, invece, dalla considerazione che gli studi di settore non
sono di per sé idonei a valutare la capacità produttiva di ricavi o compensi relativi
alle realtà economiche di ampie dimensioni. Al riguardo, si precisa che i decreti ministeriali
del 30 marzo 1999 di approvazione dei primi 45 studi non hanno stabilito limiti diversi dai dieci
miliardi di lire in quanto, per le attività oggetto degli stessi, non sono emerse particolarità
tali da giustificare la modifica di tale limite…”.
In ogni caso, infine, è esclusa l’applicabilità degli studi di settore in sede
d’accertamento per tutti quei contribuenti che, durante il periodo d’imposta preso in
esame, abbiano iniziato o cessato l’attività, ovvero non si siano trovati in un periodo
di normale svolgimento [87].
L’ambito soggettivo d’applicazione degli studi di settore in sede d’accertamento,
inoltre, si estende soltanto ad alcune categorie di contribuenti, e, più in particolare:
- a tutti coloro che, esercitando un’attività d’impresa e trovandosi nel regime
contabile semplificato, abbiano dichiarato dei ricavi che si siano discostati, anche per
un solo esercizio, da quelli determinabili in base agli studi di settore;
- a tutti gli esercenti un’attività d’impresa che si trovino in contabilità
ordinaria per effetto d’opzione, ed a tutti gli esercenti arti e professioni, nel
caso in cui, per almeno due periodi d’imposta su tre consecutivi considerati - compreso,
chiaramente quello da accertare - abbiano dichiarato dei compensi o ricavi inferiori a quelli determinabili
in base agli studi di settore [88];
- a tutti coloro che si trovino naturalmente in regime contabile ordinario, ovvero vi si trovino in
seguito ad opzione (ed in tali casi, quindi, indipendentemente da quanto disposto al punto
precedente), e presentino una contabilità che, da verbale d’ispezione ex
art. 33, II comma, del D.P.R. n. 600 del 1973, risulti inattendibile a causa della presenza
di gravi contraddizioni o irregolarità nelle scritture obbligatorie, ovvero per
la discordanza fra i valori indicati in queste ed i dati ed elementi, invece, direttamente
rilevati in base ai criteri stabiliti con il D.P.R. 16 settembre 1996, n. 570 [89].
Con i decreti ministeriali di approvazione degli studi di settore del 30 marzo 1999, relativi alle
attività economiche svolte nel settore manifatturiero, dei servizi e commerciale, nei rispettivi
artt. 2, sono state individuate ulteriori cause di inapplicabilità di tale strumento.
[87] Così come risulta anche dalle istruzioni
per la compilazione dei questionari, vanno considerati periodi di non normale svolgimento dell’attività
i periodi nei quali:
- l’impresa è in liquidazione ordinaria, ovvero liquidazione coatta amministrativa o
fallimentare;
- l’impresa non ha ancora iniziato l’attività produttiva prevista dall’oggetto
sociale (ad esempio perché la costruzione dell’impianto da utilizzare si
è protratta, per cause non dipendenti dalla volontà dell’imprenditore, oltre il
primo periodo d’imposta; non sono state ancora rilasciate le autorizzazioni amministrative
necessarie per lo svolgimento dell’impresa, anche se erano state chieste tempestivamente; si
è deciso di dar luogo ad un’attività di ricerca, propedeutica all’attività
da intraprendere, che non renda possibile la normale realizzazione di beni e servizi);
- nell’intero anno preso in esame si è verificata l’interruzione dell’attività
produttiva a causa della ristrutturazione di tutti i locali nei quali viene esercitata
l’attività;
- nel periodo preso in esame l’unica azienda dell’imprenditore (o di una società)
è stata ceduta in affitto;
- è avvenuta una sospensione dell’attività, previa comunicazione alla Camera di
commercio, industria, artigianato, agricoltura.
[88] La circolare del Ministero delle finanze, ult. cit. precisa al riguardo:
“…ai fini dell’applicazione di tale modalità di accertamento, i due periodi
d’imposta nei quali si verifica lo scostamento dei ricavi o dei compensi dichiarati rispetto
a quelli presunti sulla base degli studi possono anche non essere consecutivi e che il primo periodo
d’imposta cui fare riferimento ai fini dell’applicazione di tale disposizione è
quello a partire dal quale sono applicabili gli studi stessi”.
[89] Bisogna evidenziare, per completezza, l’esclusione dell’applicabilità
degli studi di settore, in sede d’accertamento, agli incaricati alle vendite a domicilio, a
coloro che determinano il reddito con i criteri di tipo forfettario, nonché, inoltre, a coloro
che si avvalgano del regime fiscale sostitutivo previsto dal decreto legislativo 10 giugno 1994, n.
357, convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1994, n. 489.
Nelle istruzioni per la compilazione della dichiarazione dei redditi 1998, infatti, è stato
precisato che l’accertamento sulla base degli studi di settore non si applica ai contribuenti
il cui reddito è determinato con criteri di tipo forfettario. I contribuenti rientranti in
questo particolare regime, avrebbero dovuto comunque compilare il modello per la comunicazione dei
dati rilevanti per l’applicazione degli studi di settore, con esclusione, però, dei quadri
relativi agli elementi contabili. I dati comunicati in tali modelli potranno essere utilizzati per
valutare se le caratteristiche strutturali dell’impresa siano o meno coerenti con i ricavi dichiarati.
In particolare, l’Amministrazione finanziaria che si trovi ad effettuare un controllo, non
potrebbe servirsi degli studi di settore, per rideterminare i ricavi:
- nel caso in cui per l’esercizio di un’attività d’impresa, ci si avvalga
di più punti di produzione e di vendita in locali non contigui a quello di produzione,
di più punti di produzione ovvero di più punti di vendita [90];
- nella fattispecie in cui vi sia il contemporaneo esercizio di due o più attività d’impresa
che non rientrano nel medesimo studio di settore, e l’importo complessivo dei ricavi
dichiarati relativi alle attività non prevalenti (che non rientrano tra quelle
assoggettate agli studi di settore), sia superiore al 20% dell’ammontare dei ricavi
complessivamente dichiarati;
- nel caso di società cooperative, di società consortili e di consorzi che operano esclusivamente
a favore dei soci (qualora questi siano degli utenti, privi della qualifica di imprenditori)
o delle imprese socie od associate.
Quando si verificano le predette cause d’inapplicabilità i dati rilevanti ai fini dell’applicazione
degli studi di settore non debbono essere indicati, ma è fatto salvo l’obbligo di segnalare
all’Amministrazione finanziaria le cause che hanno giustificato il mancato utilizzo degli studi
di settore [91].
[90] I decreti ministeriali in questione chiariscono,
però, che la causa di inapplicabilità non si verifica quando la presenza di più
punti di produzione o di vendita costituisce una caratteristica essenziale dell’attività
esercitata.
[91] La circolare 110/E stabilisce: “Nei confronti dei contribuenti
per i quali operano le cause di inapplicabilità degli studi di settore…possono essere
effettuati accertamenti in base ai parametri. Tali accertamenti possono, naturalmente, essere effettuati
anche nei confronti dei contribuenti che esercitano un’attività per la quale non è
ancora stato approvato lo studio di settore. In tali casi, ovviamente, dovranno essere indicati nelle
dichiarazioni i dati rilevanti ai fini dell’applicazione dei parametri”.
Come chiarisce, inoltre, la circolare n. 110/E del Ministero delle finanze riguardo alle prime due
cause d’inapplicabilità, gli studi di settore risultano comunque applicabili nell’ipotesi
in cui sia stata effettuata una contabilizzazione distinta degli elementi rilevanti ai fini dell’applicazione
degli studi di settore relativi ai diversi punti di produzione e/o di vendita.
Bisogna peraltro segnalare come se per i redditi del 1998 l’applicabilità degli studi
di settore nei confronti di queste particolari categorie di contribuenti risulta, quindi, solo eventuale,
con decreto del Ministero delle finanze datato 24 dicembre 1999 [92]
è stato previsto, invece, l’obbligo di annotazione separata dei componenti sia nei confronti
dei soggetti che esercitano attività d’impresa in più punti di produzione o di
vendita sia di coloro che, all’interno di uno stesso locale, esercitano più attività
[93].
Chiaramente l’obbligo di annotare separatamente le poste contabili decorre soltanto dal 1 gennaio
2000 [94] ed, in ogni modo, per il primo
periodo d’imposta l’imputazione separata per ciascun’unità di produzione
o di vendita può essere effettuata anche in sede di dichiarazione dei redditi.
[92] Pubblicato in Gazzetta Ufficiale del 29
dicembre 1999 n. 304.
[93] Estendendo, in via interpretativa, la disciplina già prevista
per gli studi di settore approvati con D.M. 30 marzo 1999, si può ritenere che anche per i
nuovi studi di settore in corso di approvazione nel 2000 sia prevista l’esclusione di tale obbligo
laddove l’esercizio dell’attività su più punti (di produzione o di vendita)
sia ritenuto “fisiologico” dallo studio stesso.
[94] In ogni caso qualora si eserciti l’attività d’impresa
in più punti di produzione e/o vendita e in caso di più attività non comprese
nello stesso studio di settore; soltanto nel caso in cui un’attività “non prevalente”
(ossia che non dovrebbe far conseguire ricavi superiori al 20% del totale dei ricavi) abbia procurato
ricavi, per il precedente periodo d’imposta, superiori al 20%.
Per coloro che esercitano, invece, più attività, l’imputazione separata in sede
di dichiarazione diviene la regola qualora nell’esercizio precedente non si sia verificato il
presupposto per l’obbligo di annotazione separata [95].
Al termine di questa breve disamina sui soggetti nei confronti dei quali è possibile effettuare
un accertamento in base agli studi di settore si deve peraltro segnalare la possibilità, per
il primo periodo d’imposta nel quale un determinato studio di settore trovi applicazione, di
effettuare l’adeguamento spontaneo ai risultati presunti dall’Amministrazione finanziaria,
direttamente in dichiarazione dei redditi, senza l’irrogazione di sanzioni [96].
Le istruzioni al modello Unico 2000, tuttavia, prevedono la possibilità per tutti i contribuenti
[97] di procedere all’adeguamento
spontaneo qualora siano indicati nella dichiarazione ricavi non annotati nelle scritture contabili.
[95] Cioè qualora i ricavi derivanti
dall’attività non principale non abbiano superato, nel precedente esercizio, il 20% del
totale dei ricavi.
[96] L’art. 2 del D.P.R. 31 maggio 1999, n. 125, pubblicato in
G.U. n. 146 del 24 giugno 1999 e in “il fisco” n. 27/1999, pag. 9089, consente l’adeguamento
spontaneo in dichiarazione anche se il contribuente ha omesso di effettuare le annotazioni di ricavi
e compensi occorrenti per raggiungere la “congruità” senza l’applicazione
di sanzioni ed interessi, nel caso di studi di settore che vengano applicati per la prima volta, ovvero
che abbiano subito una revisione.
Si stima che l’adeguamento in dichiarazione per i contribuenti sottoposti agli studi di settore
ed ai parametri abbia fruttato, per il periodo d’imposta 1998 circa 3.000 miliardi, di cui 2.600
andrebbero all’erario (con un incremento del 58% rispetto all’esercizio d’imposta
precedente), mentre il restante costituirebbe gettito indotto INPS. (fonte: “Da parametri e
studi 3 mila miliardi”, articolo di Jean Marie del Bo in “il sole 24-ore” di sabato
12 febbraio 2000).
[97] Quindi tanto per quelli che rientrano quest’anno per la prima
volta nell’ambito di applicazione degli studi di settore che per quelli che, invece, vi sono
stati soggetti già dallo scorso anno, visto che anch’essi hanno avuto modo di conoscere
il nuovo strumento di accertamento soltanto nel corso del 1999.
4.7 NATURA PROBATORIA DEGLI STUDI DI SETTORE NEL MODULO DELL’ ETERO-INTEGRAZIONE
Illustrato l’ambito di applicazione degli studi di settore si debbono delineare i contorni
dell’accertamento induttivo operato in base a questo nuovo strumento, nel contesto dell’art.
39 del DPR n. 600/73.
Si è già rilevato, infatti, come, attraverso gli studi di settore, sia stato introdotto
uno strumento presuntivo di determinazione dei ricavi e compensi di natura “globale” che,
andandosi a collocare [98] nel I comma,
lett. d, dell’art. 39 ne ha ampliato, sostanzialmente, la portata.
L’obiettivo è stato, chiaramente, quello di dare rilevanza all’esistenza di gravi
[99] incongruenze tra i ricavi, i compensi
e i corrispettivi dichiarati e quelli fondatamente desumibili in base agli studi di settore, e la
scelta adottata dal legislatore è stata quella di permettere all’Amministrazione finanziaria,
in questi casi, di procedere ad un accertamento contabile di tipo “analitico-induttivo”.
[98] Attraverso la previsione dell’art.
62-sexies, del DL 30 agosto 1993, n. 331, convertito in L. 29 ottobre 1993, n. 427.
[99] La “gravità” delle incongruenze riscontrate dall’Amministrazione
finanziaria consta dal superamento dell’intervallo di confidenza. Questo, in particolare, individua
una serie di valori di ricavi, compensi o corrispettivi, che, pur non essendo “congrui”
rispetto a quelli che, invece, sono fondatamente desumibili in base agli studi di settore, tuttavia,
(sulla base del fatto che lo scostamento non è molto elevato) vengono “tollerati”.
In dottrina, peraltro, vi è stato chi ha mosso alcune riserve sulla scelta operata dal legislatore,
rilevando come sarebbe stato più opportuno collocare la previsione dell’art. 62-sexies
nel II comma dell’art. 39 [100],
così da inserire gli studi di settore nell’ambito di un accertamento di natura induttivo-extracontabile.
In senso contrario, tuttavia, è stato rilevato [101]
come “per rimanere nell’ambito del I comma e non trasmodare nel II comma dell’art.
39 è sufficiente che l’uso del congegno presuntivo serva non a determinare il dato complessivo
“reddito d’impresa” ma solo una “parte” – i ricavi complessivi
– del “tutto” – il reddito –“, così come avviene, del resto,
con gli studi di settore.
Affinché non si produca l’effetto di un “surrettizio condono permanente di massa”,
inoltre, è stata evidenziata [102],
l’importanza che riveste il frequente esercizio, da parte dell’Ufficio accertatore, del
potere di procedere anche all’accertamento analitico ed analitico-induttivo “individuale”.
In caso contrario, infatti, i contribuenti che volessero evadere il pagamento delle imposte sarebbero
indotti ad utilizzare gli studi di settore come una “copertura” che, attraverso l’adeguamento
alle aspettative dell’Amministrazione finanziaria, fornisca loro la certezza che eventuali maggiori
ricavi non dichiarati non verranno mai accertati.
[100] In tal senso, fra gli altri: RUSSO, Manuale
di diritto tributario, Milano, 1999, 293; FALSITTA, Manuale di diritto tributario-Parte generale,
Padova, 1999, 262.
[101] GALLO, Ancora, op. cit., 15.
[102] GALLO, ivi, 22.
Al fine di scongiurare il rischio che attraverso gli studi di settore si possa pervenire ad una “normalizzazione”
del reddito, inoltre, riveste un ruolo fondamentale il riconoscimento della possibilità, per
contribuenti che vengano accertati in base a questo strumento, di poter fornire una prova contraria.
Si deve ricordare, infatti, come l’Amministrazione finanziaria utilizzi gli studi di settore
per fornire un “fondamento probabilistico” ai propri accertamenti induttivi, cosicché
“il reddito rideterminato nell’an e nel quantum, non è fatto del mondo ‘certo’
e provato secondo i protocolli della conoscenza empirica, ma è un’entità derivante
dall’applicazione di disposizioni la cui sufficiente ‘certezza’ è determinata
in base a standards” [103].
Gli Uffici accertatori, infatti, possono servirsi di strumenti, quali ad esempio gli studi di settore,
dai quali “inferire” l’esistenza di un presupposto d’imposta diverso da quello
dichiarato dal contribuente, operando un’etero-integrazione [104]
della fattispecie impositiva. Il fondamento dell’integrazione delle fattispecie impositive risiederebbe,
del resto, proprio nella possibilità riconosciuta al legislatore di prevedere, oltre a delle
norme che disciplinano le regole sostanziali per determinare l’ammontare dell’imponibile,
anche delle disposizioni che consentano il ricorso a prove indirette basate su criteri inferenziali.
In particolare si può rilevare come con il modulo della auto-integrazione la legge preveda
dei parametri (quali ad esempio la “gravità, precisione e concordanza”) che sono
applicabili solo avendo riguardo al singolo caso [105],
mentre con l’etero-integrazione l’Amministrazione finanziaria si serve di criteri inferenziali
aventi, invece, validità generale, poiché posti mediante legge o regolamento.
[103] GARBARINO Studi di settore, concordato
e nuove tipologie di accertamento dei redditi in Riv. Dir. Trib. III, 1997, 88.
[104] GARBARINO Ult. op. cit., 90.
[105] E quindi i criteri inferenziali e le relative presunzioni sono
creati per ogni singolo accertamento.
Il modulo della etero-integrazione si distingue, inoltre, in “unilaterale”, nell’eventualità
in cui l’atto di accertamento dell’Amministrazione finanziaria applichi direttamente i
criteri al caso concreto, e “concordata”, quando i criteri oggetto di rinvio costituiscono
la motivazione stessa dell’atto di accertamento con adesione del contribuente, come nel caso
del concordato a regime.
E’ stato rilevato in dottrina [106]
come i criteri inferenziali nel modulo della etero-integrazione per essere tali, debbano essere caratterizzati
da tre elementi discriminanti:
- debbono essere basati su dati raccolti sul campo con tecniche di significatività statistica;
- i dati così raccolti devono essere organizzati in catene inferenziali;
- dati, criteri e catene inferenziali debbono essere adottati con strumento legislativo o regolamentare
onde assicurarne la pubblicità.
In base alla presenza dei primi due elementi i criteri si dicono “tecnicizzati”, mentre
se vi è anche l’ultimo si definiscono “pre-definiti” [107].
[106] GARBARINO, Studi, op. cit. 91.
[107] GARBARINO Studi, op. cit. 91.Rileva l’Autore come: “se
i criteri inferenziali oggetto di rinvio non presentano le caratteristiche appena evidenziate, non
può dirsi che si attui un'etero-integrazione, ma soltanto un’auto-integrazione in quanto
l’Amministrazione finanziaria in tal caso crea i criteri inferenziali volta per volta in sede
di atto impositivo”. Da questa constatazione se ne può quindi dedurre che l’accertamento
mediante coefficienti presuntivi costituisce un’ipotesi di auto-integrazione poiché i
criteri, pur “pre-definiti”, non sono “tecnicizzati”.
Il motivo per il quale è stata evidenziata la differente caratterizzazione che i vari criteri
inferenziali possono avere, è che proprio dalla loro diversa natura discende, in un modello
di etero-integrazione, una maggiore o minore efficacia. Con gli studi di settore, in particolare,
è stato ritenuto che, attraverso la presenza di tutti i menzionati elementi, si potesse creare
un modello di etero-integrazione dotato, in sede d’accertamento, di un elevato grado di persuasività
e razionalità.
In generale si può rilevare come il fenomeno della etero-integrazione, attuato mediante strumenti
quali gli studi di settore o il concordato [108],
risponda ad una precisa scelta del legislatore che ha deciso, in taluni casi, di abbandonare il sistema
degli accertamenti esclusivamente “autoritativi” in base a norme che prevedono il rinvio
a criteri non pre-definiti e non conoscibili ex ante (come avviene negli accertamenti induttivi tradizionali
ex art. 39, II comma).
Per quanto concerne il la possibilità di operare un’etero-integrazione “concordata”
bisogna segnalare come la sua prima previsione [109]
risalga ai periodi d’imposta che vanno dal 1987 al 1993 [110].
Per questi periodi, infatti, l’Amministrazione finanziaria ha proceduto a notificare a tutti
i contribuenti interessati, delle proposte di accertamento ad hoc, rispetto alle quali gli stessi
(senza peraltro la possibilità di instaurare qualsiasi forma di contraddittorio) erano chiamati
ad esprimere soltanto la loro eventuale adesione.
[108] Che realizzano, rispettivamente un tipo
di etero-integrazione “unilaterale” e concordata”.
[109] Questo istituto, in realtà, era già contemplato nell’art.
34 del Testo Unico del 1958, ma, successivamente, era sparito dal nostro ordinamento a seguito dei
profondi cambiamenti introdotti con la riforma del 1971.GARBARINO, Studi, op. cit., 92, con riguardo
alla situazione che si era creata a seguito della riforma del 1973 rileva: “Nel regime di imposizione
senza possibilità di concordato originariamente introdotto dalla riforma tributaria, l’atto
impositivo con cui si sostanzia la pretesa dell’Amministrazione finanziaria nei confronti del
contribuente ha natura unilaterale e provvedimentale, è, cioè un atto autoritativo i
cui effetti si producono in via preclusiva ed indipendentemente dalla volontà del destinatario”.
[110] Artt. 2 bis e 3, DL 30 settembre 1994, n. 564, conv. in legge 30
novembre 1994, n. 656; DL 9 agosto 1995, n. 345, conv. in legge 18 ottobre 1995, n. 427; DPR 13 aprile
1995, n. 177.
Questa forma di concordato “di massa” rispondeva peraltro ad esigenze congiunturali,
e non era stata disciplinata, perciò, con la finalità di creare uno strumento destinato
a rimanere “a regime”.
Soltanto a distanza di qualche tempo, con l’art. 1, comma 2, DPR 30 aprile 1996, n. 316 il concordato
è stato “procedimentalizzato” ed introdotto a regime, attraverso la previsione
della possibilità, per l’Amministrazione ed il contribuente, di “definire”
[111] congiuntamente la posizione di quest’ultimo
[112].
Per inquadrare in grandi linee la disciplina dell’attuale accertamento con adesione si deve
evidenziare come questo istituto trovi applicazione verso chiunque (persone fisiche, società
di persone, società di capitali) e per qualsiasi tipologia di reddito. Per quanto riguarda
l’ambito oggettivo di applicazione, inoltre, si può segnalare come particolare rilevanza
sia assunta proprio da tutte quelle posizioni interessate dall’applicazione di metodologie induttive
di accertamento [113] poiché la
possibilità fornita agli uffici di definire qualsiasi aspetto dell’accertamento mediante
un dialogo diretto con i contribuenti presenta l’indubbio vantaggio di permettere una soluzione
amichevole dell’accertamento, alleggerendo enormemente il contenzioso.
[111] Ex art. 2 bis della legge n. 656/1994.
[112] Bisogna inoltre segnalare come in seguito sia intervenuto in materia
anche il D.Lgs 19 giugno 1997, n. 218 (che ha attuato le disposizioni contenute nella legge delega
prevista dalla finanziaria 1997), nell’intento di attribuire agli uffici finanziari un più
ampio margine di azione e di proposta per definire, in contraddittorio con il contribuente, le diverse
pretese tributarie.
[113] A tale riguardo anche la circolare dell’8 agosto 1997, n.
235/E indica, a titolo esemplificativo, alcune fattispecie, fra le quali si possono ricordare: le
rettifiche induttive di cui all’art. 39, I comma, lettera d) del DPR 600/73 e dell’art.
54, II comma, del DPR 633/72; gli accertamenti induttivi di cui all’art. 39, II comma, del DPR
600/73 e dell’art. 55, del DPR 633/72; gli accertamenti basati sui parametri e sugli studi di
settore.
All’accertamento con adesione, peraltro, si può pervenire sia a seguito di un’istanza
del contribuente - che si sia visto notificare un avviso di accertamento [114]
o un invito a comparire dell’Amministrazione finanziaria [115]
- sia in seguito all’iniziativa dell’Amministrazione finanziaria.
Poiché nella Circolare 110/E del Ministero delle Finanze è stato evidenziato l’obbligo,
per gli uffici preposti all’accertamento mediante gli studi di settore, di tener conto delle
disposizioni che regolano il procedimento di accertamento con adesione, si fornirà una breve
illustrazione di questo istituto proprio nell’eventualità in cui ad attivarlo sia l’Amministrazione.
Il procedimento ha inizio con un invito a comparire [116],
inviato dall’Ufficio territorialmente competente, dal quale risultino sia il periodo d’imposta
suscettibile d’accertamento che il luogo ed il giorno della comparizione. L’invito, chiaramente,
deve informare della possibilità di aderire e, come ha chiarito la circolare 235/E, deve contenere,
in ossequio alla trasparenza amministrativa, gli elementi rilevanti ai fini dell'accertamento (anche
se può indicarli soltanto in maniera sintetica). In tal modo, infatti, si è voluta garantire
al contribuente – attraverso la conoscenza delle questioni che saranno oggetto di contraddittorio
– la possibilità di poter preparare anzitempo delle valide argomentazioni da far valere
a sostegno della propria posizione.
[114] Per il quale non sia stato presentato
ricorso dal contribuente, e siano ancora pendenti i termini per l’impugnazione.
[115] L’istanza può essere presentata altresì nel
caso in cui al contribuente sia stata notificata una lettera di chiarimenti ex art. 12, comma 1, L.
154/1983.
[116] L’invito deve essere comunicato al contribuente mediante
lettera raccomandata con avviso di ricevimento, oppure può essere notificato ai sensi dell’art.
60 del D.P.R. 600/73.
Momento fondamentale dell’intera procedura è dunque rappresento dalla fase del contraddittorio,
nella quale la posizione dell’Amministrazione finanziaria e quella del contribuente vengono
messe a confronto, nel tentativo di addivenire ad una definizione “concordata” dell’accertamento.
L’eventuale risultato positivo del contraddittorio viene formalizzato nell’atto di adesione,
redatto a cura dell’Ufficio competente e sottoscritto sia dal contribuente che dal direttore
dell’Ufficio.
Il momento in cui si perfeziona l’accordo fra Ufficio e contribuente è quello in cui
avviene il pagamento - che deve essere effettuato nel termine di 20 giorni dalla redazione dell’atto
- delle maggiori somme derivanti dall’accordo raggiunto [117].
Con particolare riferimento agli studi di settore la circolare 110/E [118]
prevede che gli Uffici preposti all’accertamento debbano valutare con molta attenzione tutte
le informazioni in proprio possesso [119]
- tanto, cioè quelle acquisite direttamente che quelle fornite dal contribuente in sede di
contraddittorio - ed adeguare in base a queste il risultato dell’applicazione di questo strumento
di accertamento alla peculiare e concreta situazione dell’impresa.
Questa raccomandazione trova fondamento nella constatazione che gli studi di settore, pur essendo
il frutto di un complesso ed attento studio statistico, stabiliscono, come si è rilevato, dei
“criteri inferenziali” che, per ragioni che debbono essere valutate singolarmente, potrebbero
non rispecchiare la realtà di alcuni contribuenti.
[117] Nel caso in cui sia stato accordato il
pagamento rateale, invece, il perfezionamento dell’accordo avviene con il pagamento della prima
rata e la prestazione della garanzia.
[118] La menzionata circolare, come già visto contiene le modalità
di applicazione dei primi studi di settore, approvati con D.M. del 31/03/1999.
[119] Come chiarisce la circolare sugli uffici incombe l’obbligo
di motivare le decisioni sia di accoglimento che di rigetto delle osservazioni formulate dai contribuenti.
Nell’intento di fornire un utile aiuto agli uffici della Amministrazione finanziaria, la menzionata circolare ha elencato, per ogni singolo studio di settore, le problematiche emerse in sede di elaborazione o di validazione. In tal modo, in sede di applicazione degli studi di settore dovrebbe essere più facile, per gli uffici, individuare quali siano, fra le diverse osservazioni avanzate dal contribuente, quelle che trovino, in una specifica “carenza” dello studio preso alla base dell’accertamento, un riscontro capace di giustificare l’eventuale scostamento rispetto ai risultati attesi [120].
[120] Senza soffermarci a riprodurre la casistica enumerata dalla circolare, ricordiamo, a titolo esemplificativo, le circostanze generali che sono state evidenziate con riguardo al settore del commercio al dettaglio, quali la localizzazione in mercati rionali o nei pressi degli stessi, la vicinanza di centri commerciali, la differente caratterizzazione di particolari zone o quartieri all’interno dello stesso comune; per il settore manifatturiero, invece, elementi da tenere sotto stretta osservazione sono risultati, oltre al livello di obsolescenza dei macchinari e dei beni strumentali, anche l’effettivo grado di utilizzo degli stessi.
A parte le circostanze enumerate dal Ministero delle finanze, in ogni modo, ciò che va chiaramente
evidenziato è che il contribuente ha il diritto di addurre qualsiasi prova contraria (diretta
o indiretta) alle argomentazioni formulate dall’Amministrazione finanziaria per sostenere l’esistenza
dei presupposti per un accertamento [121].
Se le giustificazioni fornite da un contribuente per motivare uno “scostamento” rispetto
ai valori desunti in base agli studi di settore non trovano ascolto nella fase del contraddittorio,
infatti, resta comunque la possibilità di riproporle in sede giudiziale, sotto forma di prove
contrarie. Il contribuente, allora, potrà o dimostrare l’infondatezza delle argomentazioni
formulate dall’Amministrazione finanziaria - fornendo una prova diretta che abbia ad oggetto
proprio specifiche circostanze extracontabili poste alla base delle prove presuntive che hanno motivato
l’accertamento - oppure, se non possiede una prova diretta per controbattere le tesi dell’Ufficio
accertatore, dovrà essere in grado di fornire almeno delle prove indirette capaci di minare
profondamente l’attendibilità delle argomentazioni formulate in sede di avviso di accertamento.
In conclusione, prescindendo dalle considerazioni teoriche dianzi accennate, si può soltanto
affermare che il maggiore o minore grado di persuasività delle argomentazioni che il contribuente
dovrà addurre per inficiare la forza presuntiva degli studi di settore si potrà conoscere,
in concreto, solo quando si formerà una sufficiente giurisprudenza riguardo al contenzioso
in materia di accertamento basato su questi nuovi strumenti.
[121] GARBARINO, Studi di settore, onere della prova, avviso di accertamento, in “Atti del convegno di Salerno”, 215 evidenzia come negli accertamenti nei quali sia possibile ricorrere a criteri predefiniti per l’inferenza, e manchi la prova diretta, motivazione e prova, di fatto coincidono, nel senso che la motivazione della pretesa avanzata dall’Amministrazione finanziaria, riferendosi ai criteri seguiti, enuncia anche la dimostrazione (ossia la prova) della pretesa.