next essayprevious article indice volumeStudi Storici 2, aprile-giugno 1995 anno 36


RIFORME FISCALI E CRISI POLITICHE NELLA FRANCIA DI LUIGI XV

Paolo Alatri

Da dove John Rogister giunge nel recente primo volume della sua opera su Louis XV and the « Parlement» of Paris(Cambridge University Press), cioè dal 1753-54, prende le mosse Antonella Alimento nel suo lavoro su Riforme fiscali e crisi politiche nella Francia di Luigi XV. Dalla « taille tarif&eacutee» al catasto generale(Firenze, Olschki, s.a., ma 1995). Caratteristica del suo volume è l'aver concentrato l'attenzione sul problema finanziario e fiscale e aver dedicato all'altro tema maggiore di questi anni, cioè le questioni ecclesiastiche e religiose, niente piú che qualche accenno.

In compenso, sul suo tema centrale l'autrice conduce un'indagine assai approfondita e dettagliata, anche lei, come Rogister, non accontentandosi di utilizzare la letteratura documentaria e critica pubblicata, che pure è piuttosto vasta, ma andando a frugare negli archivi di Francia per verificare e soprattutto per ampliare - e di molto - le conoscenze già acquisite. Desta ammirazione che una studiosa relativamente giovane come è la Alimento sia stata capace di produrre un'opera cosí solida, ricca e complessa, frutto di molto lavoro di scavo archivistico, di riflessione critica e di esposizione efficace degli intricati viluppi che negli anni 1753/54-1763/64 (è il decennio qui preso in considerazione) vedono il re, i suoi governi, i parlamenti e le altre « corti sovrane» , i pari di Francia, la burocrazia ministeriale, i teorici della monarchia d' ancien r&eacutegime accordarsi o scontrarsi in una sempre cangiante loro posizione nella scacchiera politica.

La Alimento, allieva di Mario Mirri, aderisce a quella corrente storiografica (di cui è esponente anche Eugenio Di Rienzo, il cui Morellet abbiamo recensito in questa rivista, n. 3, luglio-settembre 1994) che nello studio della Francia settecentesca, piú che ai « grandi» della philosophie, guarda al personale amministrativo - dai controllori delle finanze ai loro « commis» e funzionari - per individuare uno sforzo riformistico tenace e concreto. Nomi come quelli di Montesquieu, di Voltaire o di Diderot quasi non compaiono nel libro della Alimento, nel quale pullula invece una miriade di personaggi degli ingranaggi governativi e amministrativi, dei quali alcuni certamente già abbastanza noti, anche se per lo piú quasi assenti nelle grandi ricostruzioni del secolo, ma molti altri finora pressoché sconosciuti.

Dice molto bene Mirri, nella premessa di questo libro, che l'originario interesse della Alimento per il pensiero e il movimento fisiocratico è stato successivamente - come questo suo lavoro dimostra - « riassorbito in una ricerca piú ampia centrata sui tentativi di elaborare concrete proposte di riforme fiscali applicabili alla Francia: sicché l'attenzione veniva spostata dal dibattito delle idee ai problemi avvertiti all'interno dell'amministrazione e alle elaborazioni che nascevano dall'interno del Contrôle g&eacuten&eacuteral des finances. Una scelta di questo tipo costringeva, indubbiamente, a fare i conti con il problema della "monarchia amministrativa", assumendo preliminarmente l'idea che erano state le esigenze finanziarie del sovrano ad indurlo ad una "rivoluzione" nell'organizzazione dell'apparato statale, imperniata su un "ministero delle finanze" capace di dirigere e coordinare tutta la politica finanziaria e fiscale, in connessione con il resto della politica economica, commerciale, industriale ed agricola. Punto focale della ricerca diveniva cosí, per questa parte, il Contrôle g&eacuten&eacuteral des finances, nell'ambito del quale operavano spesso personalità competenti, colte e di idee avanzate, disponibili ad adottare proposte di riforma (e di riforme fiscali), capaci di risolvere almeno alcune delle contraddizioni da cui la monarchia era investita» .

Certo, quei tentativi, anche se non sempre e non completamente, fallirono, soprattutto per il complicato assetto costituzionale della società francese d' ancien r&eacutegime, con il suo alto tasso di litigiosità tra le sue diverse componenti: in particolare, i Corpi, i parlamenti e le altre « corti sovrane» divenivano i centri della resistenza e i canali attraverso i quali reagivano interessi, forze e consuetudini, colpiti dalle diverse prospettive di riforma. In questa lotta, attraverso la nuova documentazione prodotta dalla Alimento, prende uno straordinario - e nuovo - rilievo il partito giansenista.

Come l'autrice stessa dichiara nell'introduzione, il primo dei nuclei tematici della sua ricerca è costituito dallo studio delle motivazioni che spinsero a lanciare un progetto di catasto generale, in particolare di coloro che piú lo sostennero, il dibattito intorno alle scelte tecniche con le quali procedere alla misurazione e alla stima delle terre, e il confronto sui contesti istituzionali entro cui inserire il catasto, una volta realizzato. Il secondo nucleo tematico del libro è rappresentato dalle resistenze che bloccarono in Francia la realizzazione del catasto generale prima dell'arrivo di Napoleone sulla scena politica. Nell'affossare il progetto catastale giocò l'accanita resistenza della justice r&eacutegl&eacutee: agli occhi degli Stati provinciali, dei parlamenti e delle Cours des aides quel progetto perequatore e livellatore, che avrebbe colpito anche nobili ed ecclesiastici fino ad allora esentati dalle tasse, rappresentava l'ultimo tassello di quel « dispotismo ministeriale» che scardinava gli equilibri sociali e politici esistenti. Ma in proposito la Alimento non si è accontentata di indicare una generica opposizione parlamentare, bensí, analizzando il comportamento e le proposte dei singoli magistrati e funzionari, ha potuto identificare all'interno del parlamento parigino la presenza di almeno due gruppi contrapposti, quello filogiansenista e quello filogesuita, e perfino differenze di posizioni e comportamenti all'interno di ciascuno dei due gruppi, differenze la cui scoperta ha indotto l'autrice, per sua stessa ammissione, a modificare un suo precedente pi&uacutesommario e semplicistico giudizio sul contrasto tra detentori di offices e incaricati di commissions.

Qui troviamo uno dei rari accenni all'intreccio tra questioni finanziarie e fiscali da una parte e questioni ecclesiastiche e religiose dall'altra, in quanto - nota l'autrice - « l'editto catastale venne emanato in un clima fortemente ideologizzato, quello suscitato dal processo aperto dal "partito giansenista" contro l'Ordine dei gesuiti, giunto ormai al suo epilogo» (e un altro accenno riguarda l'endemica resistenza all'accettazione della bolla pontificia Unigenitus come articolo di fede, legge della Chiesa e dello Stato: resistenza contro la quale alla fine del 1756 il governo ricorse alla forza con un nuovo regolamento disciplinare imposto al Parlamento di Parigi per scardinare il peso delle Camere delle Enquêtes e delle Requêtes, nelle quali si asserragliava il partito giansenista, soprattutto diffuso tra i magistrati piú giovani).

Si deve proprio allo scontro tra questi due partiti, l'uno, quello giansenista, portatore di valori che si possono definire liberali, e l'altro, quello gesuita, portatore di valori conservatori e in alcuni casi reazionari, non solo il naufragio del progetto catastale, ma l'apertura di una crisi politica che, per la sua radicalità e vastità, venne avvertita dagli stessi contemporanei come uno spartiacque nella vita politica della stessa monarchia.

Infine il terzo ed ultimo nucleo tematico del presente lavoro è costituito dall'analisi delle aspirazioni e dei progetti politici dei membri del governo e della corte, presso cui mancò la volontà politica di condurre in porto le progettate riforme. Il partito giansenista ebbe la meglio sull'amministrazione, a cui sottrasse l'iniziativa catastale, e poté imporre, fino al cosiddetto « colpo di Stato» del cancelliere Maupeou nel 1770-71, la politica della concertazione in campo fiscale perché giocò sulle divisioni che esistevano all'interno del governo e della stessa corte.

Tutto il primo capitolo del libro ( Le istituzioni e gli amministratori) è dedicato a illustrare il quadro strutturale entro il quale si svolgeva la dialettica politica relativa al fisco. Importante, per esempio, la notazione che, mentre il controllore generale delle finanze esercitava la propria carica provvisto di una commission, gli intendenti delle finanze, che attorniavano il controllore e con lui collaboravano, erano proprietari del loro office: importante, perché ciò spiega la facilità con cui il primo poteva essere destituito (come accadde con straordinaria frequenza in quegli anni) o a causa di contrasti con gli altri componenti del governo o per sedare l'opposizione che i parlamenti e le corti sovrane sempre piú nel corso del Settecento palesarono nei confronti di quell'aggressivo ministro. Ma l'instabilità del capo delle finanze veniva compensata dalla stabilità degli intendenti, che, possedendo la carica en titre d'office, erano praticamente inamovibili, perché non si disponeva del denaro necessario per riscattare le loro cariche. Il ministro poteva certamente imprimere il proprio segno all'amministrazione delle finanze, a seconda dei suoi personali orientamenti e convinzioni; ma egli doveva convivere con il personale in carica, come si è detto inamovibile, e subirne i condizionamenti, tanto piú pesanti se si considera la grande autonomia, la competenza e l'esperienza posseduta dai premiers commis e dagli intendenti di finanza, di fronte all'inesperienza palesata spesso dai nuovi ministri, scelti, come avvenne per esempio al termine della guerra dei Sette anni, tra il personale delle corti sovrane al fine di arginare l'opposizione parlamentare.

La ricostruzione della Alimento prende le mosse dal vingti&egraveme, un'imposta proporzionale sulla proprietà creata dopo la pace di Aix la Chapelle. Era una novità, e rappresentò una rottura della consuetudine, che si creasse una nuova imposta, non in tempo di guerra, ma proprio all'indomani della firma della pace. Di lí prese il via tutto un seguito di lotte e di schermaglie tra il potere sovrano e i centri di potere delegato o decentrato, che avrebbero riaperto ferite in precedenza apparentemente rimarginate, ma di lí sorsero anche molti progetti di riforma finanziaria per ottenere una piú giusta ripartizione dei carichi fiscali.

Il coordinatore di una serie di iniziative che tendevano a dare una base razionale al prelievo diretto era divenuto, ancor prima della conclusione della guerra dei Sette anni, il controllore generale delle finanze; ma il perseguimento di quell'obiettivo cozzava irrimediabilmente con l'esistenza di privilegi di ogni tipo di cui godevano gli ecclesiastici, i nobili, gli esenti perché cittadini di città franche, intere regioni, e l'opposizione di questi ceti trovò sempre piú una cassa di risonanza negli organi della justice r&eacutegl&eacutee: le Cours des aides e i parlamenti. I quali, dopo essere stati scavalcati dagli Stati provinciali nell'opposizione al vingti&egraveme, diventano i protagonisti del sabotaggio di una riforma fiscale che, prevedendo la creazione del primo catasto generale del regno, era lo sviluppo coerente della linea di intervento fino ad allora seguita. Le remontrances presentate il 16 luglio 1763 dal parlamento di Normandia contro l'editto dell'aprile di quell'anno che annunciava la creazione di un catasto generale, si collocano nel pieno di una tra le piú gravi crisi politiche, oltre che finanziarie, che la Francia abbia attraversato.

Vale la pena di notare che coloro che piú si impegnarono nello studio di quello che doveva essere il catasto generale, e la sua applicazione inFrancia, guardarono, per averne lumi, oltre che a Vienna, a Torino, a Milano, a Firenze, dove negli stessi anni si procedeva, da quel punto di vista, piú speditamente che a Parigi, sicché l'Italia offrí per quei progetti un modello.

Non è possibile, naturalmente, seguire qui tutti i d&eacutetours che, anche nel giro di quei pochi anni, mutarono piú volte i fronti contrapposti, ne determinarono successi e sconfitte, ne provocarono alleanze di volta in volta sancite e disfatte. Ci basti soffermarci su alcuni punti nodali. Uno dei quali è il contrasto tra due delle maggiori personalità del tempo, il controllore generale delle finanze Bertin e il ministro degli Esteri (ma di fatto primo ministro) duca di Choiseul. Durissimo, il primo, nei confronti dei parlamenti; disposto il secondo, pur di ottenere l'accettazione dei nuovi editti fiscali cosí necessari per le nuove esigenze della guerra in corso, a garantire un'accondiscendenza del governo nei confronti delle iniziative che il parlamento di Parigi aveva intenzione di intraprendere contro l'Ordine dei gesuiti.

Un secondo punto riguarda la posizione del re e la concezione della monarchia. È significativo che in questo periodo si cominci a parlare di « princ&iacutepi anglicani» e di « parlamento d'Inghilterra» : sempre piú il parlamento di Parigi (e, attraverso la teoria della « unione delle classi» , teoria che guadagna sempre piú terreno, tutti i tredici parlamenti considerati come un solo organismo) pretende di essere l'omologo della Camera dei Comuni londinese, cioè l'assemblea rappresentativa della nazione, con poteri che sfiorano quelli legislativi (dimenticando che i magistrati parigini, al contrario dei deputati londinesi, non erano elettivi). Nelle rimostranze iterative del 20 luglio 1760, per esempio, il parlamento di Rouen (di cui la Alimento documenta lo stretto legame e la concertazione con il parlamento di Parigi) chiese come condizione per registrare l'editto fiscale ad esso presentato di essere messo in grado di valutare la situazione finanziaria attraverso la convocazione dei suoi Stati provinciali, non piú riuniti dal 1655. A suo giudizio l'essenza di una legge consisteva nel fatto di essere accettata, e il diritto di accettare competeva alla nazione. « In questo modo - osserva la Alimento - la corte elaborò un concetto di nazione che non si identificava piú con il volere del re» . E come osservò J. N. Moreau, che il controllore Bertin chiamò a collaborare nella battaglia ideologica contro le corti sovrane, voler sottoporre le leggi emanate dal re al consenso dei soggetti era quanto di piú contrario si potesse immaginare al principio monarchico, poiché equivaleva a sottoporre lo stesso operato del re al giudizio dei sudditi. A nostra volta osserviamo però che qui la monarchia assoluta entrava in conflitto con la piú moderna concezione del diritto pubblico, che, basata proprio sul concetto del consenso dei cittadini (non piú sudditi) alle richieste del potere esecutivo, era destinata a trionfare sulle ceneri dell' ancien r&eacutegime.

Era il partito giansenista, che, conquistata l'egemonia sul terreno religioso nella lotta contro l'Ordine dei gesuiti, la estendeva sul terreno politico attraverso l'elaborazione di quel « costituzionalismo parlamentare» che indubbiamente sottraeva autorità e sacralità alla figura del re. Se, nella lotta contro i parlamenti, il re era paralizzato dal rispetto delle istituzioni esistenti, il controllore generale delle finanze, a sua volta, e perciò il governo, era limitato, nelle sue possibilità di usare la maniera forte, dalla necessità assoluta, inderogabile ed urgente di far passare attraverso le corti la registrazione degli editti fiscali, e quindi l'affluenza di denaro nelle casse dello Stato. Anche perché il risanamento delle finanze era la condizione per ottenere quei crediti, non solo all'interno ma anche e soprattutto dall'estero, che stentavano ad affluire o non affluivano affatto finché la situazione sia finanziaria che politica della Francia appariva tanto confusa e dalle prospettive cosí incerte (singolare analogia con la situazione in cui si trova oggi l'Italia). Anche gli estremi tentativi di far accettare gli editti fiscali dai diversi parlamenti attraverso i lits de justice, con la partecipazione personale del re o dei suoi rappresentanti nelle province, partecipazione che sottraeva alle corti il diritto di discuterli, s'imbatté in una serie di ostacoli e perfino di sconfitte (basti pensare che il duca Fitz-James, comandante militare della Linguadoca, fu addirittura arrestato e imprigionato da quel parlamento, e a complicare le cose intervenne allora una nuova componente della vita istituzionale e politica, costituita dai duchi e dai principi di sangue). Di conseguenza, la linea della fermezza dové battere in ritirata e cedere il campo a quella parte della classe dirigente che, capeggiata dal duca di Choiseul, era favorevole a una politica di m&eacutenagements e di conciliazione con i parlamenti. Tanto piú che la collaborazione fiscale tra partito giansenista e governo favoriva la lotta contro l'Ordine dei gesuiti e la sua distruzione. Ebbe cosí inizio la « concertazione» : di fronte all'ostilità dei parlamenti nei confronti dei suoi editti, con conseguente blocco dell'autorità giudiziaria, il governo accettò di negoziare e il parlamento riprese i lavori, perché i provvedimenti originari vennero modificati accogliendo le sue critiche, oppure vennero ritirati. La conciliazione, sancita dalla dichiarazione reale del 21 novembre 1763, rappresentò peraltro - scrive la Alimento - « una forte perdita di autorevolezza da parte del governo e dello stesso sovrano, e la sostanza della conciliazione fu ancora piú densa di significato politico perché i parlamenti non ottennero soltanto una vittoria parziale, ovvero il ritiro di un provvedimento, ma costrinsero il governo a riconoscere la loro autorità in campo fiscale» . La conclusione dell'accordo tra governo e parlamenti fu accompagnata da una nuova « legge del silenzio» a dieci anni da quella del 2 settembre 1754 a proposito della Unigenitus e dei billets de confession. Nella registrazione delle lettere patenti sul silenzio si intrecciarono nuovamente i due problemi che avevano animato la vita politica francese durante la guerra dei Sette anni, quello ecclesiastico-religioso e quello politico-finanziario: un intreccio che aveva radicalizzato le prese di posizione contrapposte, anche a causa della presenza attiva, per la prima volta, dei duchi e dei principi di sangue.

L'ultima parte del libro della Alimento analizza la persistente resistenza dei parlamenti provinciali, che ormai superavano in radicalismo e scavalcavano la stessa corte parigina (anche perché quest'ultima attuò una sorta di doppio gioco, che l'autrice analizza e spiega molto bene), e la tendenza sempre piú accentuata a realizzare un costituzionalismo decentrato e una fiscalità decentrata: tendenza che avrebbe poi trovato i suoi primi esperimenti concreti proprio alla vigilia della rivoluzione del 1789 con Calonne e Lom&eacutenie de Brienne.

Intanto il progetto di un catasto generale s'illanguidiva: nel dicembre 1764 lo stesso Controllore generale L'Averdy si esprimeva contro quel progetto. « Quale possibilità di realizzazione aveva il progetto catastale - osserva la Alimento - se il controllore generale lo valutava costoso e lungo e si dichiarava disposto a trovare una soluzione alternativa per giungere ad una migliore ripartizione delle imposte?» . Durante il periodo in cui L'Averdy diresse il Controllo generale, le competenze degli intendenti delle finanze e dei loro collaboratori ebbero modo di manifestarsi concretamente, ed alcune riforme importanti (come la libertà di esportazione dei grani all'estero dopo che se ne era liberalizzata la circolazione all'interno) vennero allora varate. « È questa una riforma - annota l'autrice - che testimonia la vivacità e l'influenza di quella corrente di pensiero liberista le cui radici vanno ricercate in quel gruppo di funzionari e di economisti che, coordinato dall'Intendente di commercio V. de Gournay, aveva rinnovato la cultura economica francese mettendola a confronto con i risultati raggiunti dalla scienza economica in Inghilterra e in Spagna» . L'editto dell'agosto 1764 sulla libera esportazione dei grani fu completato da quello del maggio 1765 che riformava l'amministrazione delle città sostituendo il sistema della venalità con quello elettivo (riforma che sarà revocata dal nuovo controllore generale delle finanze Terray nel novembre 1771).

In una sorta di epilogo la Alimento, dopo aver rapidamente ricordato il « discorso della flagellazione» del 3 marzo 1766, con cui Luigi XV affermava la piú oltranzista concezione del potere assoluto del sovrano e il carattere soltanto delegato dei poteri e delle funzioni delle corti sovrane, e poi il « colpo di Stato» del cancelliere Maupeou, che nel 1770-71 soppresse i parlamenti, e infine il venir meno del progetto catastale, indica che « le operazioni catastali, sospese tra il 1814 e il 1815, vennero riprese con la Restaurazione [...] e si conclusero nel 1845» , sicché « sotto la Seconda Repubblica lo Stato francese realizzò quel "sogno milanese" cosí tenacemente inseguito da quel gruppo di amministratori settecenteschi che, sviluppando in senso tecnocratico la tradizione centralista, aveva elaborato una proposta riformatrice forte» : in appoggio a chi sostiene che come efficacia riformistica non valsero tanto le proposte palingenetiche dei philosophes quanto quelle piú modeste, ma piú concrete, dei migliori tra i rappresentanti della burocrazia ministeriale e amministrativa d' ancien r&eacutegime.

Il nesso tra Lumi e riforme (il « ruolo dei "lumi" in rapporto alle "riforme" e delle "riforme" come traduzione dei "lumi" nella pratica politica» ) è il tema centrale e ricorrente della vasta rassegna critica (molto critica e anche fortemente polemica) della storiografia italiana sul Settecento (con numerosi riferimenti ad autori e idee stranieri, soprattutto francesi), nelle diverse e spesso contrastanti interpretazioni e versioni di quel nesso, che Mario Mirri ha stilato nel 1992 ( Dalla storia dei « Lumi» e delle « Riforme» alla storia degli « Antichi Stati Italiani», in Pompeo Neri. Atti del Colloquio di Castelfiorentino, Castelfiorentino, 1992, pp. 401-540). Per quanto riguarda Venturi, Mirri poneva in rilievo (e criticava) il suo privilegiare le idee illuministiche in tutto il panorama del secolo: « Solo all'interno di linee di ricerca di questo tipo [cioè di storia economica e sociale, da parte di studiosi come Berengo, Villani e lo stesso Mirri], è stato posto, anche, il problema delle riforme: ma, soprattutto, in ambiti e momenti, in cui esse apparissero perseguite con piú continuità da governi e classi dirigenti [...]; ma, sempre, l'obiettivo era quello di indicarne il rapporto con le strutture economico-sociali e di valutarne i risultati, verificando, cioè, se e in quale misura esse avessero favorito processi di trasformazione. Il problema di fondo, alla fine, restava quello di valutare se si fossero affermate, nel Settecento, nuove forze "borghesi", capaci di avviare la trasformazione delle varie parti della penisola nella direzione di quella che avrebbe potuto (o dovuto?) divenire una società piú attiva, piú mobile e piú libera» . E per quanto riguarda la Francia, il proposito di « fare i conti con le crisi parlamentari, i progetti di municipalità, le proposte di Assemblee provinciali» « non può non essere considerato, contemporaneamente, nella sua specificità, con i suoi tentativi di tradurre in soluzioni tecniche e procedure praticabili, esigenze, princ&iacutepi, diritti, che compresero certamente, da un certo momento in poi, i valori affermati dai philosophes, ma includevano anche altre esigenze, e in primo luogo quella di concrete forme di controllo e di partecipazione, che questi non avevano contribuito ad elaborare. Non a caso i philosophes, o almeno una buona parte di personalità di formazione illuministica, non mostrarono una comune sensibilità per questi problemi: non si fecero coinvolgere in questi stessi dibattiti, o, quando scesero su questo terreno, non andarono al di là della conferma dei loro orientamenti ideologici generali» . E ancora: « La storia politica e delle riforme in Francia trova le sue ragioni, le sue spinte e i suoi ostacoli, al di fuori del mondo dei philosophes; e chi intenda studiarla dovrà seguirne piuttosto il suo autunomo svolgimento, dal maturare dei problemi ai frequenti fallimenti, a partire dalla considerazione dei mutevoli e contraddittori rapporti fra società e amministrazione nei loro riflessi politici» . E ancora, infine: gli anni Sessanta, « il momento piú alto, secondo Venturi, della affermazione dell'illuminismo in Francia, quello nel quale è meglio riconoscibile l'impegno dei philosophes come "partito degli intellettuali"» , « è anche il momento in cui vengono effettuati alcuni dei piú importanti tentativi di "riforme": una ardita riforma tributaria (proposta con gli editti di aprile del 1763), che comprende la possibilità di un catasto generale per tutto il regno e tende all'ammortamento del debito pubblico; e la concessione della libertà di circolazione interna, e poi di esportazione, dei grani (editti del 1763 e 1764). Si tratta di "riforme" proposte dall'interno di una amministrazione, che ha certamente trovato stimoli in dibattiti economici precedenti (e protrattisi per decenni), ma che trova, ora, le condizioni per assumere l'iniziativa e sceglie, ora, soluzioni determinate, fra le molte che erano state dibattute. Questi temi specifici, invece, non erano al centro dell'interesse dei philosophes(i quali, del resto, erano impegnati, piuttosto, nell'altra battaglia, sulla tolleranza e sull'amministrazione della giustizia): sul punto centrale della riforma fiscale e della proposta di un catasto, che era poi alla base della continuata rivolta dei Parlamenti, non esisteva una posizione dei philosophes; a seguire, via via, le loro reazioni davanti al procedere della lotta politica su questi punti, si coglie bene la loro difficoltà a schierarsi, sia pure a posteriori, pro o contro scelte politiche e tecniche, i cui contenuti reali ad essi spesso sfuggivano. Anche sull'altra questione della circolazione e dell'esportazione dei grani, non si può certo dire che sia esistita una posizione "illuministica" sul problema: come dimostrano le incertezze di molti philosophes alla fine degli anni '60, soprattutto in presenza dell'attacco finale contro tutto questo esperimento sferrato da Galiani: in presenza di una progressiva e sempre piú radicale elaborazione a sostegno della riforma da parte dei fisiocratici, Forbonnais e Voltaire dettero una mano al fronte antifisiocratico, quando Morellet e Turgot stavano decisamente dall'altra parte (del resto Venturi ha mostrato bene, nel suo articolo del 1960, tutte le incertezze e le scelte niente affatto concordi degli enciclopedisti, nel momento in cui i Dialogues di Galiani dettero il colpo di grazia a quell'esperimento di riforma)» .

In sostanza, Mirri contesta la tesi secondo cui i Lumi sarebbero la condizione necessaria e sufficiente delle riforme, le quali si sono in alcune situazioni verificate o sono state tentate al di fuori dell'ambito ideologico dell'Illuminismo, o almeno senza un diretto coinvolgimento di quest'ultimo.

Non è chi non veda come il libro della Alimento, tolto il tono polemico del « modello» e a parte una valutazione dell'affermazione, nel Settecento, di nuove forze borghesi, valutazione che nel libro della Alimento non c'è, si muova nell'ambito dei problemi e delle tesi centrali nel saggio di Mirri, ed è concreta applicazione alla Francia, negli anni cruciali della metà del secolo, della ricerca indicata da Mirri.