CAPITOLO II
Pearl Abraham: una donna contro l’ortodossia.
II.1. The Romance Reader: evasione da una realtà religiosa che pone troppi limiti.
The Romance Reader [54] è il primo
romanzo di Pearl Abraham ed è stato pubblicato in America nel 1996.
La vicenda è narrata in prima persona dalla protagonista del libro, Rachel Benjamin, figlia
di un
rabbino [55], che vive in una comunità
di ebrei chassidici di Monhegan, nello stato di New York, un universo autosufficiente, in cui la moralità
si misura nei minimi gesti quotidiani, mentre il mondo esterno rappresenta una continua minaccia.
Rachel ha delle responsabilità: è la più grande di sette fratelli e dovrebbe
mantenere un comportamento esemplare. Rachel è una sognatrice come suo padre, che ha scritto
un testo di mistica ebraica ed è sempre in viaggio per venderlo e raccogliere i fondi per costruire
una sinagoga [56] ; Rachel vive di sogni
che riguardano uomini forti e donne innamorate, come i personaggi dei libri di Barbara Cartland [57],
Victoria Holt [58] e Charlotte Bronte
[59].
Sin dalle prime righe, l’autrice descrive magistralmente un mondo diverso, una realtà
inimmaginabile per chi non è ebreo praticante e ortodosso, che cattura subito l’attenzione
del lettore. Così comincia il romanzo:
The sound of Ma’s voice speaking English wakes me.
Something’s wrong.She’s on the phone in the middle,
of the night on Shabbat [60] (p.3)
Il fatto che sua madre stia parlando in inglese è una cosa molto insolita perché la lingua che si predilige in questo tipo di comunità è lo yiddish [61]. Infatti, quando il padre di Rachel la sente parlare in inglese le ripete sempre:
The Jews survived in Egypt because of three things. They didn’t
change their names, they didn’t change their clothes and they
didn’t change their language. Could we depend on you for our
survival? (p.24)
[54] Pearl Abraham, The Romance Reader, London,
Quartet Books, 1996; trad. it. di Paola Novarese, La lettrice di romanzi d’amore, Torino, Einaudi,
1997.
[55] Presso gli ebrei, titolo di dottore della legge e guida spirituale
e religiosa di una comunità.
[56] Luogo di culto e di studio dell’ebraismo.
[57] Barbara Cartland (1901-2000), famosa scrittrice inglese di romanzi
rosa conosciuta come “The Queen of Romance”. Instancabile narratrice di storie sentimentali,
negli anni ha pubblicato 723 romanzi tradotti in 36 lingue.
[58] Victoria Holt (1906-1993), scrittrice inglese di romanzi rosa, ha
pubblicato più di 200 romanzi, sotto diversi pseudonimi, tradotti in 20 lingue.
[59] Charlotte Bronte (1816-1855), scrittrice inglese. Visse quasi tutta
la sua vita a Haworth, fra le selvagge brughiere dello Yorkshire, accanto alle sorelle, con le quali
nel 1846 pubblicò una raccolta di poesie, dal titolo Poems. Il suo primo romanzo, The Professor,
rifiutato dagli editori, fu pubblicato postumo nel 1857. Fu quindi la seconda opera, Jane Eyre, a
rivelarla al pubblico (1847). Prima di morire di tubercolosi scrisse gli ultimi romanzi Shirley (1849)
e Villette (1853).
[60] Sabato. Giorno durante il quale è vietata qualsiasi forma
di attività lavorativa, dedicato invece al riposo, alla riflessione e allo studio di testi
sacri.
[61] Lingua popolare parlata dalla comunità ebraica; è
un dialetto tedesco che fonde antichi elementi ebraico-aramaici con altri neolatini e slavi; si scrive
in caratteri ebraici e possiede una copiosa produzione letteraria.
Il padre di Rachel spera che la sopravvivenza del popolo ebraico possa dipendere dalla generazione
della figlia, anche se è consapevole che questo sarà difficile. Inoltre, anche parlare
al telefono durante lo Shabbat è molto strano per Rachel perché in questo giorno è
vietata qualsiasi forma di attività lavorativa e l’uso dei mezzi tecnologici e ci si
dedica esclusivamente al riposo, alla riflessione e allo studio di testi sacri.
Attraverso gli occhi della protagonista, il romanzo illustra la battaglia della comunità ortodossa
per cercare di difendere la propria tradizione dalle continue tentazioni della cultura occidentale
contemporanea.
The Romance Reader è un Bildungsroman [62],
ossia un romanzo di formazione, la storia di una adolescenza femminile costantemente segnata da divieti
che si moltiplicano e si intensificano con il passare degli anni [63].
Rachel, oltre a dover leggere i libri in yiddish, deve anche indossare pesanti calze di cotone, nascondere
e mortificare il corpo, accettare un marito scelto per lei dalla sua famiglia, sottoporsi al rituale
della rasatura della testa sulla quale dovrà indossare, a vita, una parrucca.
[62] Susanna Nirenstein, “Una donna contro
l’ortodossia”, La Repubblica, 9 settembre, 2000, p.w. 1/7.
[63] Maria Antonietta Saracino, “La doppia vita di Rachel, libera
peccatrice”, Il Manifesto, 13 novembre, 1997, p.w. 1/2.
Questa della rasatura è una delle regole che una donna chassidica deve rispettare dopo la prima notte di nozze. Anche se Rachel non ha intenzione di radersi i capelli, deve cedere all’imposizione di sua madre e una volta davanti allo specchio non riesce ad accettarsi:
…I look like a boy without peyess. I’ve never seen my head like
this. Round and small. Like Jews in concentration camps (p.256)
Nella sua famiglia conta molto l’apparire perché è un onore essere presi a modello. Così come conta molto la tradizione, che nel romanzo è rappresentata dai genitori [64]. La tradizione, infatti, con le sue regole ferree, offre una identità certa nella quale riconoscersi e una sorta di protezione nei confronti del mondo circostante; ai figli, al contrario, nati e cresciuti in una realtà americana che tollera la presenza di queste, come di altre “isole di diversità” [65], ma non le conosce e non entra in relazione con loro, una simile doppia appartenenza può risultare insopportabile, quando si ha come Rachel una viva curiosità di scoprire e fare esperienza; quando i confini imposti dalla autorità religiosa e familiare appaiono come mura insormontabili e asfissianti; quando lo stile di vita della comunità viene vissuto come punitivo e mortificante; quando ogni piccola gioia, che per la maggior parte dei suoi coetanei è innocente e consentita, a Rachel deve apparire desiderabile e lontana come un frutto proibito.
[64] Maria Serena Palieri, “Il sogno
proibito di una ragazza chassid”, L’Unità, 5 dicembre, 1997, p.w. 2/3.
[65] Maria Antonietta Saracino, “La doppia vita di Rachel, libera
peccatrice”, op. cit., p.w. 1/2.
Questo libro, dunque, è una piccola lezione di sopravvivenza, il tentativo di diventare una
ragazza “normale” in un ginepraio di obblighi e tabù [66],
lottando contro l’ipocrisia del mondo adulto e contro il doppio e insinuante controllo religioso
e maschile.
Da una parte, dunque, la comunità con le sue regole: ubbidienza e adesione che in cambio garantiscono
approvazione, l’amore della famiglia e una identità certa ma poco spendibile all’esterno.
Dall’altra l’America, la lingua inglese, la facoltà di trasgredire, di leggere,
ma forse anche di perdersi. Inoltre, il senso del peccato, la paura della libertà e il rischio
della solitudine. Fra questi due estremi si muove, con cautela e incertezza, la doppia vita di una
giovane donna che sceglie, commette errori e che si sente una peccatrice per il semplice fatto di
desiderare.
The Romance Reader è un romanzo, al femminile, sul tema del desiderio. Il desiderio di ogni
piccola cosa, anche la più comune, che proprio in quanto vietata si carica di una intensa sensualità
e fisicità. Come l’odore dei libri, quei romanzi d’amore che si assaporano lentamente,
leggendoli di notte, proibiti anche se innocenti, e che procurano un’intensa eccitazione.
[66] Maria Serena Palieri, “Il sogno proibito di una ragazza chassid”, op. cit., p.w. 2/3.
Ogni volta che Rachel si chiude in camera per leggere quei libri si sente agitata, le batte forte il cuore e ha l’impressione di morire:
...My heart leaps from its place in my chest and drops down to my toes.
This, I think, is what dying feels like (p.30)
Si sente in colpa ma nonostante tutto continua a frequentare la biblioteca, canta inni sacri di nascosto, mangia dolci allo strutto nei supermercati, anziché limitarsi al cibo kosher [67], lavora in piscina in costume e a scuola indossa calze trasparenti. Insomma, questa adolescente nonostante abbia un persistente, persecutorio senso del peccato, non coltiva una vera e propria gerarchia di ciò che è bene o male. Quando il padre viene a sapere che sua figlia si dedica alla lettura di libri goyishe [68], le chiede la ragione per la quale li preferisce a quelli scritti in yiddish:
There are so many good Yiddish books, why read books
written by someone you don’t know, some evil, dirty mind? (p.35)
La risposta della ragazza è chiara:
They’re different, they talk about regular life (p.35)
Parlano di una vita normale, che Rachel desidera avere ma che è difficile da raggiungere.
Lentamente la protagonista elabora dentro di sé pensieri che potranno renderla libera, anche
se tormentata da dolorosi sensi di colpa, contro una mentalità che non le permette di fare
cose semplicissime o di essere simpatica al conducente dell’autobus, perché è
consapevole di essere considerata “diversa” nella società americana in cui vive
ed ha l’impressione di essere odiata dagli altri:
…I’m a Jew and will remain hated (p.34)
La ragazza lotta per cercare di svincolarsi da quegli obblighi che nessuna sua coetanea deve sopportare,
e continuerà a lottare, anche quando, sposata, si renderà conto di non aver trovato
quell’amore da sogno che desiderava, quella vita diversa e ricomincerà a cercarla.
[67] Cibo conforme alle norme alimentari dell’ebraismo.
[68] Termine che deriva da goy, parola comunemente usata per designare
i non ebrei, spesso con connotazione negativa.
Quando la sua amica Elke le chiede come vorrebbe vivere e cosa la renderebbe felice, lei le risponde di non volere compromessi e di non sapere cosa vuole veramente:
…But I don’t want compromise. I don’t know what I want.
I have to find out what I want... I don’t know what I wan but I know what I don’t want
(p.284)
Il titolo del libro è la chiave del romanzo, perché, attraverso la lettura dei romanzi
d’amore, Rachel trova la sua via di fuga dalla realtà in cui è costretta a vivere.
La passione per la lettura, l’atto del leggere, il libro come oggetto d’uso ma anche di
possesso e di piacere occupano un ruolo importante in questo romanzo.
Rachel non si sente una peccatrice nel leggere i libri che invece le vengono proibiti dai genitori
e vorrebbe possederne un grande numero:
One day, I will have my own bookcase. On my shelves I’ll
have at least one book for every letter of the alphabet, with
room for more. They’ll be my books... (p.39)
Un altro tema dominante, oltre a quello della tradizione e della libertà, è il difficile
rapporto di Rachel con sua madre, che può essere descritto come un rapporto di amore-odio.
Sebbene entrambe siano nate e cresciute in famiglie chassidiche, la loro concezione della condizione
femminile è molto diversa e proprio per questo motivo nasce questo forte conflitto tra loro.
La signora Benjamin appartiene ad una famiglia ebraica, chiusa in una realtà religiosa ortodossa,
dove il ruolo della donna è quello di crescere ed educare i propri figli nel rispetto delle
regole. Il suo atteggiamento verso la figlia è molto severo e non c’è confidenza
tra loro. Questo è dovuto soprattutto al suo carattere instabile, alla sua insoddisfazione,
al non voler vivere nella località balneare di Ashley tanto isolata durante l’inverno.
Soltanto con l’arrivo dell’estate e delle vacanze a Williamsburg la signora Benjamin diventa
più dolce e comprensiva e questo lo avverte anche Rachel:
… Here in Williamsburg she’s different, and I wish we
could live here. Here she wouldn’t be so alone, without
friends. Here she’d be happy (p.94)
Williamsburg è uno dei quartieri di Brooklyn, dove dopo la Shoà si sono rifugiati molti
chassidìm per ricostituire le proprie corti e oggi è una delle più grandi comunità
chassidiche in America, soprattutto di chassidìm Satmar, che originari dell’Ungheria,
hanno stabilito la loro roccaforte in questa città dopo la seconda guerra mondiale per sfuggire
alle persecuzioni naziste.
La madre accusa Rachel di essere una sognatrice come suo padre e questo emerge soprattutto quando,
stanca di vivere in una bungalow, minaccia di suicidarsi o di andarsene in Israele con i suoi figli
più piccoli, lasciando la figlia con il padre:
…then stay with your father. You were always your father’s
daughter anyway (p.102)
La ragazza è convinta di essere un peso per sua madre e avverte tutto il suo odio:
She gets rid of me with these words. I’m not hers and never was.
I look like father’s side of the family. I am like father (p.102)
Rachel ha paura di diventare come sua madre e vuole cambiare cominciando a vedere il mondo con occhi
diversi. La ragazza prova sentimenti contrastanti verso sua madre. Alcune volte si sente in colpa
per averle disobbedito, altre invece la accusa di limitare la sua libertà e di distruggere
i suoi sogni.
The Romance Reader è un romanzo autobiografico, infatti anche la scrittrice Pearl Abraham è
figlia di un rabbino ed è cresciuta in una numerosa famiglia chassidica [69].
Come la protagonista del suo libro, l’autrice ha deciso di distaccarsi dal mondo in cui è
cresciuta ed avvicinarsi di più a quello occidentale.
Secondo quanto afferma la nostra scrittrice, Rachel le somiglia molto ma, come lei stessa tiene a
sottolineare, la protagonista del suo romanzo è più impulsiva, più coraggiosa,
è un’eroina:
“…But Rachel is impulsive in a way I’m not. I’m not so courageous. She’s somewhat of a heroine [70]”.
Dopo aver contattato l’autrice tramite posta elettronica, le ho posto una serie di domande che riguardavano i suoi romanzi ed in particolare le ho chiesto in che cosa la scrittrice si identifica con la sua protagonista e quali sono le differenze tra loro due. La scrittrice molto cortesemente ha risposto:
“Rachel is a more impulsive personality than I am. Her sense of what’s right of fairness is high, but that may be because she’s a teenager and this comes with the territory. Her need for freedom is something I do identify with, also perhaps her free spiritedness, her joy in life, her love of reading. I like to think of myself as less naive than Rachel, but of course I had a much wider experience of the world than I provided for her”.
[69] Lore Dickstein, “World of Our Mothers”,
The New York Times, Dec. 18, 1995.
[70] http://www.let.uu.nl/ams/jewamli/romance2.htm
, p.w. 1/7.
Anche Pearl Abraham, durante la sua vita, ha lottato contro gli obblighi e i divieti imposti dalla sua comunità, ma ne ha risentito in modo meno drammatico di Rachel. Rispondendo a una delle domande che le ho posto, la scrittrice spiega:
“Unlike Rachel’s story, I think of my move away from the traditional world as cumulative- a colletion of small steps- rather than sudden and dramatic. I could say that my moving away from tradition started with my education at non-Chassidic schools, where I read good literature, we had a library, ect. I didn’t give up traditional life entirely until several years after graduation from Hunter College in NYC. So you see, it was a slow process, a growing away, influenced in part by the needs of modern life”.
L’autrice dice di essere comunque orgogliosa di appartenere al mondo chassidico e non rinnega completamente le sue origini:
“I still feel the “internal rhythm” of Chassidic culture. Sunsets on Friday night means something to me, certain religious days of the year mean things to me [71]”.
[71] Shoshana Ziblatt, “The Romance Reader Reveals Dreams, Tensions of a Chassid”, Jewish Bulletin, August 18, 1995.
Il suo è un romanzo di amore ed odio verso le sue radici [72],
un prendere le distanze dalla norma imposta. La sua non è una frattura netta con la tradizione,
ma come scrive Giulio Busi nel suo articolo: “ Il suo è un succedersi di parziali dinieghi,
di difese accorte della propria femminilità” [73].
Infatti, secondo Busi, Pearl Abraham è una di quelle scrittrici, provenienti da famiglie ebraiche
ultraortodosse, che hanno deciso in parte di distaccarsi dal proprio ambiente e di integrarsi nella
società emancipata in cui vivono dove alle donna non spetta solo il ruolo di moglie e di madre,
ma può anche dedicarsi anche ad altre mansioni fuori dall’ambiente familiare.
Il romanzo si conclude con il divorzio di Rachel, la fine di quel matrimonio con Israel che le era
stato imposto. Per lei suo marito è e resterà per sempre un estraneo, anche se prova
compassione per lui perché avrebbe potuto essere felicemente sposato con un’altra. Si
sente in trappola e vorrebbe soltanto essere più felice:
It’s not his fault he ended up with me. He could have been
happily married to anyone else. For some reason, he has
terrible luck, and I wonder why. What did he do to have
such bad luck? Why is God punishing him? If only I could
forget about everything and just be happy... I am stuck,
married and stuck... (p.262)
Anche se Rachel è stata coraggiosa nel mettere fine al suo matrimonio, non si sente ancora libera e non sa ancora cosa fare.
[72]
Maria Serena Palieri, “ Il sogno proibito di una ragazza chassid”, op. cit., p.w. 3/3.
[73] Giulio Busi, “E io
mi sciolgo i capelli”, Il Sole 24 Ore, 28 aprile, 2002, p.w. 1/3.
Ora che i suoi genitori sono sereni e soddisfatti, in quanto la sinagoga è quasi finita e
presto si trasferiranno in un nuovo appartamento, più largo e spazioso del vecchio bungalow
in cui abitano, lei è tornata a casa, ma al tempo stesso è come se fosse altrove; si
sente un’estranea in famiglia e vuole andare via.
E’ consapevole che le mancheranno i suoi fratelli, la madre che accende le candele, il kiddush
[74]
di suo padre, ma li ama e non li ama, si sente diversa da loro, più moderna.
Alla fine del romanzo Rachel affida tutti i suoi dubbi alla luna e si augura di andare via da quella
casa:
I watch the moon hanging above my bedroom window and I
hope to climb walls [75]
. It is blue dark outside, and the moon
has a nose and eyes. I whisper to her. I wonder how high. I
will get before I fall (p.296).
E’ come se la luna si animasse e la chiamasse, e Rachel, che continua a porsi delle domande sul suo avvenire, le chiede quando riuscirà a risalire prima di ricadere, come si possono salvare i legami affettivi quando si sogna una vita diversa.
[74]
Consacrazione. Tradizionale benedizione sul vino che si recita il sabato e nelle festività
più importanti.
[75]
Gioco di parole sull’espressione “to climb walls”, che nella sua accezione idiomatica
significa impazzire, ma letteralmente vale arrampicarsi, uscire da un luogo chiuso e costrittivo
II.2 Giving up America: esigenza di tornare alle origini.
Giving up America [76]
è il secondo romanzo di Pearl Abraham ed è stato pubblicato in America nel 1998.
I temi affrontati in questo romanzo sono molto simili a quelli presenti in The Romance Reader: da
una parte l’America, la modernità, dall’altra la tradizione, il mondo ultraortodosso
e le regole che esso impone.
Proprio come in quello precedente, anche in questo romanzo la protagonista femminile, Deena Binet,
sente il bisogno di libertà, di evadere da una realtà che la opprime e che non la rende
felice.
Come scrive Maria Antonietta Saracino nel suo articolo: “Qui è come se la Rachel del
primo romanzo, che desiderava diventare americana in tutto e per tutto, cresciuta ed emancipata dai
rigori di un credo che sentiva troppo limitante per la sua vita di donna, rileggesse gli aspetti chiave
della cultura chassidica di appartenenza” [77].
[76] Pearl Abraham, Giving
up America, London, Quartet Books, 1998; trad. it. di Paola Novarese, America addio, Torino, Einaudi,
2000.
[77] Maria Antonietta Saracino, “Gerusalemme
a New York”, Il Manifesto, 15 febbraio, 2001, p.w. 1/2.
Deena, infatti, può essere considerata la versione adulta di Rachel [78]
: come lei, appartiene ad una famiglia chassidica originaria di Gerusalemme ed è cresciuta
in America, a New York.
Il romanzo è diviso in capitoli che portano i nomi dei mesi; tra settembre e marzo, prende
corpo “una vicenda di ordinaria inquietudine femminile” [79]
, abilmente raccontata in terza persona dalla scrittrice.
Ancora una volta il romanzo è ambientato in America e si apre con un prologo che introduce
i protagonisti, Daniel e Deena, una coppia di ebrei che, dopo appena sei mesi di fidanzamento, si
sentono pronti ad affrontare il grande passo del matrimonio; ma il padre di Deena figura molto importante,
è contrario a questa unione. A poco, però, servono le sue negative previsioni cabalistiche,
secondo le quali la somma delle lettere che formano i nomi dei protagonisti ammonta a 164, numero
che, secondo la Cabalà [80]
, corrisponde alla parola “dolore” :
The Hebrew letters of the boy’s name add up to
ninety-five, he said. Yours come to sixty- nine.
Together they make 164, the value of the word
pain, which is what this marriage will bring you (p. 4)
[78] Sarah Coleman,
“Giving up America fails to deliver 1st novel’s promise”, Jewish Bulletin, January
15, 1999, p.w. 1/2.
[79] Maria Antonietta Saracino, “Gerusalemme
a New York”, op. cit., p.w. 1/2.
[80] La Cabalà è la componente mistica
dell’ebraismo, per mezzo della quale è possibile percepire gli insegnamenti custoditi
nei versetti della Bibbia ebraica, nelle parole, nelle stesse lettere dell’alfabeto. Applicando
al testo i sistemi di interpretazione cabalistici, si scoprono autentici tesori di conoscenze spirituali
e umane. Si parte dal presupposto che ogni singola lettera dell’ Alef Beit sia uno degli elementi
base con i quali Dio ha creato il mondo. Ogni lettera possiede, dunque, determinate caratteristiche
e qualità, deducibili dal significato del suo nome, dalla sua forma, suono e valore numerico.
Il cabalismo, che ebbe origine in Provenza nel XII secolo, si diffuse soprattutto in Spagna. Il maggior
cabalista è Isaac Luria (1534-1572), di origine tedesca, che operò a Safed, nell’Alta
Galilea. Gli intenti del cabalismo erano volti a rivelare, tramite l’interpretazione dei caratteri
e dei numeri, il segreto ultimo, l’unità mistica con Dio, e il messianismo terreno.
http://www.menorah.it/articoli/cabala/cosae.htm,
p.w. 1/2.
Deena, però, non si lascia impressionare da queste parole, perché secondo i suoi calcoli, utilizzando alcuni simboli numerici, entrambi i nomi contengono in sé l’acronimo ebraico che forma la parola Dio e quindi su questo matrimonio è impressa la benedizione del Signore:
This marriage, she announced, is stamped with godliness (p. 4)
Ma il padre di Deena la rimprovera, ricordandole che il potere di interpretare i numeri
non viene dato a tutti e che vivendo in un paese come l’America, si crede che le distanze possono
essere colmate, ma presto questo matrimonio le dimostrerà il contrario.
Qui emerge una diversa visione dell’America tra il padre e la protagonista. Lui è tornato
definitivamente a Gerusalemme insieme alla sua famiglia e vuole che anche Deena li raggiunga e rimanga
lì con loro. Dopotutto, le dice, lasciare l’America e suo marito non comporta una grave
perdita perché è solo un ragazzo che arriva da una nazione qualunque:
You’re not losing any great goods, her father said.
Merely a boy from the nations of the land, nothing
special, no genius. You can do better even now. Get
yourself a divorce and come home. Work, money,
America. What do you need it for? Give it up and
come home. (p. 197).
Per Deena, invece, l’America riveste grande importanza perché è il paese in cui è cresciuta, in cui si è integrata e che sente come il suo vero luogo d’origine. Ama tutto dell’America: i negozi, le strade dove andare a correre, la musica. In alcuni momenti però Deena sente la nostalgia di Gerusalemme, specialmente in particolari periodi dell’anno o dopo aver ricevuto una lettera dai suoi genitori. Ogni volta che ne legge una, è come se sentisse il respiro caldo di suo padre, le mani pesanti appoggiate sulla sua testa:
Reading the letter, Deena felt her father’s humid breath,
as if he were right there, his heavy hands on her head.
For a moment she wanted to be in Jerusalem, which was
beautiful in September. (p. 30)
Nonostante gli avvertimenti del padre di Deena, sei anni dopo i due coniugi sono ancora
insieme e, durante il settimo anno della loro unione, comprano una vecchia casa e iniziano a ristrutturarla.
Comincia così la storia che Pearl Abraham ha messo al centro di questo romanzo. Attraverso
le vicende di Daniel e Deena, la scrittrice ci trasmette due modalità di vivere secondo i dettami
della cultura ebraica, nell’America di oggi, al tempo stesso evidenziando le contraddizioni
e incomprensioni che possono nascere quando a vivere secondo l’ortodossia, in una coppia, sia
uno solo dei due, in questo caso Daniel. Il marito, infatti, osserva più rigidamente di Deena
le regole imposte dalla sua religione, come ad esempio nutrirsi esclusivamente di cibo kosher [81]
e rispettare lo shabbat [82]
, evitando di guidare l’auto, accendere le luci o spaccare la legna.
Al contrario, Deena, proviene da una famiglia chassidica meno osservante di quella del marito [83].
Non osserva più lo shabbat e non si reca a pregare in sinagoga, perché è una
di quelle cose che le donne chassidiche non sono tenute a fare e perché nei sabati normali
solo le donne anziane si recano in questo luogo di preghiera.
Quando Deena chiede a suo marito la ragione per la quale frequenta la sinagoga, Daniel le risponde
che non c’è niente di male nel seguire una tradizione semplicemente perché esiste
e perché è quello che fanno tutti gli ebrei:
Some things you just do, Daniel said. What’s wrong with
following a tradition simply because it exists, because it’s
what Jews do, and you’re one of them? (p. 29)
Una volta anche Deena aspettava con gioia lo shabbat, le feste e le piacevano i preparativi: comprare frutta esotica, pulire la casa, le vesti bianche, i candelabri d’argento, i canti e le preghiere particolari. Ora però tutto questo non ha più significato perché lei e Daniel non sono in grado di far rivivere quelle tradizioni.
[81] (yidd.) Cibo conforme
alle norme alimentari dell’ebraismo.
[82] Sabato, giorno durante
il quale è vietata qualsiasi forma di attività lavorativa e dedicato invece al riposo,
alla riflessione, allo studio dei testi sacri.
[83] Paolo Boschi, “America addio”, Informa Quartiere,
ottobre, 2001, p.w. 1/1.
Ora per Deena il sabato rappresenta solo il giorno dei divieti: non può andare
a correre o farsi una doccia, non può ascoltare la musica o guardare la televisione, non può
viaggiare, sebbene sia cresciuta rispettando queste regole.
Il modo meccanico con cui Daniel si attiene alle leggi della sua religione alimenta il bisogno di
trasgressione di Deena.
Anche il padre della protagonista pensa che l’ortodossia pura senza gli aspetti piacevoli del
chassidismo sia estremamente arida. Il comandamento è di servire Dio in parti uguali, con amore
e con timore. Gli Ebrei ortodossi propendono per il timore. I chassidìm forse eccedono nell’amore,
che è legato alla sfera dell’emotività e pertanto più forte:
Orthodoxy without the delight of hasidism, her father warned,
is a very dry thing. The commandment is to serve God with
equal parts of love and fear. Orthodox Jews incline toward fear.
Hasidim err perhaps on the side of love, which is emotional and
therefore more powerful. (p. 30)
Forti contrasti nascono anche tra Deena e la madre di Daniel, che mettendo in discussione le sue origini chassidiche, considera il chassidismo sinonimo di ignoranza:
… Hasidic ignorance and stupidity. It was what secular German
Jews said before World War Two; now American Jews were
saying it: Ignorant Hasidim. They don’t read newspeapers, they
don’t acquire a secular education, they speak English like foreigners,
and their long black caftans [84]
, black hats, beards, and peyes [85]
attract
too much attention on the street. In the twentieth century they continue
to look like their forefathers in the Carpathian Hills. (p. 64)
[84]
Abito maschile lungo quasi fino ai piedi, aperto sul davanti e con maniche molto ampie.
[85] Peòt. Lunghe
basette arricciolate che scendono dalle tempie e sono simbolo dei canali attraverso i quali Dio fa
giungere da un lato il rigore e dall’altro la benevolenza. Per i chassidìm, rasarsi il
viso e tagliare le peòt corrisponde a un rifiuto pubblico dell’ebraismo, a una volontà
deliberata di non voler avere un aspetto da ebreo. Questo atteggiamento è stato rafforzato
dai tentativi di imporre agli ebrei, e soprattutto ai chassidìm, di tagliarsi la barba e le
peòt (Nicola I, 1796 – 1855) o di ridicolizzarli e tagliargliela a forza come nel caso
dei nazisti. I chassidìm pertanto tengono molto a mantenere la loro immagine tipica sia per
motivi mistici sia per la ferma determinazione a non farsi imporre usanze non ebraiche.
Purtroppo, il fatto di affrontare in modi diversi la quotidianità crea disagio
nella coppia e neanche ristrutturare la casa insieme serve a sanare la frattura che si è creata
nel matrimonio dei due protagonisti. Questa è una curiosa contraddizione, visto che da sempre
la casa è simbolo di stabilità ed unione. Qui, invece, la costruzione di uno spazio
comune tanto cercato, non reca più gioia ma piuttosto risentimento e stanchezza. Come scrive
Maria Antonietta Saracino: “E’ come se ogni pennellata di vernice alle pareti, ogni intervento
riparatore, che nel racconto assume un ritmo sempre più incalzante, segnasse il tratto di un
rapporto che se ne va, anziché il suo contrario” [86].
Il tema della casa è molto importante in questo romanzo e il padre di Deena, “fisicamente
lontano, ma molto presente nella vita della figlia” [87],
afferma che si può capire molto della vita e della famiglia di una persona dalla sua casa.
Se c’è una base solida, il resto della struttura non può che essere buono, non
si può cominciare a costruire senza delle fondamenta affidabili. Così avviene anche
per gli esseri umani, dipendiamo l’uno dall’altro. E’ la Torah [88]
a rappresentare l’esempio supremo; prima dell’uomo Dio creò il mondo; prima della
donna, l’uomo. Quando un uomo ed una donna costruiscono una casa, cercano di dare vita alla
loro piccola, imperfetta versione della creazione:
Much about life and family can be learned from a house.
First, a good, firm foundation is required. You don’t begin
to build without a reliable foundation. One thing depends
on the other. Human beings are also like this; we are a
dependent people, we need one another...
When man and woman build a home, they are attempting
their own small, imperfect version of creation (p. 238)
[86]
Maria Antonietta Saracino, “Gerusalemme a New York”, op. cit., p.w. 1/2.
[87] Daphne Frostchild,
“Short Takes”, Novembre 1999, www.thewag.net/1199 shtl.htm, p.w. 2/12.
[88] Termine che designa
i primi cinque libri dell’Antico Testamento, chiamati anche “Legge” o “Pentateuco”.
Ancora prima di comprarla, i due protagonisti hanno idee contrapposte riguardo la loro
casa. Daniel, che vede sempre il lato peggiore delle cose, dice che una casa vecchia come quella comporta
troppi costi ed è difficile per Deena riuscire a convincerlo ad acquistarla. Lei non sopporta
la sua prudenza eccessiva perché rallenta le cose e rende ogni decisione una tortura. Deena,
invece, non ha dubbi sulla casa; è perfetta perché tutto sembra essere al posto giusto
e, anche se mostra ancora i segni della struttura originaria, ha soltanto bisogno di un po’
di incoraggiamento, quello che manca al loro rapporto.
La ristrutturazione della casa, quindi, crea ulteriori problemi al loro rapporto e il disagio coniugale
tra Deena e Daniel, dopo sette anni di matrimonio, induce nel marito il desiderio del tradimento,
anche se vissuto con senso di colpa e in aperto contrasto con i dettami religiosi. Per Deena, invece,
questa crisi coniugale è innanzitutto fonte di domande su di sé e sulle sue scelte;
sente il bisogno di essere libera e placa questa inquietudine correndo per miglia ogni giorno.
La corsa è, insieme a quella della casa, un’altra metafora all’interno del romanzo,
perché correndo si sente libera da tutto ciò che la opprime e la rende infelice:
…She was running daily now, no off days. She ran
with a purpose, a goal, and her body was responding.
She was growing leaner and stronger (p. 131)
La corsa quindi è simbolo di libertà, di energia e soltanto correndo il corpo di Deena è felice e pieno di vitalità. Come scrive Paolo Boschi: “Grazie all’adorato jogging, un passo dopo l’altro le scivolano intorno le promesse coniugali infrante, varie delusioni professionali e lo stress imposto dall’American way of life” [89] . Quella di Deena è una ribellione istintiva contro una realtà segnata da ansie e disillusioni. Ma anche per Daniel ci sarà un cambiamento, perché il problema di conciliare la quotidianità con i dettami religiosi lo porterà a ribellarsi. Infatti, dopo che Deena abbandona il tetto coniugale, trasferendosi nell’appartamento dell’amica Karen, Daniel comincia a rifiutare gli innumerevoli divieti e le negazioni con cui l’ortodossia limita la sua vita. Comincia a non rispettare più lo shabbat, accendendo la televisione e le luci, guidando e suonando la chitarra.
[89] Paolo Boschi, “America addio”, op. cit., p.w. 1/1.
Si ribella a quella religione che, secondo lui, è progettata per deprimere le persone. Ora Daniel vuole essere ciò che ha scelto di essere, senza catene, nessuna appartenenza al popolo ebraico, nessun matrimonio. Ora si sente pronto a fare tutto quello che gli è stato impedito e vuole celebrare la sua liberazione, perché dice di essere un cittadino americano e vivrà godendo delle libertà garantite da quel paese. Niente più regole, rituali e superstizioni; niente più yarmulke [90] in testa perché dimostra a tutti che lui è un ebreo. Senza lo yarmulke, Daniel si sente un uomo libero, senza ostacoli:
Screw religion. It was designed to keep you down.
He’d do everything he shouldn’t do in this Sabbath.
He would celebrate his liberation. No more rules,
rituals, and superstitions... Without that yarmulke
on his head, he too would have. It was a stamp
marking him a Jew... With the yarmulke off, he was
free (p. 156)
Ma senza lo yarmulke in testa, Daniel è un debole, un uomo senza distinzione,
perché è stata la religione a conferirgli carattere. L’unico ad avere un carattere
deciso e forte è il padre di Deena, come scrive Sybil Steinberg nel suo articolo: “only
Deena’s father emerges as a strongly defined character” [91].
“Le esistenze di questa coppia di ebrei, in crisi, si svolgono tra una New York, raccontata
in termini di topografia sociale ed urbana - incroci di strade, caffè, uffici, spazi che i
patiti dello jogging percorrono con maniacale energia - e una Gerusalemme lontana, che proprio grazie
alla distanza appare a Deena come un luogo da scegliere, in cui ritrovarsi anche per poco, quanto
basta per rimettere in ordine i pensieri” [92].
[90] Copricapo
fisso a forma di calotta, di cotone, indossato dagli uomini ebrei. L’usanza ebraica di tenere
sempre il capo coperto pare che abbia avuto origine in Babilonia dove alcuni studiosi ritenevano che
tenere un copricapo fosse un segno di umiltà, di sottomissione a Dio. Da lì l’usanza
si estese agli ebrei di Spagna e poi durante il Medioevo a tutte le comunità ebraiche d’Europa.
Per un ebreo ortodosso pregare senza di esso e per alcuni ebrei ortodossi persino spostarsi su brevi
distanze senza di esso, costituisce un peccato. Il copricapo viene messo per ricordarsi di essere
in presenza di Dio. Naturalmente usare lo zucchetto in mezzo a non ebrei per un ebreo è anche
una maniera per contraddistinguersi e manifestare il suo orgoglio. Il copricapo lo portano anche alcune
donne ebree in certe comunità. Il tipo di copricapo indossato dagli ebrei indica il gruppo
di appartenenza. Per esempio ci sono gruppi ortodossi che indossano un cappello. Molti israeliani
indossano delle papaline lavorate a maglia, che indicano un atteggiamento aperto alla modernità.
Molti ebrei non ortodossi non indossano alcun copricapo neppure quando pregano, facendo notare che
tale usanza non è scritta nella Bibbia, e che gli ebrei in Palestina e in Europa adoravano
Dio col capo scoperto sin dalla più remota antichità fino al tardo Medioevo.
http://web.tiscali.it/lanuovavia/faq_ebrei 1.html, p.w. 1/2.
[91] Sybil Steinberg, “Giving up America”,
Publishers Weekly, August 10, 1998, p. 368.
[92] Maria Antonietta Saracino, “Gerusalemme
a New York”, op. cit., p.w. 1/2.
Infatti, come scrive la critica Saracino nel suo articolo, Pearl Abraham descrive la
città di New York minuziosamente: le strade, i negozi, la metropolitana, le case. Ci sono quartieri
che richiamano alla memoria della protagonista alcuni luoghi di Gerusalemme. Come Metropolitan Avenue,
un piccolo angolo di New York, dove c’è un supermercato buio a causa della metropolitana
che vi passa sopra. Qui le insegne dei negozi sono ingiallite, le vetrine annerite e per i negozianti
non sembra avere nessuna importanza il fatto di vivere e lavorare in questo piccolo quartiere perché
il mondo circostante assomiglia ai loro luoghi d’origine.
I due protagonisti si sentono a proprio agio nel vivere in America, ma Deena risente molto della lontananza
di Gerusalemme, della sua famiglia, dell’odore delle foglie verdi del salice e del profumo asprigno
dei cedri importati dal Marocco e dall’Algeria. Ogni mese, ogni giorno a Gerusalemme sono in
qualche modo diversi l’uno dall’altro. Si riconosce il giovedì o il venerdì
dalle grosse carpe che si vedono al mercato e dall’andirivieni frettoloso delle donne. Il venerdì
sera, prima del tramonto, il suono di un gong avverte che è ora di accendere le candele:
For a moment she wanted to be in Jerusalem, which was
beautiful in September. You didn’t need a calendar to
know that a holiday was less than a week away. On the
streets of Mea Shearim you smelled the green leaves of
the willow and the lemon scent of citron imported from
Marocco and Algeria. Every month, every day even, was
distinguished somehow... (p. 31)
Contrariamente al titolo del libro, “Giving up America”, Deena non abbandonerà
definitivamente l’America, ma la lascerà solo per un po’ di tempo: il suo viaggio
in Israele sarà soltanto una breve visita alla sua famiglia, che non vede ormai da sette anni,
e un periodo di riflessione che la aiuterà a comprendere meglio la sua vita. Deena tornerà
in America perché è lì che vuole stare e perché ormai si sente parte integrante
di questo paese. Come scrive Arlynn Nellhaus: “In Giving up America, no one gives up America.
The main character, Deena, goes - or rather flees - to her native Israel to visit her parents. But
she definitely will be back. She has embraced America, absorbed it into her soul” [93].
Il titolo quindi ha un significato ambiguo, da una parte la protagonista vuole tornare alle sue origini,
nella comunità chassidica in cui è cresciuta, dall’altra c’è la decisione
di rimanere in America, di vivere nella modernità.
Nel suo articolo, pubblicato sul Jewish Bulletin, Sarah Coleman allude al fatto che è la figura
di Daniel, il marito della protagonista, a simboleggiare il sogno americano che Deena abbandona definitivamente,
e in questo contesto il concetto di “giving up America” appare molto ironico: “In
this context, the title seems confusing. Is Daniel meant to symbolize the American dream that Deena
is giving up? If so, the notion of “giving up America” seems highly ironic” [94].
Quando Deena torna nella casa di pietra bianca del quartiere ortodosso di Gerusalemme, tutta la sua
famiglia si è riunita per accoglierla. “Tutto è come sempre, secondo il rituale
di un’esistenza apparentemente senza tempo, scandita dai ritmi di una religiosità che
ignora il presente” [95].
Per Deena, però, le regole della vita chassidica non sono ormai che semplici ombre, evocate
da un passato non più attingibile. Il suo corpo è rientrato in quell’appartamento
di Gerusalemme, ma la sua mente è altrove, in America.
[93] Arlynn
Nellhaus, “Some Keep Running”, The Jerusalem Post, January 13, 2000, p.w. 1/2.
[94] Sarah Coleman, “Giving up America fails
to deliver 1st novel’s promise”, op. cit., p.w. 2/2.
[95] Giulio Busi, “E io mi sciolgo i capelli”,
op. cit., p.w. 1/3.
E così come il romanzo si è aperto su una casa, su un’altra si chiude.
“E’ un racconto di case, americane e israeliane, emblema di differenze culturali”
[96].
La vicenda di Deena si rispecchia nell’epigrafe che si trova nelle prime pagine del romanzo:
And God said to Avram, Go to yourself from your
land, from the country of your birth, and from the house
of your father, to a land that I will show you (Genesis 12:1)
Infatti, come Abramo ha dovuto abbandonare la sua terra, il suo paese d’origine,
prima che questo diventasse una nazione grande e benedetta, così Deena lascia Gerusalemme per
tornare in America, va avanti e prosegue questo cammino, che forse un giorno la porterà a raggiungere
la felicità tanto desiderata.
Anche questo, come il primo romanzo di Pearl Abraham, è in parte autobiografico, sia per i
personaggi che per i luoghi. Come la stessa autrice afferma, ogni personaggio è parte di lei
e la scrittrice ha molte cose in comune con ognuno di essi: “Every one of them has a piece of
me, or maybe my siblings, and I have a lot to choose from” [97].
Anche la scrittrice, come la protagonista del suo romanzo, è vissuta in due città, New
York e Gerusalemme, e ha scelto di rimanere in America, comprando una casa e ristrutturandola.
[96] Maria Antonietta
Saracino, “Gerusalemme a New York”, op. cit., p.w. 2/2.
[97] Sandee Brawarsky, “A Journey Into Self”,
Publishers Weekly, August 17, 1998, p. 528.
Anche Pearl Abraham, come Deena, ha scelto di vivere nel “secular world”,
distaccandosi in parte dal mondo chassidico in cui è cresciuta e adeguandosi all’American
way of life.
Attraverso le vicende di questa coppia di ebrei, Pearl Abraham vuole chiaramente sottolineare la difficoltà
degli ebrei ortodossi nel conciliare la modernità con la propria cultura di appartenenza, e,
come nel caso di Deena, la difficile scelta da prendere tra il richiamo dell’America e la sua
esigenza di tornare alle origini.