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ALCUNE CONSIDERAZIONI SULLA STORIA DEL PAESAGGIO AGRARIO EMILIANO

Alberto Rinaldi

1. A partire dal XVI secolo, parallelamente al diffondersi del mais e della canapa, due colture bisognose, ad un tempo, di un buon grado di umidità del suolo e di un efficiente franco di coltivazioneche 1 consentisse un rapido sgrondo delle acque, la piantata padanavenne 2 acquisendo sistemazioni idrauliche permanenti, quali le cavedagne o carraiee 3 il sistema dei fossi e delle scoline4. Ad esse si aggiunse, a decorrere dalla seconda metà del XVIII secolo, la baulatura dei campi5.

La molteplicità dei fattori che influiscono sul paesaggio agrarioe 6 la loro diversa incidenza territoriale fecero sí che, come è stato posto in rilievo dapprima dall'Oliva7, e successivamente dal Serenie 8 dallo Haussmann9, nel corso dell'Ottocento si delineasse in Emilia-Romagna un processo di differenziazione delle forme della piantata, i cui risultati vedevano, intorno alla metà del Novecento, prevalere nelle province di Bologna e Ferrara la sistemazione « a cavalletto» , o « alla bolognese» , caratterizzata da due scoline che separavano i cavalletti — le strisce di terreno, larghe da tre a sei metri, sulle quali erano sistemati i filari di viti alberate — dai campi formati con una baulatura a doppio spiovente, cioè a doppia pendenza longitudinale e trasversale che permetteva lo scolo delle acque sia attraverso le cavedagne che per mezzo di due scoline scavate ai lati del campo, mentre nel resto della regione dominava la piantata « emiliano-romagnola» , i cui campi, dalla baulatura a colmo longitudinale, non avevano scoline che li separassero dalle piantate di viti alberate, per cui lo scolo delle acque era consentito solo dalle cavedagne e dai fossi perimetrali10.

Gli autori sopra menzionati non si sono, tuttavia, soffermati ad analizzare i momenti e le tappe intermedie di questo processo di evoluzione e differenziazione del paesaggio della piantata nelle varie province della regione.

Il presente lavoro si propone di approfondire questo argomento con riferimento al caso della provincia di Modena negli anni immediatamente successivi all'Unità nazionale. La ricostruzione delle linee evolutive del paesaggio agrario consentirà, come si vedrà meglio in seguito, di individuare alcuni dei caratteri peculiari dell'agricoltura modenese, che la differenziavano da quella di altre aree della Padana asciutta.

2. La Relazione sullo stato dell'agricoltura del circondario di Modena nel 1870, redatta dal locale comizio agrario per il ministero di Agricoltura, industria e commercio, delinea l'aspetto di quello che era, presumibilmente, un podere tipico della pianura modenese:

i poderi sono divisi in campi della misura ragguagliatamente di metri 35 di larghezza, su metri 78 di lunghezza. Da Settentrione e da mezzodí i campi sono divisi da spianate, larghe da metri 3,50 a metri 4, che chiamano carraie o cappezzagne. Da levante e da ponente i campi hanno solchi e acquai per lo scolo delle acque e sono divisi da strisce di terra, larghe 4 metri circa, al mezzo delle quali stanno gli alberi (per lo piú olmi), destinati a sostenere le viti11.

Risulta palese, qui, la presenza di scoline che, a destra e a sinistra di ciascun campo, lo separavano dalle strisce alberate, secondo la disposizione considerata caratteristica per l'area compresa tra Bologna e Ferrara.

Questa circostanza è confermata dalla descrizione particolareggiata di due fondi, posti l'uno a Campogalliano e l'altro a Nonantola. Il podere « Basse» di Campogalliano

èdisposto in tante quadre, lunghe m. 224 e larghe m. 17,40: separate da banchi elevati m. 0,65 sul livello delle quadre, e larghi m. 6. Su ciascuno di questi stanno due filari d'alberi distanti l'un dall'altro m. 5,20 diretti da settentrione a mezzodí i filari sono formati d'olmi e di pioppi. I primi formano il filare di levante, i secondi quello di ponente. Ciascuna pianta dista dall'altra m. 6,40; e la vite [...] vi è costantemente e copiosamente maritata [...] I filari di ponente sono stati posti per sostenere le tirelle o pendane della vite, che è maritata agli olmi di levante [...] Come mezzo di scolo ciascuna quadra ha due carraie: una dalla parte di mezzodí e l'altra da settentrione: da levante e da ponente sono due solchi morti. I fossi collettori si trovano in ottimo stato e disposti opportunamente12.

L'altro podere, il « Campazzo» di Nonantola, appartenente allo stesso proprietario, ricalcava questa descrizione, con poche differenze, relative alle dimensioni dei campi, lunghi 107 metri, ed alla composizione delle alberate, essendo entrambi i filari costituiti da alberi vitati13, intervallati da piante di pesco. Riguardo alla sistemazione idraulica, « facile è tenere sgombro quel podere dalle acque superflue per mezzo dei solchi e delle carraie [...] L'acqua delle quadre scola nelle carraie dalla parte di mezzogiorno e settentrione, e in due solchi morti dalla parte di levante e ponente» .14

Pare, quindi, che la sistemazione « a cavalletto» fosse adottata non solo nella parte orientale della provincia di Modena, come a Nonantola, vicino al Bolognese, dove sarebbe stato plausibile attendersela, ma anche in zone, come Campogalliano, limitrofe al confine reggiano.

Per comprendere la somiglianza tra le opere idrauliche riscontrate nel Modenese dopo l'Unità nazionale e quelle considerate caratteristiche della piantata « alla bolognese» , può essere utile ricordare che quest'ultima si formò intorno alla metà del XIX secolo15, quale adattamento ai terreni argillosi del Bolognese della sistemazione « a rivale» , sviluppatasi tra la seconda metà del Settecento e la prima metà dell'Ottocentonei 16 canepai di quella provincia, posti nelle terre di miglior scolo: qui una scolina, scavata al fianco del filare di viti alberate, era sufficiente a garantire un rapido sgrondo dei campi formati a padiglione.

Non cosí nei terreni argillosi, dove il maggiore grado di impermeabilità del suolo e la conseguente lentezza di scolo, provocando il ristagno delle acque intorno agli alberi, resero necessaria « l'aggiunta di una seconda scolina, in modo da isolare la piantata nel cosiddetto cavalletto, un piccolo campo largo circa 6 metri a cui si ebbe cura di dare una forte baulatura» .17

Pare logico ipotizzare che una sistemazione adatta ai terreni argillosi del Bolognese potesse essere la norma anche nel Modenese, dove la presenza di questo tipo di suolo non è meno rilevante, ma un ruolo decisivo giocarono le difficoltà che compromettevano il sistema macroidraulico dell'intera regione.

La limitata pendenza dell'intera pianura cispadana, frenando la forza delle correnti, favoriva l'accumulo di depositi fangosi sul fondo dei fiumi, e quindi l'innalzamento del loro letto. Di conseguenza, divennero necessari « argini di sempre maggiore altezza [per inalveare] i corsi fluviali il di cui letto è diventato pensile [...] I comprensori di scolo, chiusi fra queste dighe, non possono piú sgombrare le loro acque» .18

Durante i periodi di maggior bisogno, quando le piogge gonfiavano i fiumi, le acque scolatizie si disperdevano per le campagne, specie in quelle piú basse, perché le chiaviche, attraverso le quali di norma gli scoli avevano accesso ai corsi d'acqua maggiori, venivano chiuse per evitare che questi straripassero19.

Nel Modenese la piantata « a cavalletto» coesistette, ovviamente, con situazioni in cui l'adozione di quella sistemazione era incompleta o modificata: molti poderi avevano « campi rettangolari a doppio piovente [e] cavalletti ad una o due scoline» . 20In questi casi si aveva, dunque, la presenza contemporanea, nella stessa tenuta, di sistemazioni « a rivale» e « a cavalletto» .21

Una corrispondenza da Mirandola riferí che

per dare alle terre aratorie la migliore delle forme noi ne foggiamo le porche a segmento di botte, o come diciamo comunemente a quattro acque. Le piantate laterali restano esse pure in una piccola porca molto piú depressa della grande presa, e leggermente inclinata verso le carraje. È evidente che le acque della presa debbono rovesciarsi tutte contro le radici degli alberi e delle viti, e poscia lentamente da esse passare alle carraje, locché non avviene sempre [...] ma debbono ristagnare contro le piantate22.

La situazione qui descritta suggerisce l'ipotesi che il passaggio dalla sistemazione « a rivale» a quella « a cavalletto» non si fosse, nel primo decennio postunitario, ancora realizzato nella bassa pianura mirandolese.

Questi sono gli unici accenni che si è riusciti a reperire intorno alla forma assunta dai campi. Naturalmente, sarebbe scorretto generalizzare all'intera pianura modenese questo tipo di sistemazione, ma è nondimeno significativo che, in entrambi i casi, la baulatura fosse « a padiglione» e non « a colmo longitudinale» . D'altronde, la doppia scolina, la cui adozione, come si è visto, era sufficientemente diffusa da poter essere considerata come la sistemazione caratteristica del circondario di Modena, si rese necessaria per evitare il ristagno delle acque intorno alle piantate, causato, nei terreni argillosi, proprio dalla baulatura « a doppio spiovente» . Non sarebbe, pertanto, del tutto conseguente prendere atto della presenza della prima senza ipotizzare una perlomeno non sporadica adozione della seconda23.

Nella prima metà del Novecento, in seguito al miglioramento delle condizioni generali di scolo reso possibile dai grandi lavori di bonifica macro-idraulica intrapresi nella regione emiliano-romagnola a decorrere dagli ultimi due decenni del secolo precedente, la sistemazione « a cavalletto» tese vieppiú ad essere abbandonata, specialmente nei terreni di pianura posti a quota piú elevata, per fare posto di nuovo alla sistemazione « a rivale» , rimanendo caratteristica, come si è visto, delle sole province di Bologna e Ferrara24.

Nei terreni piú permeabili del Modenese e del Reggiano le doppie scoline che separavano i campi dai cavalletti e i cavalletti stessi andarono gradualmente scomparendo, sostituiti da un leggero avallamento, attraverso il quale le acque di scolo venivano convogliate direttamente alla cavedagna e, da questa, al fosso di raccolta25. Prese, cosí, forma la sistemazione « emiliano-romagnola» .

Fu proprio in queste due province che, già negli anni Trenta, incomiciò a profilarsi l'abbandono definitivo delle sistemazioni « a cavalletto» e « a rivale» ; ora l'intero morellofunzionava 26 come un grande appezzamento con un unico colmo in senso longitudinale e due ali scolanti direttamente nelle cavedagne o nei fossi di raccolta. Una sistemazione siffatta era presente in maniera piú decisa nelle zone di bonifica nelle quali erano stati impiantati nuovi sistemi irrigatori, come nei comprensori di Parmigiana-Moglia e della Bonifica Bentivoglio: qui il fosso adacquatore veniva tracciato nella linea mediana posta sul colmo del morello27.

Nella sistemazione « emiliano-romagnola» la baulatura del campo poteva essere ottenuta di regola con l'aratro lavorando « a colmare» e richiedeva, pertanto, movimenti di terra considerevolmente inferiori a quelli necessari per realizzare le piú laboriose sistemazioni « a cavalletto» e « a rivale» .28

3. Negli anni immediatamente successivi all'Unità nazionale la piantata modenese e quella bolognese presentavano, come si è visto, sistemazioni idrauliche sostanzialmente simili. Esse differivano, però, per altri aspetti.

Innanzitutto, l'olmo, il sostegno vivo della vite piú diffuso in ambedue le province29, veniva, nel Modenese, solitamente potato piú alto: l'altezza del tronco tra il suolo e i rami era, in media, di 3,60 metri, contro i 2,40 metri del Bolognese30. Questa circostanza era dovuta ai diversi indirizzi produttivi delle due province. Nel Bolognese, la diffusione della canapicoltura indusse gli agricoltori non solo ad aumentare la distanza tra i filari di alberi, che già nella seconda metà del Settecento fu portata a circa 40 metri, ma anche a limitare la crescita dei rami e, indirettamente, delle radici, il cui sviluppo era parimenti dannoso alle coltivazioni erbacee presenti sui cavalletti: di qui la scelta di far nascere piú in basso i due o tre rami risparmiati dalle intense potature31.

Nel Modenese, al contrario, il piú scarso peso della coltivazione della canapa e la piú lenta elaborazione di sistemazioni che aumentassero la produttività dei terreni cerealicoli ritardarono il diradarsi dei filari: la larghezza dei campi, che alla fine del Settecento, ai tempi del viaggio in Italia di Arthur Young, era, in media, di 25 metri32, rimaneva, intorno alla metà dell'Ottocento, pressoché inalterata33. Solo nella seconda metà del XIX secolo la distanza tra i filari raggiunse quella misura di 40 metri che nel Bolognese era la norma gia cento anni prima34.

Per tutta la prima metà dell'Ottocento si conservarono nel Modenese, pur a detrimento delle colture sottostanti la piantata e della stessa vite, potature che permettevano una rigogliosa crescita dei rami, al cui eccessivo ombreggiamento si cercò, probabilmente, di porre parziale riparo alzando il punto dal quale essi si irradiavano35.

Queste scelte furono motivate principalmente dalla maggiore importanza assunta nel Modenese, rispetto alla vicina provincia di Bologna, dall'allevamento bovino, per il quale la frasca dell'olmo costituiva, soprattutto nei mesi estivi, il principale succedaneo dei foraggi prativi36.

Questa circostanza aiuta anche a comprendere perché nel Modenese la gelsibachicoltura non riuscí mai ad assurgere ad un'importanza paragonabile a quella che aveva in Lombardia ed in altre regioni dell'Italia settentrionale37. La gelsibachicoltura avrebbe potuto acquisire un peso preminente nell'agricoltura locale solo se il gelso fosse riuscito a scalzare l'olmo quale sostegno piú diffuso della vite.

Questa potenziale evoluzione fu, però, impedita da un lato dal fatto che l'associazione del gelso con la vite risultava estremamente smungente per il terreno sottostante38, e dall'altro dall'esistenza di un trade-off riguardo all'utilizzo della frasca dell'albero di sostegno: se fosse stata utilizzata per alimentare i bachi da seta non poteva esserlo per il bestiame bovino, e viceversa. Nelle condizioni dell'agricoltura modenese della prima metà dell'Ottocento, la diffusione della coltura del gelso avrebbe, pertanto, provocato una consistente riduzione delle disponibilità foraggere, la quale avrebbe, a sua volta, colpito gravemente l'allevamento bovino.

La caratteristica peculiare della mezzadria modenese — la divisione a metà dell'apporto del bestiame bovino, spettando al colono fornire i buoi da lavoro e al concedente le vacche da latte — comportava un forte e simultaneo interessamento di ambedue i contraenti nell'allevamento bovino39. Questa circostanza costituí un ostacolo formidabile, e probabilmente determinante, alla sostituzione dell'olmo con il gelso, cosa che avvenne solo sporadicamente, rimanendo in genere i gelsi confinati ai margini dei poderi40. Essa avrebbe colpito soprattutto la parte colonica, data la minore possibilità per i mezzadri di compensare con acquisti sul mercato la minore produzione foraggera poderale. Ben si comprende, quindi, l'opposizione dei coloni nei confronti di un'innovazione che avrebbe rischiato di privarli del loro bestiame, che costituiva il maggiore capitale di cui disponevano, ciò che piú di ogni altra cosa li distingueva dai contadini poveri e dai salariati agricoli41.

Una drastica riduzione delle « scorte vive» di parte colonica avrebbe potuto, a lungo andare, mettere a repentaglio la sopravvivenza stessa dell'istituto mezzadrile. Un simile scenario non poteva essere accettato neppure dalle classi possidenti, le quali consideravano, nella loro grande maggioranza, l'istituto colonico come il principale baluardo a difesa dell'ordinamento sociale esistente42. Di qui un interesse aggiuntivo per i possidenti, di carattere politico-sociale, oltre a quello strettamente economico derivante dalla proprietà del bestiame vaccino, a non attuare la sostituzione dell'olmo con il gelso.

Un'ultima differenza tra la piantata bolognese e quella modenese riguardava le viti, che nel Bolognese venivano potate ogni anno e nel Modenese ogni due. Secondo questo sistema, la vite veniva lasciata salire sull'albero di sostegno, dopodiché i suoi tralci venivano tirati per formare i festoni, mentre nuovi tralci nascevano e, a loro volta, salivano sull'albero. Nell'anno in cui la vite non veniva potata, sia i primi che i secondi producevano uva. La primavera dell'anno successivo la vite veniva potata tagliando i vecchi festoni ed ottenendone dei nuovi per mezzo dei tralci dell'ultimo anno, che in autunno sarebbero stati i soli a fruttificare. Il ciclo poteva cosí ricominciare43.

Un sistema siffatto rendeva possibile, rispetto alla potatura annuale, una maggiore produzione di uva, ma presentava l'inconveniente di una sua diseguale maturazione, dato che l'uva cresciuta sui tralci maturava prima di quella cresciuta sui festoni, oltre che di una maggiore ombreggiatura delle colture sottostanti la piantata44.


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Alberto Rinaldi , Alcune considerazioni sulla storia del paesaggio agrario emiliano


1 Il franco di coltivazione è lo strato del suolo agrario soprastante l'ordinario pelo dell'acqua freatica che consente di avere una « massa» con regolare imbibizione atta alla coltivazione delle piante erbacee ed arboree (A.Oliva, Le sistemazioni dei terreni, 3ª ed., Bologna, 1952, p. 374).

2 La piantata è il paesaggio agrario formato da lunghi campi rettangolari, divisi da strisce di terreno sulle quali sono sistemati filari di viti alberate (ivi, pp. 36-37).

3 Le cavedagne o carraie sono strisce di terreno non arato poste alle estremità superiore ed inferiore dei campi per consentire il transito dei carri, l'inversione di marcia dell'aratro e il deflusso delle acque dal terreno coltivato ai fossi perimetrali (ivi, p. 372).

4 E. Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, 1ª ed., Bari, 1961 (5ª ed. 1991), pp. 177-179, e Id., Nota per una storia del paesaggio agrario emiliano, in R. Zangheri, a cura di, Le campagne emiliane nell'epoca moderna, Milano, 1957, pp. 35-36. Le sistemazioni idrauliche permanenti si distinguono da quelle provvisorie, che venivano fatte al momento delle semine autunnali, quando il campo restava diviso in tante porche, separate da altrettanti solchi che conducevano l'acqua nei fossatelli trasversali, dai quali defluiva nelle scoline laterali (C. Poni, Un paesaggio a due dimensioni: fossi e cavedagne nella pianura cispadana nei secoli XIV-XVIII, in Fossi e cavedagne benedicon le campagne, Bologna, 1982, pp. 29-31).

5 E. Sereni, Storia, cit., pp. 377-382; Id., Nota, cit., pp. 40-42. La baulatura è la convessità che i campi assumono grazie alle lavorazioni « a colmare» , vale a dire riportando verso il centro del terreno la terra smossa dall'aratro o le zolle scavate dalla vanga nei lavori di spurgo dei fossi e di sbancamento delle cavedagne. Essa era presente in nuce sin dal Cinquecento nei canepai bolognesi (C. Poni, Aratri e sistemazioni idrauliche nella storia dell'agricoltura bolognese, in Fossi, cit., p. 130).

6 Sono enumerati in C. Poni, Un paesaggio, cit., p. 56: il clima, la natura del terreno e la sua pendenza, le colture principali, il livello di sviluppo delle forze produttive e i rapporti di produzione prevalenti.

7 A. Oliva, op. cit., pp. 124-130.

8 E. Sereni, Storia, cit., pp. 379-282; Id., Nota, cit., pp. 40-41.

9 G. Haussmann, Il suolo nella storia d'Italia, in R. Romano e C. Vivanti, a cura di, Storia d'Italia, vol. I, I caratteri originali, Torino, 1972, p. 97.

10 Nella pianura veneta, invece, si affermò un terzo tipo di sistemazione, detta « a cavini» , caratterizzata da una baulatura a colmo trasversale. A differenza di quanto avveniva nella sistemazione « a cavalletto» , la striscia di terreno su cui era sistemato il filare di viti alberate non era affiancata da doppie scoline che la separassero dai campi destinati alle colture arative. La caratteristica principale della sistemazione « a cavini» era proprio la forte baulatura a colmo trasversale, che assicurava lo sgrondo delle acque verso le ristrette cavedagne — larghe non piú di 2-2,50 metri — situate lungo le testate dei campi (E. Sereni, Storia, cit., pp. 380-381; G. Haussmann, op. cit., p. 97, e M. Berengo, L'agricoltura veneta dalla caduta della repubblica all'unità, Milano, 1963, pp. 235-236).

11 « Bullettino del Comizio agrario di Modena» , VII, 1872, n. 1/4, p. 3. Il « Bullettino del Comizio agrario di Modena» uscí dal 1866 al 1872, dopo di che la sua pubblicazione fu interrotta per sei anni, e riprese solo nell'aprile del 1878. Nel settembre dello stesso anno il suo nome fu mutato in « Bollettino del Comizio agrario e della Stazione agraria sperimentale» , e nell'aprile del 1881 divenne « Bollettino del Comizio agrario, della Stazione agraria sperimentale e della Consociazione italiana pel miglioramento d'animali da cortile, frutta ed ortaggi» .

12 « Bullettino del Comizio agrario di Modena» , IV, 1869, n. 9/10, pp. 130-131. La larghezza dimezzata rispetto al podere tipico, compensata dalla maggiore lunghezza, era probabilmente da mettere in relazione alla possibilità di coltivare un maggior numero di viti.

13 Nel Modenese, cosí come nella vicina provincia di Reggio Emilia, la presenza di cavalletti con doppio filare era abbastanza frequente ancora negli anni Trenta di questo secolo (L. Perdisa, Monografia economico-agraria dell'Emilia, Faenza, 1938, p. 115). Nel Bolognese, invece, questo tipo di sistemazione incominciò ad essere abbandonato sin dalla seconda metà del Settecento, parallelamente al diffondersi della baulatura a padiglione che, accrescendo la produttività dei terreni, indusse gli agricoltori a diradare la densità dell'alberatura che comprometteva le colture erbacee. Tale processo fu tanto piú intenso quanto maggiore era la fertilità dei suoli e la redditività delle colture, come nei canepai di quella provincia (C. Poni, Aratri, cit., pp. 135-136).

14 « Bullettino del Comizio agrario di Modena» , IV, 1869, n. 9/10, p. 133.

15 C. Poni, Aratri, cit., pp. 130-139.

16 Grazie anche alle bonifiche della seconda metà del Settecento; in predecenza la situazione del sistema macroidraulico era compromessa a tal punto che la diffusione su vasta scala di sistemazioni piú efficaci avrebbe avuto solo conseguenze negative per i terreni (ivi, pp. 130-131).

17 Ivi, p. 139. La sistemazione « a cavalletto» quale caso particolare della piú diffusa sistemazione « a rivale» è confermato, per gli anni intorno alla metà del XIX secolo, dal Berti Pichat, il quale, per illustrare il « metodo bolognese» , utilizzò la figura di un podere con una sola scolina per ogni campo (C. Berti Pichat, Istituzioni scientifiche ossia Corso teorico e pratico di agricoltura, vol. III, libro XIII, Torino, 1851, pp. 988-989) e, al paragrafo Doppio Metodo, scrisse: « altre volte però si usa uno scolino in piú [...] In questo caso le piantate rimangono tra due scolini, e formasi la striscia di terreno fra i medesimi a superficie pure convessa, analogamente a quella dei campi» (ivi, p. 990).

18 Atti della Giunta per la Inchiesta agraria e sulle condizioni della classe agricola, vol. II, fasc. I, Relazione del Commissario, Marchese Luigi Tanari, Senatore del Regno, sulla Sesta Circoscrizione (Provincie di Forlí, Ravenna, Ferrara, Modena, Reggio-Emilia e Parma), Roma, 1881, p. 102.

19 Tale inconveniente era particolarmente grave nella valle di Burana, un'area di 72.000 ettari distribuiti tra le province di Modena (45.000 ha), Ferrara (11.000 ha) e Mantova (16.000 ha). La bonifica della valle di Burana, progettata una prima volta nel 1811 e abbandonata dopo la caduta del Regno italico, fu realizzata solo a partire dal 1884 (T. Isenburg, Investimenti di capitale e organizzazione di classe nelle bonifiche ferraresi[1872-1901], Firenze, 1971, p. 9).

20 « Bollettino del Comizio agrario, della Stazione agraria sperimentale e della Consociazione italiana pel miglioramento d'animali da cortile, frutta ed ortaggi» , XI, 1881, n. 18, p. 229.

21 In mancanza di riferimenti al tipo di terreno e alle coltivazioni praticate, non è possibile formulare ipotesi sui criteri che guidarono all'adozione, di volta in volta, di una o due scoline.

22 « Bullettino del Comizio agrario di Modena» , II, 1867, n. 12, p. 224.

23 Questa considerazione può implicare da un lato l'ipotesi che l'evoluzione del paesaggio agrario bolognese si riproducesse pari pari nel Modenese, come indurrebbe a ritenere la corrispondenza da Mirandola. Dall'altro lato, però, non si può escludere l'ipotesi opposta, cioè di condizioni proprie del Modenese che potrebbero avere condotto all'adozione della doppia scolina in contesti diversi: un esempio in tal senso è dato dai due poderi di Campogalliano e Nonantola, dove essa era presente in terreni di buona permeabilità (sciolti), a causa della condizione delle aree su cui i fondi furono impiantati: nel primo caso un antico alveo del fiume Secchia « in gran parte acquitrinoso, tutto di scolo difficilissimo» (« Bullettino del Comizio agrario di Modena» IV, 1869, n. 910, p. 126) e nel secondo un « terreno qua e là paludoso [e] soggetto a inondazioni frequenti» (ivi, p. 133).

24 L. Perdisa, op. cit., pp. 112-113.

25 Ivi, p. 115.

26 Un morello è un insieme di campi orientati nella medesima direzione, che formano un subsistema microidraulico (C. Poni, Un paesaggio, cit., p. 29).

27 L. Perdisa, op. cit., p. 115.

28 A. Oliva, op. cit., pp. 73-74.

29 In taluni casi questa funzione era svolta anche dall'acero, gelso, pioppo, noce, frassino e alberi da frutta in genere (ivi, p. 106).

30 « Bullettino del Comizio agrario di Modena» , II, 1867, n. 3, pp. 51-59.

31 C. Poni, Aratri, cit., pp. 135-136. Su questo punto si veda, inoltre, F. Cazzola, Il paesaggio agrario emiliano: permanenze e trasformazioni, in « Annali dell'Istituto Alcide Cervi» , n. 10, Bologna, 1988, p. 234. Sul ruolo preminente, sin dal XVIII secolo, della coltura canapicola nel Bolognese, si veda pure R. Zangheri, Per lo studio dell'agricoltura bolognese nel Settecento, in Agricoltura e contadini nella storia d'Italia, Torino, 1977, pp. 151-157.

32 A. Young, Travels during the Years 1787, 1788 and 1789...,vol. II, 2nd ed., London, 1794, p. 216.

33 C. Roncaglia, Statistica generale degli Stati Estensi, vol. II, Modena, 1850, p. 120.

34 « Bullettino del Comizio agrario di Modena» , VII, 1872, n. 1/4, p. 3. In Toscana, invece — dove non vennero, però, realizzate opere di sistemazione idraulica permanente del suolo paragonabili a quelle attuate in Emilia-Romagna — si verificò il fenomeno opposto, ossia un restringimento dei campi, che da misure di 60 metri di larghezza e 240-300 metri di lunghezza all'inizio dell'Ottocento scesero, cent'anni dopo, a dimensioni comprese tra 16 e 30 metri larghezza e 60 e 80 metri di lunghezza (C. Pazzagli, L'agricoltura toscana nella prima metà dell'Ottocento. Tecniche di produzione e rapporti mezzadrili, Firenze, 1973, pp. 13-14).

35 La diversa intensità della potatura influiva sul valore dei terreni alberati, poiché consentiva di prolungare sino ad 80 anni la vita media dell'olmo nel Modenese, laddove essa non superava i 65 anni in provincia di Bologna (C. Poni, Aratri, cit., p. 136, e C. Berti Pichat, op. cit., vol. II, libro X, p. 772).

36 E. Sereni, Nota, cit., pp. 45 e 52.

37 Sullo sviluppo della gelsibachicoltura in Lombardia tra la seconda metà del Settecento e la prima metà dell'Ottocento, si vedano K. R. Greenfield, Economia e liberalismo nel Risorgimento. Il movimento nazionale in Lombardia dal 1814 al 1848, Bari, 1985, pp. 56-78; G. Luzzatto, Storia economica dell'età moderna e contemporanea, 4ª ed., Padova, 1960, pp. 164-165 e 247-249; M. Romani, L'agricoltura in Lombardia dal periodo delle riforme al 1859, Milano, 1957, pp. 43-46, 87-89, 196-199 e 236-240; Id., Storia economica d'Italia nel secolo XIX, Bologna, 1982, pp. 29-30, 45-46, 55-59 e 64-65; B. Caizzi, L'economia lombarda durante la Restaurazione (1814-1859), Milano, 1972, pp. 16-17; F. Della Peruta, Le campagne lombarde nel Risorgimento, in Democrazia e socialismo nel Risorgimento, Roma, 1973, pp. 42-51; L. Cafagna, La « rivoluzione agraria» in Lombardia, in Dualismo e sviluppo nella storia d'Italia, 2ª ed., Venezia, 1990, pp. 103-112; L. Trezzi, I modi di coinvolgimento nello sviluppo economico europeo (1815-1848), in S. Zaninelli, a cura di, L'Ottocento economico italiano, Bologna, 1993, pp. 133 e 144-145; P. Corner, Contadini e industrializzazione. Società rurale e impresa in Italia dal 1840 al 1940, Bari, 1993, pp. 37-51. La minore rilevanza della gelsibachicoltura nel Modenese rispetto ad altre aree dell'Italia settentrionale è attestata da piú fonti. All'inizio dell'Ottocento, una memoria presentata alla Società agraria del dipartimento del Panaro rilevò come « assai scarse sono le piantagioni de' Gelsi in questo dipartimento, e quelli che vi esistono sono per lo piú rognosi, mutilati, racchitici [ sic], malamente ritorti ed incurati ne' rami, ridotti insomma a tale stato che poco conto può farsi del loro prodotto» (Archivio dell'Accademia di scienze, lettere ed arti di Modena, Società agraria, b. I, Memoria sopra i Gelsi, letta nel maggio 1808 dal socio Giacomo Pagani). Dello stesso tenore, alcuni anni piú tardi, la testimonianza del segretario della Società, Luigi Savani, secondo il quale la coltivazione dei gelsi nel Modenese « trovasi ora in una somma decadenza, e quasi direi in un dispettoso abbandono» (L. Savani, Della coltivazione de' Gelsi nel modenese, in « Annali dell'agricoltura del Regno d'Italia» , 1814, t. XXII, pp. 117-118). Queste considerazioni paiono trovare conferma nei dati riportati dal Tarle, secondo i quali il dipartimento del Panaro produceva annualmente circa 30.000 libbre di seta grezza, contro le 195.000 del dipartimento del Lario, le 443.000 di quello del Reno e le 500.000 di quello del Mella (E. V. Tarle, La vita economica dell'Italia nell'età napoleonica, Torino, 1950, pp. 267-269). Intorno alla metà del secolo, la situazione non pareva mutata; il consultore Roncaglia calcolò, infatti, che nelle campagne modenesi fossero presenti, per ogni ettaro di superficie, 48 viti, 41 olmi, 7 pioppi, 3 aceri e solamente 2 gelsi (C. Roncaglia, op. cit., vol. II, p. 238).

38 M. Berengo, op. cit., p. 295.

39 C. Poni, Aspetti e problemi dell'agricoltura modenese dall'età delle riforme alla fine della restaurazione, in Fossi, cit., pp. 189-190. La mezzadria modenese si distingueva, al riguardo, dai patti vigenti nella vicina provincia di Bologna, dove, almeno sin verso la metà dell'Ottocento, il bestiame bovino era di norma apportato interamente dai coloni (Id., Carlo Berti Pichat e i problemi economici e sociali della campagna bolognese dal 1840 al 1848, ivi, p. 263). In Lombardia, nei grandi poderi lavorati da famiglie di massari, formate anche da tre o quattro coppie nuziali, il bestiame era pure solitamente di parte colonica; la situazione cambiava, però, nei piccoli appezzamenti concessi, sulla base di contratti misti di fitto a grano e mezzadria, a famiglie di pigionali, solitamente mononucleari, le quali, in genere, non possedevano bestiame e dovevano, pertanto, affittarlo dai massari piú agiati o dallo stesso concedente (M. Romani, L'agricoltura, cit., pp. 88-89). In Toscana, invece, il bestiame bovino era, in genere, apportato per intero dal concedente (C. Pazzagli, op. cit., p. 484).

40 La subordinazione in cui, nel Modenese, l'allevamento del baco da seta era tenuto rispetto a quello del bestiame bovino emerge nitidamente dalla citata Memoria sopra i Gelsi presentata alla Società agraria del dipartimento del Panaro, laddove si rileva che « alcuni talora sfrondano i gelsi due volte l'anno, l'una in primavera per alimentare i bachi da seta, e l'altra nel fine della state [ sic] per dar la foglia al bestiame. Non è quindi da stupirsi se presto i gelsi intristiscono e periscono per mancanza di nutrimento» (Archivio dell'Accademia di scienze, lettere ed arti di Modena, Società agraria, b. I, Memoria, cit.).

41 C. Poni, Aspetti, cit., p. 190.

42 Ivi, pp. 231-232.

43 « Bullettino del Comizio agrario di Modena» , II, 1867, n. 3, p. 53.

44 Ibidem.