Capitolo IV
4.1 LE ESPERIENZE STRANIERE RIGUARDO GLI STUDI DI SETTORE: ANALOGIE E DIFFERENZE
Nel precedente capitolo si sono evidenziati i momenti essenziali nell’evoluzione dell’accertamento
induttivo rilevando come la ragione per cui, pur dopo la riforma del 1973, si sia continuato a cercare
dei nuovi strumenti d’accertamento, sia da individuare nell’obiettiva impossibilità,
per l’Amministrazione finanziaria, di controllare direttamente ogni singolo contribuente, oltreché
nelle difficoltà, talvolta insormontabili, di reperire delle prove (o, più semplicemente,
anche degli indizi) circa l’esistenza di un’evasione. In questo contesto, perciò,
gli studi di settore rappresentano soltanto l’ultima, in ordine temporale, delle soluzioni adottate
dal nostro legislatore per arginare il fenomeno evasivo che caratterizza, in particolare, alcuni tipi
di attività economiche.
Si deve peraltro evidenziare come l’esigenza di creare degli strumenti per facilitare e guidare
l’attività di accertamento degli organi preposti al controllo non sia una prerogativa
soltanto italiana, ma accomuni, di fatto, un po’ tutti i sistemi impositivi dei paesi che si
basano sull’autoliquidazione delle imposte.
Prima ancora di iniziare ad analizzare gli studi di settore italiani, perciò, sembra interessante
prospettare lo sviluppo che analoghi strumenti d’accertamento hanno avuto in altre nazioni,
così da poter individuare, eventuali affinità o differenze.
Quello che, inoltre, deve essere messo ben in risalto è come, a fronte di uno strumento di
accertamento che, sostanzialmente, sembra somigliarsi in molti paesi, ciò che in concreto crea
notevoli differenze è, in effetti, la modalità con cui questi studi vengono utilizzati
dalle diverse Amministrazioni finanziarie.
In Italia gli studi di settore, approvati dal Ministero delle Finanze con la collaborazione delle
associazioni di categoria interessate, costituiscono uno strumento volto a facilitare l’operazione
di ricostruzione presuntiva della situazione di un contribuente che, per le caratteristiche della
propria attività, sia ritenuto “a rischio di evasione”. Si tratta, invero, di uno
strumento noto al contribuente, il quale, in sede di dichiarazione dei redditi può addirittura
decidere di adeguarsi alle “aspettative” dell’Amministrazione finanziaria, scongiurando,
in tal modo, il pericolo di un successivo accertamento.
In Belgio, come in Italia, gli studi di settore hanno una duplice funzione: da un lato, infatti, costituiscono
uno strumento a disposizione dell’Amministrazione finanziaria per la determinazione del presupposto
d’imposta negli accertamenti di carattere presuntivo, (utilizzabile, però, solo allorquando
gli organi di controllo siano riusciti a dimostrare l’inattendibilità delle scritture
contabili del contribuente), mentre dall’altro possono essere utilizzati da parte dei contribuenti
per la compilazione della dichiarazione, tanto dei redditi che I.V.A., inserendo appositi prospetti
che evidenziano la procedura seguita per la liquidazione dell’imposta.
Così come in Italia, anche in Belgio le categorie di contribuenti per le quali sono stati elaborati
gli studi di settore sono caratterizzate da dimensioni modeste e, ancor di più, dal fatto di
offrire i propri beni e servizi ad una fascia di mercato rappresentata dai consumatori finali, poiché
è stato rilevato come tali caratteristiche contribuiscano a rendere molto più difficile,
per l’Amministrazione finanziaria, scoprire se vi sia stata, o meno, evasione [1].
Contrariamente a quanto è stato fatto da noi, tuttavia, si è scelto di limitare il numero
di categorie da assoggettare agli studi ad una ventina appena. I dati in essi contenuti, infine, sono
revisionati annualmente, e risultano da appositi accordi effettuati con le organizzazioni di categoria
interessate.
Sebbene dunque sia possibile riscontrare notevoli analogie fra gli studi di settore belgi e quelli
italiani, bisogna però rilevare come, nel disciplinare in concreto i meccanismi sottesi alla
realizzazione di questo nuovo strumento d’accertamento, l’attenzione del nostro paese
si sia focalizzata, più che altro, sull’ormai consolidata esperienza israeliana, nel
tentativo di far tesoro delle esperienze altrui adattando, nondimeno i risultati ottenuti alle proprie
esigenze.
Gli studi di settore israeliani – o tachshivim [2]-
prendono le mosse addirittura dal lontano 1954, anno in cui l’ufficio dell’Income tax
commissioner diede inizio ad un accurato programma di ricerca riguardo ai livelli di reddito, di spesa,
nonché di reddito netto per unità di produzione o per percettore di reddito, riconducibili
alle diverse attività economiche.
[1] SANTACROCE, Strumenti a due velocità
per controllare le categorie, in “il Sole 24-ore” del 22/04/1999.
[2] Il singolare è tachshiv, espressione ebraica di difficile
traduzione, che può significare “calcolatore” o, meglio, “guida”, “standard”.
(fonte: TUNDO Il controllo dell’evasione di lavoratori autonomi e piccole imprese: il sistema
israeliano, in Rass. Trib., 1994, 10,1573)
L’obiettivo perseguito era, chiaramente, quello di elaborare delle direttive in grado di ricostruire
il reddito del contribuente, tenendo conto delle peculiarità che caratterizzavano l’attività
sottoposta ad accertamento.
Quest’esigenza era divenuta assai pressante in seguito alle disposizioni con le quali, dal 1943
in poi, si era cercato dapprima di incentivare e poi di imporre un vero e proprio obbligo alla tenuta
delle scritture contabili per coloro che esercitavano un’attività economica [3].
Una tale situazione, infatti, contribuendo ad aumentare la quantità di lavoro per gli uffici
che svolgevano l’attività di accertamento, aveva reso assolutamente necessaria la predisposizione
di uno strumento in grado di velocizzare e razionalizzare le verifiche.
Il compito di elaborare i tachishivim (così come quello di aggiornarli periodicamente) era
stato assegnato ad una commissione di esperti costituita da alcuni studiosi economisti che non avevano
nessun tipo di legame con gli organi preposti al controllo. Si era pensato, in tal modo, di favorire
una più serena collaborazione dei contribuenti, che, non sentendosi direttamente minacciati
dall’attività di ricerca cui erano sottoposti avrebbero fornito, di conseguenza, delle
risposte più aderenti alla realtà.
[3] Ed alla presentazione della dichiarazione dei redditi, invece, per tutti i cittadini maggiorenni.
Il gruppo di studio rilevava i dati necessari per l’elaborazione dei tachishivim mediante
accertamenti diretti od indiretti. Nel primo caso venivano effettuati degli accessi direttamente presso
le sedi di alcune delle attività rientranti nel settore economico posto sotto osservazione.
Naturalmente la scelta doveva ricadere su un campione sufficientemente significativo, così
da fornire degli elementi che, a livello statistico, fossero effettivamente in grado di rappresentare
la realtà della categoria produttiva cui appartenevano. In tal caso gli esperti analizzavano
la contabilità e raccoglievano le notizie relative alla gestione produttiva e commerciale fornite
direttamente dai contribuenti.
Nel secondo caso, invece, (quello, cioè, degli accertamenti indiretti) gli studiosi potevano
rilevare i dati necessari per il loro lavoro acquisendoli presso le Camere di commercio, le organizzazioni
di categoria, o, ancora meglio, direttamente dai clienti e fornitori dell’attività economica
esaminata [4].
Il complesso di notizie raccolte in questo modo veniva, quindi, tradotto in numeri e rappresentazioni
statistiche e sottoposto all’attenzione di funzionari degli uffici dell’Amministrazione
finanziaria preposti al controllo. E’ importante rilevare, inoltre, come prima di procedere
alla pubblicazione dei risultati ai quali si era pervenuti, vi fosse un confronto con i rappresentanti
delle associazioni di categoria, volto a raggiungere un accordo in merito ai risultati ottenuti [5].
[4] IORIO, Il caso Israele: per gli operatori
scatta l’obbligo dell’adeguamento in denuncia, in “il Sole 24-ore” del 22/04/1999.
[5] TUNDO, Il controllo, op. cit., 1585 rileva in merito: “…in
ogni caso, tanto i tachshivim concordati quanto quelli non concordati (e ciò qualora l’Amministrazione
non riesca a giungere ad un’intesa con le parti sociali interessate) sono comunque pubblici,
di modo che i contribuenti possano essere completamente informati sugli indicatori considerati rilevanti
da parte dell’Amministrazione finanziaria ai fini della presunzione di reddito”.
La struttura di ogni singolo tachshiv è caratterizzata da una parte introduttiva, nella quale
viene evidenziato il tipo d’impresa, arte o professione, e da una serie di elementi che siano
in grado di essere assunti quali “significativi indicatori di reddito o ricavo” [6].
Caratteristica essenziale di ciascun tachshiv deve essere l’elasticità, ossia la capacità
di determinare, di volta in volta, un reddito che tenga conto di circostanze variabili in relazione
alle diverse fattispecie esaminate.
Evidenziato quindi l’aspetto eminentemente “pubblico” dei tachishivim, va rilevato
come il meccanismo di applicazione di questo strumento porti a stimare un reddito presunto al di sotto
del quale non è dato scendere, attraverso un’opera di rideterminazione che si svolge
in tre fasi successive:
- l’analisi degli elementi impiegati nel processo produttivo [7]
e di quelli, invece, ottenuti dallo stesso [8],
che consente di stimare l’incasso lordo;
- la rideterminazione del reddito lordo, deducendo dall’incasso lordo un importo forfettario
di spese, collegabile a quelle che, sempre presuntivamente, dovrebbero essere state le
vendite effettuate;
- la stima del reddito netto presunto, attraverso la deduzione analitica delle voci di costo riscontrabili
direttamente dagli organi preposti al controllo.
[6] TUNDO, ivi,1584.
[7] Ossia: il numero dei lavoratori, il numero di beni strumentali impiegati
ed il rapporto tra il tasso di rotazione delle scorte e la giacenza media di magazzino.
[8] Cioè l’ammontare di beni e servizi ottenuti al termine
di un “ciclo produttivo”.
L’aspetto più importante da mettere in evidenza, ad ogni modo, è che i tachshivim,
sebbene siano pubblici, costituiscono uno strumento il cui scopo precipuo è quello di fornire
una “guida” interna per l’Amministrazione finanziaria, da utilizzarsi, peraltro,
solo in assenza di altri validi parametri (quali ad esempio una contabilità tenuta correttamente)
sui quali poter fondare una congrua valutazione del reddito del contribuente.
Da ciò consegue, quindi, che l’Amministrazione debba rideterminare, in concreto, il reddito
del contribuente, qualora, in effetti, sia in possesso di elementi che rendano possibile una tale
operazione. E’ soltanto a causa di una prassi “scorretta”, dunque, che, di fatto,
gli uffici, al fine di non dover sostenere l’onere della prova degli eventuali scostamenti in
aumento rispetto alle risultanze del tachshiv, sono indotti ad applicare automaticamente il reddito
presunto scaturente da quest’ultimo.
Concludendo l’analisi dei tachshivim israeliani, uno degli aspetti che sembra debba essere maggiormente
rimarcato, nel tentativo di proporre un confronto con gli studi di settore italiani, riguarda la partecipazione,
in entrambi i casi, delle associazioni di categoria, nell’intento di rendere lo strumento d’accertamento
ottenuto più “credibile” di quanto non lo sarebbe qualora fosse elaborato unicamente
in base a previsioni teoriche o, comunque, puramente statistiche.
Una differenza apprezzabile fra i due strumenti di accertamento, peraltro, deve essere individuata
nei presupposti che ne legittimano l’utilizzo, poiché, se in Israele i tachshivim vengono
applicati soltanto in assenza di altri elementi attendibili attraverso i quali poter rideterminare
il reddito, nell’esperienza italiana, come si vedrà meglio in seguito, è stato,
invece, esteso l’ambito di applicazione degli studi di settore anche alle ipotesi nelle quali,
formalmente, la contabilità risulti attendibile.
Passando ad analizzare l’esperienza francese si deve innanzitutto evidenziare come da questa
risulti chiara una netta contrapposizione fra contribuenti “normali” e contribuenti “forfettari”
[9]. La Francia, infatti, ha avvertito
l’esigenza di approntare appositi “studi di settore” avendo riguardo unicamente
a questi ultimi per i quali, attraverso l’analisi delle diverse categorie economiche, sono state
elaborate delle monographies.
Le monographies francesi sono, in sostanza, degli studi contenenti, con riferimento alle diverse attività,
delle descrizioni sia di natura qualitativa che quantitativa, la cui caratteristica essenziale sarebbe
dovuta essere la “segretezza” [10].
Il condizionale discende dal fatto che, invece, un funzionario delle imposte [11],
nel 1991, ha provveduto a farne pubblicare “abusivamente” alcune tra le più significative.
[9] BALDASSARI, “Le monographies profession
par profession” e la tassazione delle imprese forfettarie in Francia, in Rass. Trib., 1994,
I, 111, rileva come i presupposti per l’appartenenza a tale regime siano, per le imprese che
svolgano attività di prestazione di servizi, dei ricavi annui inferiori ai 150.000 franchi,
e di 500.000 franchi, al netto delle imposte, in tutti gli altri casi.
[10] BALDASSARRI, ibidem, rileva in merito: “Il termine ‘monographie’
designa numerosi studi ad uso esclusivamente interno. Spesso contrassegnati da un sigillo rettangolare
recante l’indicazione ‘riservato’ (confidentiel), essi, assolutamente segreti e
mai divulgati pubblicamente contengono delle descrizioni quantitative e qualitative in relazione ad
ogni singola attività commerciale.”
[11] Riguardo al quale BALDASSARI, op. ult. cit, rileva: “…è
un ispettore centrale delle imposte, appartenente al cadre A, ovvero in possesso della massima qualifica
attribuita agli ispettori fiscali incaricati delle verifiche…sotto lo pseudonimo di Robert Matthieu”.
L’importanza che era stata attribuita alla necessità di mantenere segreto questo strumento
d’accertamento discende, in particolare, dalla sua funzione. Infatti l’Amministrazione
finanziaria attraverso le monographies, (ma anche grazie ad altre informazioni relative alla specifica
attività esaminata) ha il compito di valutare la veridicità dei valori dichiarati dai
contribuenti forfettari, obbligati a redigere, annualmente, un tipo particolare di dichiarazione [12],
al fine di determinare l’utile forfettizzato [13].
Questo significa, come è stato rilevato [14],
che le monographies “ non hanno affatto il compito di predeterminare un reddito minimo, né
tanto meno quello di indicarlo ai contribuenti” ma perseguono unicamente l’obiettivo di
scoprire se le dichiarazioni presentate da questi corrispondano, o meno, al vero.
Le monographies francesi, che proprio grazie ai dati forniti dai contribuenti nelle predette dichiarazioni
possono dunque essere costantemente aggiornate, si compongono di due parti: nella prima sono indicate
notizie di carattere generale [15], mentre
nella seconda vi sono degli elementi volti a verificare la veridicità del reddito dichiarato.
[12] Questa dichiarazione, che è differente
da quella dei redditi, evidenzia sia dati di natura contabile che extracontabile, quali, ad esempio,
il valore degli acquisti, quello delle rimanenze, l’ammontare dei ricavi conseguiti o delle
retribuzioni corrisposte ai dipendenti, nonché il numero degli stessi.
[13] Il reddito imponibile, per i contribuenti forfettari, non corrisponde,
infatti, ad un reddito “medio”, bensì viene determinato, ogni due anni, tenendo
conto delle caratteristiche specifiche della singola attività economica esaminata.
[14] LUPI, Dalla leggenda alla realtà,: ecco gli studi di settore
francesi, in Rass. Trib., 1994, I, 109
[15] Quali, ad esempio, la tipologia dell’attività esaminata,
la regolamentazione legislativa, nonché quella amministrativa.
Si può quindi affermare che, accanto ad un contenuto “qualitativo”, che si concretizza in una descrizione dettagliata ed analitica del settore economico analizzato, si evidenzia l’esistenza di un contenuto “quantitativo”, attraverso il quale gli ispettori sono messi in grado di rideterminare indirettamente il volume d’affari del contribuente. Infatti, ancor prima di procedere alla verifica, attraverso l’applicazione di appositi “coefficienti moltiplicatori” forniti direttamente dalla Direzione Generale delle imposte, l’Amministrazione procede a ricostruire “unilateralmente” [16] il volume d’affari teorico dell’attività assoggettata a controllo, ed individua, di conseguenza, nelle ipotesi in cui riscontri uno “scostamento” tra il valore così determinato e quello invece dichiarato [17], l’esistenza di evasioni fiscali assoggettabili alla procedura d’accertamento.
[16] BALDASSARI, Les monographies, op. cit.
112, rileva in tal merito come, sebbene nell’opera di Matthieu si affermi palesemente che l’Amministrazione
prescinde dal caso specifico, tuttavia la dottrina italiana sembra essere, invece, di avviso contrario.
[17] BALDASSARI, Les monographies, op. cit., 112 rileva, infatti, in
merito: “…assai spesso, il coefficiente moltiplicatore calcolato in lodo teorico dalla
Direzione delle imposte –sovente senza consultazione con i rappresentanti delle categorie commerciali
o professionali interessate e soprattutto senza informare il contribuente stesso del tipo di coefficiente
utilizzato – non corrisponde a quello derivante dal rapporto fra il volume d’affari (fatturato)
e l’ammontare delle vendite. In questo caso se il risultato di tale rapporto è inferiore
a quello utilizzato dagli uffici e contenuto nella monografia “riservata” relativa al
settore di attività soggetto a verifica, gli uffici medesimi presumono un occultamento di entrate.
Con tutto ciò che ne consegue. Questo, però, ha dato origine a numerose sentenze del
Consiglio di Stato favorevoli ai contribuenti che vi hanno fatto ricorso e contrarie a quanto sostenuto
e praticato dall’Amministrazione”.
Si deve rilevare, peraltro, come il giudizio che emerge dall’analisi delle monographies diffuse
non sia uniforme, poiché, a fronte di studi sostanzialmente soddisfacenti, se ne evidenziano
altri che, oltre a peccare di eccessiva sinteticità, presentano anche “gravi errori economici,
statistici, finanziari e commerciali” [18].
Caratteristica comune a tutti gli studi, in ogni modo, risulta essere lo sforzo addirittura meticoloso
nell’individuare le molteplici relazioni che intercorrono fra i diversi fattori che caratterizzano
un’attività ed il reddito imponibile, e di fornire, inoltre, l’indicazione di quale
debba essere la procedura da seguire quando si effettua una ricostruzione.
Si può completare l’analisi delle monographies francesi rilevando come, pur con i difetti
evidenziati, esse perseguano (almeno nelle intenzioni) l’obiettivo di determinare un reddito
che rispecchi le condizioni specifiche e particolari di ciascun contribuente, e non un valore presunto
che prescinda dall’effettiva realtà. Il fatto, però, che la Direzione Generale
delle imposte non abbia l’obbligo di consultare, per l’elaborazione di questo strumento
d’accertamento, le associazioni di categoria interessate, costituisce, tuttavia, motivo di perplessità,
posto che è innegabile l’utilità che discenderebbe da una simile forma collaborazione,
sempreché, chiaramente, l’obiettivo perseguito sia, in effetti, la determinazione di
un reddito effettivo.
[18] BALDASSARI, Les monographies, op. cit., 113, la quale, inoltre rileva come la decisione di mantenere segrete le monografie francesi discenderebbe proprio dalla scarsa affidabilità delle rettifiche alle quali pervengono gli ispettori quando si avvalgano di questi strumenti d’accertamento.
Bisogna peraltro segnalare come a privare, almeno in parte, le considerazioni sopra svolte circa
le monographies francesi, di un più considerevole interesse contribuisca il fatto che, a causa
del fenomeno inflazionistico le imprese che rientrano nel regime forfettario sono divenute oggi, di
fatto, una minoranza estremamente esigua.
Per quanto riguarda, invece, la in Germania bisogna segnalare l’esistenza degli studi di settore
addirittura da più di trenta anni. La presenza di tale strumento d’accertamento risulta
completamente integrata in questo sistema, ed ha lo scopo preminente di fornire un valido supporto,
all’Amministrazione finanziaria, per verificare l’attendibilità dei redditi dichiarati.
Gli studi vengono tradotti in indici di riferimento, i “richtsatze”, pubblicati in raccolte
regionali contenenti, oltre ai metodi seguiti per l’elaborazione, anche la descrizione delle
modalità concrete con le quali devono essere applicati.
Innanzi tutto si può evidenziare come gli indici siano raggruppati in 61 categorie d’attività,
ed interessino soltanto le attività imprenditoriali, poiché per quelle professionali
non sono previsti.
Ciò che, però, contraddistingue maggiormente il sistema adottato in Germania per la
verifica dell’attendibilità delle dichiarazioni, non è tanto il meccanismo concreto
d’applicazione degli indici menzionati [19],
quanto l’atteggiamento assunto, in merito, dai contribuenti.
[19] L’Amministrazione finanziaria predispone delle tabelle contenenti quattro indici, ma ogni attività, considerata in base al proprio codice, deve rispettarne soltanto tre, in base a quanto disposto dalla legge. Questi indici sono: utile operativo (evidenzia l’incidenza del costo del venduto sui ricavi), utile lordo (è rappresentato dall’utile lordo al netto dei costi del lavoro), utile intermedio (è rappresentato dall’utile al lordo delle spese generali), ed utile netto. I contribuenti, riguardo a ciascuno degli indici menzionati, si trovano a fare i conti con tre valori di riferimento: un valore minimo, un valore massimo ed un valore medio. Oltre quindi ad avere come punto di riferimento la forcella rappresentata dai valori compresi fra il valore minimo e quello massimo di ogni indice, i contribuenti possono, inoltre, confrontare i dati della propria azienda con quelli di una azienda “standard”. Accanto agli indici, infatti, vi sono anche, per ogni attività, dei conti economici a scalare, molto dettagliati, che mostrano quali siano i valori “medi” per ogni singola voce contabile, cosicché il contribuente individuando più facilmente i motivi che lo hanno portato a discostarsi dalla media, può tentare di “normalizzare” la propria situazione.
Questi, infatti, sanno che affinché l’Amministrazione finanziaria consideri “sostanzialmente
corretta” la loro contabilità questa dovrà risultare attendibile, e, proprio per
fornire un parametro in tal senso vengono applicati, in prima battuta, gli indici.
E’ per questo che, già durante l’anno, i contribuenti sono indotti a tenere sotto
controllo la rispondenza dei valori risultanti dalla propria contabilità con quelli indicati
dall’Amministrazione.
Bisogna comunque specificare che soltanto gli imprenditori di medie dimensioni (in particolare quelli
che abbiano conseguito dei ricavi annui inferiori ad un milione e duecentomila marchi) subiscono,
in sede di verifica, un controllo circa l’attendibilità della propria contabilità
mediante l’utilizzo di questi indici.
L’effetto primario di un eventuale “scostamento in difetto” dagli indici è
quello di mettere in dubbio, insieme alla correttezza dell’impianto contabile, anche la veridicità
dello stesso reddito dichiarato. Ciò comporta, per il contribuente, l’onere di fornire
“un’adeguata” spiegazione che sia in grado di giustificare “l’atipicità”
della propria situazione rispetto ai risultati che si sono evidenziati negli studi effettuati.
Qualora, infatti, emergesse l’esistenza di uno scostamento (le cui motivazioni non vengano ritenute
adeguate) dai valori indicati dagli indici, ne conseguirebbe la possibilità, per l’Amministrazione
finanziaria, di procedere ad un accertamento induttivo.
In tale ipotesi è peraltro riscontrabile una diffusa ritrosia ad applicare i risultati ottenuti
mediante gli studi effettuati nella rideterminazione del presupposto d’imposta: infatti, ove
possibile, si cerca di procedere ad una ricostruzione analitica dei ricavi tenendo conto delle peculiarità
della situazione specifica.
Chiarita, quindi, la funzione degli indici risulta evidente che, in Germania, gli studi di settore
non sono utilizzati, come invece accade in Italia, anche per selezionare i contribuenti da sottoporre
a verifica. I controlli, infatti, sono effettuati periodicamente su tutti i contribuenti mediante
un sistema che addirittura permette di concordare a priori la data esatta in cui si procederà
alla verifica. In un siffatto contesto, quindi, gli studi di settore vengono utilizzati per fornire
al contribuente una preziosa indicazione su come prepararsi ad affrontare la prossima verifica in
modo “sereno” [20].
[20] GROSSMAN, Germania: Consulenti fiscali chiamati ad un monitoraggio continuo. La verifica di attendibilità per le dichiarazioni passa dall’uso degli indici, in “il Sole 24-ore” di Giovedì 22/04/1999.
Anche l’Olanda ed il Portogallo hanno effettuato specifici “studi” sulle diverse
categorie economiche presenti sul mercato ma a dire il vero, tuttavia, l’Amministrazione finanziaria,
si è servita unicamente degli elementi riscontrati in base alle passate esperienze maturate
sempre nell’ambito dell’attività di verifica ed accertamento. Le rilevazioni effettuate
hanno dunque portato all’elaborazione di monografie specifiche per le diverse attività
economiche, ma ciò che contraddistingue questi studi, rispetto a quelli precedentemente analizzati,
è il fatto che siano destinati unicamente ad indirizzare l’attività di controllo.
Il loro valore esclusivamente “interno” all’Amministrazione finanziaria si traduce
nella loro totale irrilevanza sia sotto l’aspetto probatorio sia sotto quello meramente indiziario,
così da risultare conseguentemente preclusa qualsiasi forma di loro utilizzo nella fase contenziosa
[21].
Passando, infine, ad esaminare paesi quali l’Irlanda e la Gran Bretagna, si può rilevare
come qui gli uffici finanziari abbiano a disposizione degli “Audit manual”, cioè
dei manuali operativi di verifica che vengono diramati, solitamente, attraverso apposite circolari.
Lo scopo di questi manuali, destinati a rimanere “interni” all’Amministrazione,
è, chiaramente, solo quello di indirizzare l’attività d’accertamento degli
organi preposti alle verifiche, nonché, in presenza di particolari circostanze
[22], di costituire una preziosa “conferma” delle eventuali prove che dovessero
emergere dall’analisi dei dati economici e contabili dell’attività sottoposta a
verifica [23].
[21] SANTACROCE, Strumenti, op. cit.
[22] Quali, ad esempio, il riscontro dell’inattendibilità
delle scritture contabili.
[23] SANTACROCE, Strumenti, op. cit.
4.2 IL LENTO “AVVIO” DEGLI STUDI DI SETTORE TRA ASPETTATIVE E DIFFICOLTÀ’
Nel precedente paragrafo si è cercato di inquadrare il “fenomeno” studi di settore
in una prospettiva di ambito internazionale, capace di evidenziare le molteplici peculiarità
che possono caratterizzare questo strumento d’accertamento, tanto nel procedimento di elaborazione
quanto poi nel modo in cui, di fatto, trova applicazione.
Volgendo ora nuovamente lo sguardo verso l’Italia, si tenterà, invece, di esaminare quali
siano state le motivazioni sottese alla creazione degli studi di settore nel nostro paese, evidenziando,
in particolare, le aspettative riposte in questo strumento d’accertamento e le difficoltà
che si sono incontrate nella sua realizzazione.
Innanzi tutto si può rilevare, anche alla luce di quanto già è stato esposto
in precedenza, come emerga chiaramente dall’analisi della politica legislativa dell’ultimo
scorcio di secolo l’affannoso tentativo di perseguire l’ambizioso obiettivo di porre in
essere un meccanismo impositivo equo. Si è visto, inoltre [24],
come la consapevolezza che ciò sarebbe stato possibile soltanto commisurando l’imposizione
all’effettiva capacità contributiva d’ogni singola persona, abbia inevitabilmente
portato all’attuazione di un sistema basato sull’autoliquidazione delle imposte, dal quale,
tuttavia, è conseguita l’esigenza di affinare le tecniche d’accertamento, così
da poter aumentare i controlli delle dichiarazioni presentate dai contribuenti.
[24] Si veda il secondo capitolo.
Di conseguenza non deve stupire il continuo susseguirsi di leggi e decreti in materia d’accertamento,
specie laddove il pericolo d’evasione è sembrato annidarsi maggiormente, come nel caso
dei contribuenti che esercitino per proprio conto un’attività imprenditoriale, artistica
o professionale di modeste dimensioni.
Così, dopo i “correttivi” apportati alla riforma del 1973 con la “Visentini-ter”,
i coefficienti e la minimum tax, si può ritenere che sia stata proprio l’insoddisfazione
per i risultati ottenuti [25] ad indurre
il legislatore a cimentarsi, nuovamente nella predisposizione di un altro strumento, questa volta
con l’intento dichiarato di facilitare i controlli dell’Amministrazione finanziaria.
Sin dall’inizio è apparso chiaro che un modo per ottenere dei risultati migliori rispetto
al passato sarebbe stato quello di abbandonare la logica degli accertamenti “a tappeto”
sulla base di coefficienti spesso poco persuasivi: l’impossibilità materiale per gli
uffici accertatori di compiere un controllo personalizzato per ogni singolo contribuente, così
da poter riscontrare effettivamente l’incidenza di ogni variabile presa in considerazione, non
doveva più, in altre parole, continuare a ripercuotersi sui contribuenti.
[25] LUPI, Gli studi di settore tra automatismi
e valutazioni degli uffici fiscali in Atti del convegno di Salerno “Il nuovo accertamento tributario
tra teoria e processo” tenutosi presso l’Università di Salerno il 20-21 maggio
1994, a cura di Preziosi, Roma Milano, 1996 pag. 151 e seg. rileva in merito: “…Il controllo
non parte quando si scrivono le norme sulla Gazzetta Ufficiale, ma quando si effettuano i controlli
e si redigono gli accertamenti… Quando dovevano giungere i primi accertamenti induttivi emanati
ai sensi della ‘Visentini-ter’ è invece sopraggiunto il condono del dicembre 1991,
che ha interrotto sul nascere un filone di accertamenti niente affatto arbitrari e sicuramente più
persuasivi di quanto lo fossero i fatti dichiarati…Anche l’accertamento in base ai coefficienti
stenta a decollare…Questi ultimi non riescono, infatti, a tenere insieme tre o quattro caratteristiche
di solito presenti simultaneamente. ..”
Come era stato acutamente rilevato in dottrina [26],
inoltre, ciò di cui effettivamente c’era bisogno, era che si tornasse a considerare le
argomentazioni, tanto quelle del contribuente quanto quelle dell’ufficio accertatore, per la
loro effettiva capacità persuasiva. Bisognava scrollarsi di dosso, insomma, quella “potente
suggestione, nei confronti del giudice, a chiedere alle presunzioni degli uffici un rigore probatorio
superiore a quello che, nei singoli casi, si può realisticamente pretendere…”,
così da impedire l’ingresso a qualsivoglia obiezione dei contribuenti volta ad insinuare
dubbi sull’operato dell’Amministrazione finanziaria, anche laddove i redditi dichiarati
fossero, di fatto, privi di ogni credibilità.
L’art. 62-sexies del D.L. 331/93 aveva certamente segnato un punto fondamentale nel tentativo
di abbandonare gli schemi nei quali era rimasta intrappolata, in passato, l’attività
di controllo dell’Amministrazione finanziaria, ma il più era ancora da fare. Gli “studi
di settore” previsti dall’art. 62-bis del menzionato decreto legge rappresentavano, infatti,
la naturale prosecuzione della politica intrapresa, ma alla loro elaborazione si è giunti attraverso
non poche difficoltà e, comunque, molto più tardi rispetto a quanto si era inizialmente
previsto.
Innanzi tutto, con decreto ministeriale del 21/10/1993, è stata istituita un’apposita
Commissione ministeriale studi di settore, con il compito primario di individuare i parametri più
rilevanti per il controllo indiretto del volume d’affari delle imprese operanti nei diversi
settori economici.
[26] LUPI, Gli studi, op. cit., 151.
I lavori della Commissione si sono basati principalmente sul presupposto, ormai consolidato in base
alle esperienze passate, che “purtroppo, per le piccole imprese, l’evasione di solito
non lascia traccia e può essere soltanto stimata in base alle caratteristiche innegabili dell’attività
svolta, come le dimensioni, gli acquisti, i dipendenti, i beni strumentali impiegati, etc.”
[27]
Per rendere effettivamente possibile l’instaurazione di una “lotta ad armi pari”,
con i contribuenti di piccole dimensioni, sarebbe bastato, quindi, affidarsi semplicemente al criterio
della “ragionevolezza” [28]
dei ricavi, permettendo all’ufficio accertatore di ignorare le risultanze contabili [29]
laddove il reddito dichiarato presentasse una notevole sproporzione rispetto a quello, invece, fondatamente
desumibile dalle caratteristiche dell’attività svolta.
[27] Commissione Ministeriale per l’elaborazione
degli studi di settore, cit. documento approvato nella riunione del 13 aprile 1994, contenente le
“Prime considerazioni e suggerimenti della commissione ministeriale studi di settore”
in “Riv. Dir. Trib.” 1994.
[28] Come evidenziato dalla Commissione ministeriale per l’elaborazione
degli studi di settore, nell’ult doc. cit. : “Le esigenze di rapidità nell’accertamento
e di controllo di credibilità dei volumi dichiarati possono essere conciliate anche in concreto,
con controlli indiretti tendenti a stabilire la ragionevolezza dei ricavi dichiarati, cioè
la loro compatibilità con le informazioni extracontabili relative all’azienda. Si tratta
anche qui, di stime basate su nozioni di esperienza comune applicate al singolo contribuente e perciò
tendenzialmente più eque e persuasive di catastizzazioni astratte. E’ questa la strada
degli studi di settore, di una mitigazione delle sanzioni e di una reintroduzione di forme d’accordo
tra fisco e contribuenti”.
[29] E da rilevare, infatti, come le verifiche fiscali abbiano troppo
spesso risentito, a causa di una prassi ormai consolidata, di un formalismo esasperato e fine a sé
stesso, destinato molto spesso, a fare dichiarare addirittura annullabili gli accertamenti nei quali
trovava ingresso. Proprio nella relazione del Se.C.I.T. riguardante l’anno 1994, viene del resto
messo in evidenza questo problema, poiché si riscontra come “ alcune verifiche (condotte
da personale civile e militare non sufficientemente preparato) si sostanzino in controlli puramente
formali…quasi mai diretti alla ricerca della prova logica per la determinazione dei ricavi…
di guisa che l’85% dei controlli fiscali è annullato dalle commissioni tributarie…”.
Questo significa che, mentre, ad esempio, con i coefficienti e con la minimum tax si determinava
una realtà che andava a sostituirsi a quella ricavabile in base alle scritture contabili, l’obiettivo
ora perseguito è quello di recuperare l’importanza dell’attività di accertamento
da parte degli uffici, nel tentativo di conciliare, ove possibile, le esigenze del contribuente con
quelle dell’Amministrazione finanziaria.
Nell’ambito di un siffatto contesto, e grazie alla possibilità di utilizzare alternativamente
l’accertamento analitico-contabile e quello induttivo [30],
s’inseriscono gli studi di settore. Questi, infatti, rappresentano un utile strumento messo
a disposizione degli organi dell’Amministrazione finanziaria chiamati a fornire una prova convincente
dell’incongruenza, per difetto, dei valori dichiarati dal contribuente, rispetto a quelli, invece,
accertati come verosimili in base alle condizioni di esercizio, nonché alle caratteristiche
di quella determinata attività [31].
Sebbene, dunque, questa sia la finalità apparentemente più importante degli studi di
settore, non si può tralasciare di segnalarne altre due, così come si evince dalla lettura
della Circolare ministeriale n. 283 del 27 ottobre 1995 [32]:
quella di fornire un criterio per selezionare i contribuenti da sottoporre a verifica ed, inoltre,
quella di permettere al contribuente di conoscere preventivamente le “aspettative” dell’Amministrazione
finanziaria, così da poter decidere, in sede di dichiarazione, di adeguarvisi per non incorrere
nel rischio di un accertamento.
[30] Questa possibilità è stata
introdotta, come già visto, dall’art. 62-sexies, comma III, del D.L. n. 331 del 30 agosto
1993,, convertito, con modificazioni, nella L. 29 ottobre 1993, n. 427, riguardante gli studi di settore.
[31] Come infatti si legge nella Circolare del ministero delle Finanze
n. 110/E: “Gli studi di settore si pongono l’obiettivo di individuare le condizioni effettive
di operatività delle imprese e di determinare i ricavi e i compensi che con ragionevole probabilità
possono essere attribuiti ai contribuenti, attraverso la rilevazione delle caratteristiche strutturali
di ogni specifica attività economica, realizzata mediante la raccolta sistematica di dati di
carattere fiscale e di elementi che caratterizzano l’attività e il contesto economico
in cui la medesima si svolge”.
[32] CIRCOLARE. Dir. Accertamento e Progr. N. 283/E/I/2/1779 del 27 ottobre
1995, in “ il fisco, 41/1995, pag. 9983 : “…La definizione degli studi di settore
consentirà, infatti all’Amministrazione finanziaria di avvalersi di uno strumento rispondente
alle seguenti finalità:
I fornire dei riferimenti per consentire l’adempimento spontaneo, in sede di dichiarazione,
rendendo più trasparente il rapporto con il Fisco;
II dotare gli uffici finanziari, preposti al controllo delle dichiarazioni, di un insieme di elementi
utilizzabili nell’ambito dell’attività di accertamento e in particolare:
- per la selezione dei soggetti da sottoporre a controllo fiscale;
- per la ricostruzione dei compensi e dei ricavi ragionevolmente riferibili al soggetto sottoposto
a controllo, tenuto conto delle caratteristiche e delle condizioni di esercizio della
specifica attività svolta…”.
Inizialmente la Commissione ministeriale studi di settore si è soffermata ad analizzare esclusivamente la prima delle funzioni attribuibili agli studi di settore [33], sostenendo con molta convinzione la necessità di un “rilancio in grande stile” del controllo indiretto del giro d’affari. Anzi, evidenziando come un siffatto tipo di controllo poggi le proprie basi su ragionamenti meramente empirici [34], ha addirittura escluso che, per i primi tempi, si potesse attribuire a questi studi qualsiasi altro tipo di valore [35].
[33] Che abbiamo visto essere, appunto, quella
di permettere la ricostruzione dei compensi e dei ricavi ragionevolmente riferibili al soggetto sottoposto
a controllo.
[34] Commissione ministeriale studi di settore, Ult. doc. cit., evidenzia
come : “la stima indiretta dei ricavi è solo l’insieme dei ragionamenti empirici
che un funzionario tributario può fare per convincere i giudici che il reddito dichiarato è
inverosimile, e per indicare l’ordine di grandezza di un reddito più credibile di quello
dichiarato”.
[35] Commissione ministeriale studi di settore, Ult. doc. cit.: “
Una prima utilizzazione degli studi nell’attività di verifica potrebbe avvenire in via
amministrativa, rendendo più facile agli uffici costruire argomentazioni basate sul senso comune…In
questa fase le affermazioni effettuate negli studi non avrebbero alcun valore probatorio privilegiato.
La persuasività degli avvisi di accertamento che avessero fatto uso di tali schede dovrebbe
perciò essere giudicata secondo i criteri ordinari. Gli avvisi di accertamento, grazie ai suggerimenti
forniti, sarebbero di fatto più convincenti, senza però essere dotati per legge di alcun
valore probatorio privilegiato”.
La fase iniziale di attuazione della normativa in materia di “studi di settore”, così
come disposto dalla Circolare n. 283 del 27 ottobre 1995, avrebbe dovuto aver luogo con la predisposizione
di studi sperimentali, basati sui dati contabili già in possesso dell’Anagrafe tributaria,
nonché su elementi extracontabili sia di natura aziendale, da acquisire presso i contribuenti
attraverso l’invio di appositi questionari [36],
che di natura extraziendale [37].
L’obiettivo perseguito attraverso l’invito, fatto ai contribuenti, di compilare i questionari
era [38]– ed ancora è [39]
- chiaramente, quello di individuare la relazione intercorrente fra le molteplici variabili (contabili
ed extracontabili) in quelle che, normalmente, sono le condizioni d’effettiva operatività
delle imprese, così da poter determinare, di conseguenza, anche i ricavi che con ragionevole
probabilità debbono essere attribuiti alle stesse.
[36] Legge 23 dicembre 1996, n. 662 art. 121,
comma 121, in “Guida normativa Il sole 24 ore” di venerdì 10 gennaio 1997: “I
soggetti che hanno dichiarato per il periodo d’imposta 1995 ricavi derivanti dall’esercizio
dell’attività d’impresa di cui all’art. 53, comma I, ad esclusione di quelli
indicati alla lettera c), del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente
della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, o compensi derivanti dall’esercizio di arti e professioni
di ammontare non superiore a lire dieci miliardi sono tenuti a fornire all’Amministrazione finanziaria
i dati contabili ed extra-contabili necessari per l’elaborazione degli studi di settore. Per
la comunicazione di tali dati l'Amministrazione finanziaria provvede ad inviare al domicilio fiscale
del contribuente, sulla base degli ultimi dati disponibili presso l’anagrafe tributaria, appositi
questionari, approvati con decreto del Ministro delle finanze, da pubblicare nella Gazzetta Ufficiale,
che il contribuente deve ritrasmettere compilati, alla medesima amministrazione…”; in
base al disposto della Circolare 283/E del 27/10/1995 qualora i contribuenti non avessero provveduto
nei termini la Guardia di finanza avrebbe provveduto a ritirarli, mediante accesso presso la sede
dell’esercizio, o, nel caso in cui i questionari non fossero stati addirittura compilati, avrebbe
acquisito direttamente i dati necessari. E’ interessante porre in evidenza come la circolare
n. 186/E del 1995 dica chiaramente che i questionari in esame sono, di fatto, privi di qualsiasi rilevanza
giuridica; ne consegue, dunque, l’impossibilità di sanzionare le omissioni ed i ritardi
nelle risposte ai questionari.
[37] CIRCOLARE Dir. Accertamento e Progr., n. 283/E/I/2/1779 del 27 ottobre
1995, in “il fisco”, 41/1995, 9983.
[38] I questionari predisposti dall’Amministrazione finanziaria
inviati, nel corso del 1997 al fine di raccogliere le informazioni necessarie per l’elaborazione
dei 45 studi di settore approvati con i decreti ministeriali del 30 marzo 1999, pubblicati nei Supplementi
ordinari nn. 61 e 62 alla Gazzetta Ufficiale n. 75 del 31 marzo 1999, sono stati approvati con i decreti
ministeriali del 18 aprile, 12 giugno e 3 luglio 1997, ed inviati ai contribuenti nel corso dello
stesso anno.
[39] Il presente è d’obbligo, poiché l’Amministrazione
finanziaria sta ancora continuando ad inviare dei questionari, per le attività che ancora non
sono state oggetto di studio, al fine di elaborare degli studi di settore anche per queste.
E’ interessante notare come, nelle istruzioni per la compilazione dei questionari, risulti
evidente lo sforzo di far capire ai contribuenti le finalità perseguite dall’Amministrazione
finanziaria attraverso gli studi di settore. Se quest’ultima, infatti, si è prefissata
obiettivi quali la trasparenza, la certezza e la coerenza nell’attività d’accertamento,
risulta chiaro che a beneficiarne dovrebbero essere contribuenti e, proprio questo, avrebbe dovuto
assicurare, nelle intenzioni del
legislatore, un clima di collaborazione nella raccolta delle “preziose” informazioni contenute
nei questionari.
Inoltre, poiché è apparso chiaro che un’altra utile fonte d’informazioni
per la predisposizione degli studi di settore era rappresentata dai dati raccolti dal corpo della
Guardia di finanza nello svolgimento dei propri compiti di controllo, parallelamente si è proceduto
anche a modificare l’area programmata delle verifiche, tenendo conto delle nuove esigenze.
E’ stato così predisposto, a tale scopo, un complesso programma che prevedeva, accanto
agli accessi informativi del piano “Usellini”, verifiche mirate per l’anno 1993
e le cosiddette “verifiche a campagna” nei confronti di intere categorie economiche (quali
gli amministratori di condominio, gli odontoiatri e gli odontotecnici) per l’anno 1994. L’obiettivo,
però, in rapporto alle forze di cui disponeva la Guardia di finanza si è rivelato un
po’ troppo ambizioso, e così, in un secondo momento40, si è dovuto ripiegare per
una prosecuzione dei controlli solo su campioni sufficientemente rappresentativi di quelle che erano
considerate le attività d’impresa e di lavoro autonomo maggiormente a rischio.
Tra il 1995 ed il 1996, inoltre, il Ministero delle Finanze realizzò un nuovo programma di
verifiche mirate [40], con lo scopo, oltre
che di raccogliere ulteriori informazioni utili per l’elaborazione degli studi di settore, anche
di sperimentare una modalità di controllo innovativa che, basandosi su specifici indici contabili
ed economici [41], mirava a snellire molto
le procedure seguite nell’ambito delle verifiche effettuate dall’Amministrazione finanziaria.
[40] Decreto del Ministero delle finanze 26
aprile 1995, pubblicato in G.U. n. 134 del 10 giugno 1995, in “il fisco” n. 24/1995, 6153,
in esecuzione della direttiva ministeriale del 28 dicembre 1994 riguardo al programma annuale dei
controlli della Guardia di finanza, nonché degli uffici distrettuali delle imposte dirette
e degli uffici I.V.A. per l’anno corrente, tra l’altro evidenziava la necessità:
- di acquisire elementi utili per la predisposizione degli studi di settore;
- di indirizzare l’attività di controllo su campioni di contribuenti rappresentativi
dei principali settori economici, anziché concentrarla sulla totalità dei
contribuenti che rientravano nelle categorie ritenute maggiormente a rischio di evasione;
- di sottoporre a controllo specificamente quei soggetti, esercenti attività d’impresa
e di lavoro autonomo, che in base ai dati forniti dalle dichiarazioni del triennio 1991-1993
presentino una produttività significativamente inferiore a quella media del settore di appartenenza;
- di sottoporre a controllo quei soggetti che esercitino abusivamente (privi cioè dei requisiti
prescritti dalla legge, quali iscrizioni ad albi o licenze) ovvero che risultino essere
addirittura evasori totali.
[40] L’attività di controllo della Guardia di finanza è
stata definita nelle sue modalità esecutive dal D.M. del 26 aprile 1995 e dalla circolare n.
283/E del 27 ottobre 1995.
[41] Il Ministero forniva una “soglia di categoria” che aveva
lo scopo di permettere un controllo in merito alla congruità dei dati dichiarati dal contribuente:
il controllo, infatti era proprio volto a verificare, attraverso riscontri indiretti, la coerenza
delle risultanze contabili rispetto alla potenzialità astratta dell’azienda, presunta
in base a particolari elementi.
Caratteristica saliente di queste nuove “verifiche mirate” era, la brevità (la
durata delle stesse oscillava di solito fra i dieci ed i quindici giorni ): in due o tre giorni, infatti,
mediante la ricostruzione di alcuni indici ministeriali con gli elementi raccolti sul posto, veniva
fornito un giudizio sull’attendibilità delle scritture contabili: nel caso in cui non
fossero emersi elementi idonei a confermare con grande probabilità l’inattendibilità
della contabilità, il nucleo di verifica aveva il compito di chiudere il controllo. Nel caso
contrario, invece, si procedeva ad una ricostruzione indiretta dei ricavi in base all’articolo
62-sexies del D.L. 331/1993.
A posteriori potremmo dire, senza alcun dubbio, che la previsione iniziale di fornire all’Amministrazione
finanziaria, già dallo stesso periodo d’imposta 1995 [42],
degli schemi di studi di settore sperimentali che potessero essere di supporto nell’attività
di controllo [43]-[44], - era stata, dunque,
un po’ troppo ottimistica, ed il fatto stesso che per l’approvazione e l’invio dei
primi questionari si sia dovuto aspettare, addirittura sino al 1997 ne è una riprova.
[42] Così come stabilito dall’art.
62-bis D.L.331/93, riportato nella nota n.70 del III Capitolo.
[43] In particolare la Circolare Dir. Entrate, 4 maggio 1994, n. 44/E
prevedeva espressamente che questi studi dovessero contenere “una serie di indizi specifici
per ciascun settore economico preso in considerazione, da utilizzare contestualmente…come strumento
di rilevazione indiretta del giro d’affari e come supporto alla determinazione di una motivazione
ragionata, congrua, perspicua e persuasiva”.
[44] Gli indizi riportati in dettaglio, nella circolare in questione
erano: acquisti di beni destinati alla rivendita; dimensioni dei locali e caratteristiche delle attrezzature;
numero degli addetti e loro potenzialità produttiva; consumi e indizi amministrativi extra-fiscali;
incrocio tra dati contabili, dati rilevati direttamente e comune esperienza; ragioni economiche che
provocano oscillazioni dei ricavi in corso d’anno; ubicazione territoriale e concorrenza; indizi
globali.
Le numerosissime difficoltà che si sono presentate, infatti, allorquando si è iniziato a tradurre nella pratica il dettato normativo hanno imposto la proroga [45] al 31 dicembre 1998 del termine previsto dall’art. 62-bis del D.L. 30 agosto 1993, n. 331, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 ottobre 1993, n. 427 per l’approvazione e la pubblicazione degli studi di settore.
[45] Il termine per l’approvazione e la pubblicazione degli studi di settore, invero, è stato dapprima prorogato al 31 dicembre 1996 dall’art. 3, comma 180 della legge 28 dicembre 1995, n. 549 e successivamente al 31 dicembre 1998 dall’art. 3, comma 124 della legge 23 dicembre 1996, n. 662.
4.3 GLI STUDI DI SETTORE ED IL PRINCIPIO DI LEGALITÀ
L’ingresso, nel sistema tributario italiano, degli studi di settore è riconducibile,
come si è già visto, agli artt. 62-sexies e 62-bis del D.L. 331/93.
L’art. 62-bis, in particolare, ha disposto, tra l’altro, l’attribuzione agli Uffici
del Dipartimento delle Entrate del Ministero delle finanze del compito di elaborare - sentite le associazioni
professionali e di categoria ed in relazione ai vari settori economici - appositi studi di settore.
Bisogna segnalare, peraltro, come sebbene l’articolo in esame, nella versione originaria, fornisse
l’indicazione di quali fossero gli “elementi caratterizzanti l’attività esercitata”
[46] in base ai quali avrebbero dovuto
essere costruiti i predetti studi successivamente [47],
si sia deciso, invece, di lasciare piena libertà all’Amministrazione finanziaria di decidere
quali fattori prendere in considerazione.
In realtà, come è stato rilevato in dottrina [48],
l’effetto prodotto da un simile cambiamento è stato, nella sostanza, quello di “delegificare
la materia degli studi di settore”, cosicché, a fronte di una definizione “volutamente
generica e astratta di essi” l’Amministrazione si è trovata, in effetti, a poter
individuare liberamente quali siano gli elementi idonei a caratterizzare le diverse attività
economiche.
[46] La formulazione originaria dell’articolo,
infatti enumerava, quali elementi caratterizzanti l’attività esercitata: gli acquisti
di beni e servizi, i prezzi medi praticati, i consumi di materie prime e sussidiarie, il capitale
investito, l’impiego di attività lavorativa, i beni strumentali impiegati, la localizzazione
dell’attività ed altri elementi significativi in relazione all’attività
esercitata.
[47] Art. 10, comma 11 della legge 8 maggio 1998, n. 146.
[48] GALLO, Ancora sulla questione reddito normale-reddito effettivo:
la funzione degli studi di settore, in Convegno su “I nuovi studi di settore” organizzato
dalla Facoltà di Economia dell’Università di Roma La Sapienza, il giorno 11 febbraio
2000.
Sebbene l’argomento relativo alla riserva di legge in materia di prestazioni imposte sia già
stato affrontato, sembra peraltro necessario, a questo punto, proporre, in relazione agli studi di
settore, alcune ulteriori considerazioni.
Innanzitutto viene spontaneo riscontrare, alla luce di quanto si è già detto, che effettivamente
sussiste un problema di riserva di legge in rapporto a questo nuovo strumento d’accertamento,
poiché, attraverso esso - mediante la disciplina legale della prova - s’incide senza
alcun dubbio su degli “interessi sostanziali” [49].
Come si è avuto modo di approfondire nel secondo capitolo, infatti, l’inserzione di una
“discrezionalità legislativa” nell’ambito della disciplina “formale”
del tributo, volta a contemperare “esigenze equitative, di giustizia distributiva ovvero anche
di tutela dell”interesse fiscale’” è ammissibile soltanto se, in effetti,
vi sia una “predeterminazione, in atto avente forza di legge, per lo meno di criteri e limiti
alle scelte connesse agli elementi strutturali del tributo” [50]
.
[49] FEDELE, I principi, op. cit., 469, evidenzia
in merito “Tuttavia, anche ad ammettere che si tratti esclusivamente di una disciplina ‘procedimentale’,
deve tenersi conto che ogni regola per individuare più probabili ‘discostamenti’
da livelli di reddito predeterminati ovvero ‘normali’ costituisce inserzione di un interesse
diverso da quello espresso dal criterio di ripartizione dei carichi pubblici risultante dalla definizione
del presupposto e come tale necessita di una propria ‘base’ a livello di norma primaria”.
[50] FEDELE, Rapporti, op. cit. 243; l’Autore, inoltre, rileva:
“In definitiva, l’area di operatività della riserva di legge in materia di prestazioni
imposte dovrebbe, a mio avviso, estendersi oltre l’area delle norme di natura esclusivamente
‘sostanziale’, in ragione della anche parziale tutela riconosciuta ad interessi ‘sostanziale’
pur nell’ambito di una disciplina con funzione essenzialmente ‘formale’”.
In secondo luogo bisogna segnalare come anche in relazione agli studi di settore - dopo le modifiche
apportate all’art. 62bis - si debba evidenziare quel preoccupante fenomeno teso ad estendere
“l’operatività delle fonti secondarie senza assicurare alle scelte dell’Amministrazione
una sufficiente ‘base’ nella normativa primaria”, così come, in passato,
era già stato denunciato [51] con
riguardo ad altri strumenti d’accertamento.
Spesso può accadere – e sembra sia accaduto, infatti, anche con gli studi di settore
- che, pur partendo da premesse certamente valide, si possa perdere di vista, strada facendo, l’obiettivo
inizialmente perseguito. Una simile constatazione scaturisce dalla semplice contrapposizione di considerazioni
mosse, riguardo a questo nuovo strumento d’accertamento, da due autorevoli giuristi che, a distanza
di qualche anno, ne hanno riprodotto due immagini profondamente diverse.
Da principio, quando ancora, in effetti, si sapeva ben poco sulle prospettive concrete che l’evoluzione
di questo strumento d’accertamento avrebbe determinato, era stato rilevato in dottrina [52]
come, riguardo alle implicazioni in tema di riserva di legge, la previsione degli studi di settore
sembrasse - rispetto alla disciplina di rango primario - più razionale che nel passato. Invero,
pur evidenziando come questo nuovo strumento di accertamento rappresentasse una nuova opportunità
per ricondurre la disciplina dell’accertamento della fiscalità di massa nell’ambito
del rispetto del “principio di legalità”, si segnalava già l’esigenza
di una “maggiore esplicitazione delle già menzionate finalità di orientamento
complessivo dell’azione amministrativa e del comportamento dei contribuenti, con la fissazione
di più evidenti criteri e limiti”.
[51] FEDELE Rapporti, op. cit. 244 rileva,
riguardo alla disciplina del “redditometro”, come dapprima l’indicazione dei fatti-indice
da cui si traevano i parametri di quantificazione del reddito era effettuata con atto di fonte primaria
(art. 2 del D.P.R. n. 600/73) e la natura dei fatti era tale che “l’identificazione dei
parametri di quantificazione risultava implicitamente nella norma primaria stessa”, mentre “la
più recente evoluzione normativa in materia ha invece eliminato l’elenco dei fatti indice
nella fonte primaria, rimettendo al ministro anche l’individuazione di ‘elementi e circostanze
di fatto’ indicativi di capacità contributive. Un fenomeno analogo si è verificato
per i coefficienti…”
[52] FEDELE, Relazione, op. cit., 246; l’Autore segnala, infatti,
come “la tecnica di produzione normativa adottata, con ampia previsione in atti aventi forza
di legge e con esplicito riferimento ad attività di controllo complessivamente considerate
e non a singoli fatti ed a loro opinabili collegamenti con componenti reddituali, appare assai più
rispettosa della riserva di legge”.
A distanza di circa sei anni, illustrando gli effetti del comma XI, art. 10 della L. 8 maggio 1998,
altra dottrina [53], ha rilevato, invece,
come si sia giunti, in sostanza, a delegificare la materia degli studi di settore, non soltanto attribuendo
il potere all’Amministrazione di determinare in via autonoma quali siano gli elementi caratterizzanti
l’attività esercitata, ma anche lasciandole la facoltà di “funzionalizzare”
gli stessi nella maniera che ritenga più opportuna.
In pratica, è stato rilevato [54]
come “quasi inavvertitamente”, il legislatore abbia lasciato proprio all’Amministrazione
finanziaria la scelta - “in via amministrativa e nei tempi ritenuti più congrui”
- fra due possibili ed antitetici modi di impiego degli studi di settore.
[53] GALLO, Ancora, op. cit., 5, peraltro,
vede con favore la delegificazione operata dal legislatore.
[54] GALLO, ivi, 6
Lo sforzo profuso nell’elaborazione di questo nuovo strumento, infatti, potrebbe celare, dietro
la costruzione di modelli statistici, una limitazione della possibilità, per il contribuente,
di fornire una prova contraria, tale da promuovere, di fatto una politica di adeguamento spontaneo
agli stessi ed avviare, conseguentemente, un “surrettizio processo di catastizzazione del reddito
delle piccole e medie imprese”. Oppure, in alternativa, gli studi di settore potrebbero essere
utilizzati come uno strumento presuntivo capace di fornire preziose informazioni per orientare l’attività
di controllo e per assicurare un supporto dimostrativo alle argomentazioni dell’Ufficio accertatore,
nella ricerca, nella singola fattispecie, del reddito che più si avvicini a quello econimico-effettivo.
Questa seconda ipotesi sembra senza altro rispecchiare meglio le aspettative inizialmente riposte
negli studi di settore, ma ciò che si vuole ora evidenziare è come la delegificazione
di cui si è parlato abbia determinato, di fatto, un netto cambiamento di tendenza rispetto
alle prospettive iniziali.
Viene spontaneo chiedersi, infatti, come si possa giustificare l’attribuzione di una potestà
regolamentare all’Amministrazione finanziaria laddove siano coinvolti interessi di natura sostanziale
– come, evidentemente, avviene nel caso in cui venga perseguita una politica di “orientamento
complessivo delle vicende attuative del tributo” [55],
o, ancor peggio, di tendenziale catastizzazione del reddito - senza che un atto avente forza di legge
abbia, in effetti, posto dei criteri e dei limiti alla discrezionalità così concessa.
[55] FEDELE, Rapporti, op. cit., 246.
Si può concludere, quindi, rilevando non solo come gli auspicati [56] limiti alle “finalità di orientamento complessivo dell’azione amministrativa”, non siano mai intervenuti a limitare il rischio che decisioni amministrative potessero ripercuotersi su profili di rilevanza sostanziale, ma anche come ”la tecnica di produzione normativa adottata, con ampia previsione in atti aventi forza di legge”, prospettata inizialmente, sia stata, in effetti, abbandonata strada facendo, gettando inquietanti dubbi sulla legittimità degli attuali studi di settore, così come in passato era già accaduto con riguardo ad altri strumenti d’accertamento.
[56] FEDELE, ibidem.