next essay Studi Storici 3, luglio-settembre 1995 anno 36


Gastone Manacorda, Storia di un antifascista. Giuseppe Granata

Granata ha affermato piú volte che fu l'assoluzione del 17 febbraio 1927 alla Corte d'Assise di Napoli a farlo diventare nicodemico, cioè a fargli rinunciare a far politica d'opposizione in regime fascista. Ma vediamo l'antefatto. Una lettera circolare dell'alto commissario per la Provincia di Napoli datata 4 gennaio 192614, comunica alle questure siciliane che da alcuni giorni si trova a Napoli un individuo iscritto al partito comunista, incaricato di dirigere il movimento giovanile della Campania. Poiché si era scoperto che costui faceva indirizzare la sua corrispondenza alla casella n. 8 dell'ufficio «The Express» in via Santa Brigida 15 - continuava l'alto commissario -, fu disposto un accurato servizio di vigilanza, e furono colti sul fatto due individui che «con molta cautela» ritiravano dalla casella n. 8 alcune lettere. Fermati, furono invitati in questura, ma uno di essi vibrò un pugno all'agente che l'aveva fermato, «colpendolo alla regione addominale», mentre l'altro lo teneva stretto per impedirgli l'inseguimento. Quest'ultimo, tradotto in questura, fu identificato «per il comunista schedato» Giuseppe Granata di Luigi, di anni 25, da Girgenti, «professore di filosofia disoccupato», mentre il secondo risultò essere il comunista Iffrido Scaffidi di Rosario di anni 19, da Siracusa, domiciliato in Genova, già segretario interregionale (sic) della gioventú comunista. Tutti e due furono deferiti all'autorità giudiziaria: il Granata per i reati di cui agli articoli 196 e 194 c.p.15 e lo Scaffidi «in base alle risultanze delle nuove ricerche a suo carico».

Dalla comunicazione spedita da Napoli, apprendiamo, dunque, che Granata nel '25 era non solo un comunista attivo ma un funzionario del partito, incaricato di riattivare il movimento giovanile in una importante regione. Il processo relativo ai fatti di via Santa Brigida fu celebrato in Corte d'Assise a Napoli. Il 27 gennaio 1927 Granata e Scaffidi furono assolti, e secondo quello che Granata affermò subito dopo la sentenza della Corte e ripeté piú volte, sarebbe stata proprio questa «inattesa» assoluzione a convincerlo ad abbandonare la lotta politica:

nel '27 - si legge nell'articolo Nicodemismo antifascista - l'assoluzione alla Corte di Assise di Napoli mi offrí la possibilità e la tentazione, alla quale non seppi resistere, di diventare nicodemico16.

Al processo davanti alla Corte d'Assise straordinaria di Napoli gli imputati erano quattro: Antonio Cafasso, Giuseppe Granata, Salvatore Curcio e Iffrido Scaffidi, tutti imputati di «eccitamento all'odio di classe fatto pubblicamente ed in modo pericoloso per la pubblica tranquillità»; Granata e Scaffidi anche di violenza e resistenza ai termini dell'ultima parte dell'articolo 190 c.p.; Granata anche di oltraggio con parole a pubblico ufficiale, articolo 194 c.p.: reati tutti commessi a Napoli dal 14 novembre al 31 dicembre 1925. Il dispositivo della sentenza pronunciata il 17 febbraio reca:

Poiché i giurati con il loro verdetto hanno negato di aver i giudicabili commesso il delitto di cui al primo capo d'imputazione, ed hanno negato i fatti materiali di cui agli altri capi d'imputazione, letto ed applicato l'art. 469 C.p.p., assolve i quattro imputati dai delitti loro rispettivamente imputati17.

Le dichiarazioni di Granata dopo questa sentenza, e la sua conversione politica sono stupefacenti dal momento che la Corte non aveva fatto altro che recepire il verdetto dei giurati, come la legge imponeva. L'istituto della giuria, che aveva rappresentato un grande progresso in senso democratico, era destinato a scomparire con l'avvento dei codici fascisti, che erano in preparazione, ma scomparirà solo col Codice Rocco entrato in vigore nel 1931. Nel 1927 vigeva ancora il codice penale del 1889 e quindi Granata e Scaffidi furono giudicati da una Corte d'Assise costituita secondo l'ordinamento giudiziario prefascista18.

La linea politica, che seguiva Granata, di accostamento per azioni successive, alla legalità fascista, collimava ormai da tempo con la linea dei funzionari che miravano a portarlo fuori dalla condizione di sovversivo e quindi a radiarlo dallo schedario. Documento decisivo fu la «scheda» su Granata del prefetto di Agrigento in data 4 dicembre 1928:

Continua a mantenere buona condotta in linea politica, prendendo parte a tutte le manifestazioni patriottiche e dimostrando simpatia per l'attuale Governo e pel Regime. In conformità del parere espresso anche dalle R. Questure di Napoli e Trapani, si propone la radiazione dallo schedario dei sovversivi.

Con la proposta dei tre autorevoli prefetti tutto era pronto, dunque, per la decisione, che risulta definita con la comunicazione del ministro dell'Interno al prefetto di Agrigento del 14 dicembre 1928: «nulla osta da parte di questo Ministero alla radiazione dallo schedario dei sovversivi del nominato in oggetto».

La radiazione dallo schedario dipende, naturalmente, anche dall'assoluzione di Granata e Scaffidi pronunciata dalla Corte d'Assise straordinaria di Napoli. Il periodo nicodemico vero e proprio sarebbe stato inaugurato secondo Granata da quella sentenza e sarebbe durato circa un decennio: dal '27 al '37. In realtà, però, la sua posizione era già mutata prima di quella sentenza. Granata e Scaffidi in seguito ai fatti occorsi a Napoli in via Santa Brigida erano stati arrestati su ordine dell'alto commissario alla Provincia di Napoli, con l'accusa di complotto contro lo Stato. Il 12 febbraio 1926 Granata aveva ottenuto la libertà provvisoria. Passano i mesi, e il 15 ottobre 1926 è proprio il f.f. di prefetto di Napoli che gli rilascia un certificato di buona condotta:

In seguito a concorso [il Granata] è stato assunto quale insegnante presso il Liceo comunale di Rossano Calabro, ove si è trasferito nei primi del corrente mese. In questi ultimi tempi non ha piú dato segni di attività sovversiva ed ha interrotto ogni rapporto coi correligionari, dimostrandosi suscettibile di ravvedimento. È vigilato dalla Sottoprefettura di Rossano, cui è stata trasmessa copia della scheda biografica.

L'alto commissario della Provincia di Napoli era stato diligentissimo nel segnalare la presenza a Napoli di Granata e Scaffidi e il loro incarico specifico di organizzatori della gioventú comunista. La polizia napoletana da lui diretta aveva scoperto il recapito postale e colto i due comunisti nell'atto di ritirare la posta dalla casella, raccolte poi tutte le informazioni sui loro precedenti, li aveva consegnati infine alla giustizia. Ora è lui stesso a proporne la liberazione dalla vigilanza speciale in vista di una possibile assoluzione in giudizio, che verrà, ma che, evidentemente, era già nell'aria.

Il prefetto di Trapani, coordinatore della vigilanza speciale di Granata, comunica, infatti, in data 17 febbraio 1928, che Granata è stato radiato dal «suo» schedario dei sovversivi perché non appartenente alla «sua» provincia (alla quale era stato assegnato in quanto domiciliato ad Alcamo) «né per nascita né per domicilio». E il 4 dicembre dello stesso anno il prefetto della natia Girgenti propone la radiazione di Granata dal Casellario «in conformità del parere espresso anche dalle questure di Napoli e Trapani». Il 14 dicembre 1928 il ministro dell'Interno dà il suo nulla-osta.

Cosí Granata, non solo è stato assolto in Corte d'Assise dai reati di cui era imputato, ma è anche finalmente sottratto alla vigilanza speciale e all'iscrizione nel Casellario. L'assoluzione non fece scandalo, anzi fu seguita ad un anno di distanza dalla fine della vigilanza speciale, e fu molto gradita da Granata, il quale dichiarò che la sentenza lo aveva addirittura convertito. Di rincalzo il 28 dicembre il prefetto di Cosenza (alla cui circoscrizione appartiene Rossano) manda nuove informazioni che si concludono con la notizia dell'iscrizione di Granata al sindacato fascista:

Comunicasi che il Granata da che è giunto in Rossano ha dimostrato un effettivo ravvedimento e ha partecipato alle cerimonie patriottiche svolte in quella città. Risulta anche che egli ha chiesto l'iscrizione al sindacato fascista. Viene tuttora vigilato attivamente.

Finalmente la Corte d'Assise straordinaria di Napoli il 17 febbraio 1927 pronuncia l'assoluzione di Granata e Scaffidi. Si ponga mente alla data: 17 febbraio 1927. Il 1° di quel mese aveva iniziato la sua attività a Roma il Tribunale speciale per la difesa dello Stato, e i primi condannati a pene pesanti, dopo il rodaggio di alcuni processi lievi, furono comunisti19. Dalla fine d'ottobre 1926, infatti, in seguito all'attentato di Bologna contro Mussolini, la reazione contro l'antifascismo si era scatenata attraverso l'emanazione di una serie di provvedimenti eccezionali, fra i quali la costituzione del Tribunale speciale. L'aspetto piú sorprendente della formazione, a Napoli, quasi - sembrerebbe - di un fronte in difesa di due comunisti, è che questo avviene in quei mesi fra la fine del '26 e il principio del '27, quando il fascismo, su scala nazionale, prendendo pretesto dall'attentato di Bologna, scatena una reazione violenta contro gli antifascisti di ogni corrente, dichiara decaduti 108 deputati, emana una legge che istituisce la pena di morte per chi attenti alla vita o alla libertà personale dei sovrani, del principe ereditario o del capo del governo, nonché per i reati piú gravi previsti dal codice penale vigente, la reclusione per lunghi periodi per i reati politici, e da tre a dieci anni per chi ricostituisce associazioni disciolte o riorganizza partiti sciolti, e via dicendo. E, soprattutto, istituisce il Tribunale speciale per la difesa dello Stato: una magistratura a parte per gli antifascisti.

Per Granata e Scaffidi, a Napoli, le cose vanno molto diversamente. Tutti quei certificati di buona condotta che affluiscono al Casellario sono univoci e complessivamente non falsano la realtà. È rilevante, fra le altre notizie, la richiesta da parte di Granata dell'iscrizione al sindacato fascista, che segna un passo decisivo verso la conquista di una posizione «normale» per un professore della scuola statale ed è un tipico atto di «nicodemismo», come avrebbe detto lo stesso Granata. Tuttavia, Granata svolgeva ancora una certa attività semicospirativa, e, mentre al ministero affluivano le rassicuranti «schede» dei prefetti che presumevano una sua conversione verso la normalità fascista, altri fatti ci fanno pensare che egli non avesse abbandonato del tutto le sue attività di antifascista, come dimostra la formazione di un gruppo di studenti antifascisti che frequentavano la sua casa anche quando era «nicodemico».

Ma la decisione di Granata fu scossa prima dall'episodio della bandiera rossa issata sul monumento ai caduti di Rossano e dalle sue conseguenze, che valse a ridargli la fiducia in se stesso e a insegnargli «che non bisognava limitare l'azione antifascista nell'ambito della scuola» e poi, soprattutto, dal trasferimento al liceo di Perugia nell'ottobre del '39, dove

gli studenti - scrive ancora Granata - che non tardarono a scoprire in me l'antifascista, erano già nel movimento clandestino che faceva capo ad Aldo Capitini, non nicodemico questi, ma saldissimo testimone della causa della libertà. Si può dire che furono essi a riportarmi in mezzo alla lotta, a farmi ritrovare il vecchio me stesso, quello del primo dopoguerra e dei primi anni del fascismo sino al '2720.

Con questa testimonianza i periodi della vicenda politica di Granata sotto il regime fascista sono chiaramente scanditi, ma non bisogna dimenticare che Granata anche quando era «nicodemico», coltivava sempre un rapporto attivo di educazione politica con quel gruppo di studenti antifascisti di Rossano.

Tra le carte di Giuseppe Granata fa spicco un grosso dattiloscritto di 40 cartelle di trenta righe per ciascuna, dal titolo anodino e limitativo Trenta anni di scuola, al quale ci riferiremo d'ora in poi con il titolo di Relazione. Il testo è diviso in quattro paragrafi, gli ultimi due dei quali si occupano principalmente delle vicende del movimento comunista internazionale dopo l'insurrezione ungherese e la repressione sovietica dell'autunno 1956. Pubblichiamo in appendice a questo saggio le prime ventitré cartelle della Relazione con qualche taglio (sempre indicato con puntini fra parentesi quadre), reso necessario dal carattere del manoscritto, che in origine, come spiega l'autore nelle poche righe introduttive, altro non pretendeva di essere se non la consueta e obbligatoria relazione sull'anno scolastico appena trascorso, ma estesa a tutto il trentennio della sua attività didattica, appena concluso. Va da sé che questo è uno dei soliti espedienti per introdurre un genere letterario inconsueto, che mira in realtà, per dirla con le parole dell'autore, a presentare il rendiconto della sua trentennale attività di docente assieme alle riflessioni che gli vengono suggerite da un'esperienza cosí lunga e singolare, perché vissuta «in tempi tra i piú pericolosi e drammatici della nostra storia». Lo sfondo è, infatti, il regime fascista e il suo crollo, i protagonisti sono le scolaresche e l'insegnante, il problema fondamentale è di mettere in luce che cosa aveva di particolare la scuola sotto il governo fascista, e specialmente quali spazi di libertà restavano all'insegnante, quali gli erano invece negati. Come si presentavano le scolaresche rispetto al fascismo? C'erano - asserisce Granata - due categorie di giovani, gli entusiasti e i dubbiosi o avversari. E certamente l'insegnamento abbinato della storia e della filosofia (un abbinamento che Granata e molti altri con lui hanno criticato vivacemente, ma non per respingerlo in toto, in articoli scritti dopo la caduta del fascismo, come uno dei punti discussi e discutibili della riforma Gentile)21, offriva le migliori occasioni per suggerire agli uni e agli altri numerosi spunti di riflessione sulla situazione attuale del paese. Granata allontana da sé il sospetto di avere presentato ai suoi alunni una visione deformata della storia per suggerire scelte politiche e dichiara di essersi ispirato prima di tutto al rispetto della verità, cioè - precisa - «di quella che io ritenevo essere la verità», ma afferma altresí di aver sollecitato i giovani a non adagiarsi sulle opinioni fatte e comunemente accettate, sui luoghi comuni che vanno spesso per la maggiore e non hanno fondamento nello studio, e quindi a diffidare della propaganda. E qui entra nel vivo del suo problema personale: la sua oggettiva condizione di antifascista, che insegnava in una scuola fascistizzata portava con sé un disagio morale per il fatto di essersi, lui stesso, dovuto iscrivere al partito fascista per poter insegnare. È quello che denuncerà come il suo «nicodemismo» in un articolo severo e dolente pubblicato nella «Voce della scuola democratica» del 1° maggio 1955, dopo che la redazione del settimanale lo aveva invitato a narrare la sua vicenda di insegnante antifascista durante il ventennio22:

Perché questo fui io, e come me tanti altri insegnanti antifascisti, che [...] per conservare o ottenere la cattedra si fecero seguaci di Nicodemo («quello che era andato da Gesú di notte», Giov. 19.39). Il Nicodemismo non era cosa nuova nella vita italiana. I primi campioni ne erano apparsi nel Cinquecento quando molti Riformati sotto l'incalzare della reazione controriformistica, pur conservando nell'intimo della loro coscienza la nuova fede, tornarono all'ubbidienza di santa romana chiesa cattolica. «Non che resistere - si legge in uno scritto dell'epoca - è inutile anche fuggire, lasciando beni, famiglia, patria; [...] et che vi importa inginocchiarvi alla Messa, facendo come fanno gli altri et poi nel vostro cuore credere quel che vi piace?».

Per noi antifascisti - continua Granata - l'obbligo non era di andare a messa, ma d'iscriversi al partito fascista, indossare la camicia nera, fare il saluto romano, partecipare alle adunate: tutte cose che riempivano l'animo di vergogna e di corruccio e piú dure forse a sopportarsi che il genuflettersi alla messa per luterani, calvinisti e anabattisti.

A me fu dato di sottrarmi ad una parte di questi obblighi - continua Granata - per dieci anni, fino a quando nel '36, essendo stato regificato il Liceo comunale di Rossano nel quale insegnavo filosofia e storia, fu necessario per il passaggio nei ruoli dello Stato presentare il documento dell'iscrizione al partito fascista, divenuta nel frattempo obbligatoria. Ma anche senza camicia nera non ero per questo meno nicodemico degli altri. Anch'io tributavo il mio ossequio al regime, facendo il saluto romano senza piú arrossire, non rifiutandomi di accompagnare gli alunni alle adunate e rassegnandomi a vedere addosso ai miei figli le divise di balilla. Poi presi anche la tessera, e per averla dopo che erano chiuse le iscrizioni e con i miei precedenti penali e militari (due lunghe detenzioni, un processo in Corte d'Assise e la rimozione dal grado di sottotenente) fui costretto alle piú abiette umiliazioni.

«Et che vi importa inginocchiarvi alla Messa, facendo come fanno gli altri et poi nel vostro cuore credere quel che vi piace?». Importa invece, e come! Lo sapevo io quando la percezione del mio stato, che talvolta mi balenava improvvisa alla coscienza, mi riempiva di orrore e amarezza. E lo sapevano anche gli altri, quelli che non avevano tradito e che giudicavano23.

Ma come comportarsi nell'insegnamento? Come poteva un insegnante antifascista insegnare nella scuola fascistizzata? Professare apertamente le proprie idee equivaleva a mettersi in condizione di non potere esercitare il mandato. Di tutte le istituzioni pubbliche dell'Italia liberale, la scuola era stata la prima ad essere riformata dopo l'avvento al potere del fascismo, cioè rinnovata subito e profondamente anche nei contenuti grazie alla riforma Gentile, che entrò in vigore un anno esatto dopo la marcia su Roma, e che non era frutto del fascismo. La scuola pubblica e laica sorta dal Risorgimento era già da tempo giudicata da molti come un'istituzione invecchiata nei programmi, nei metodi, nell'ordinamento. Infatti, non aveva tenuto il passo neppure con le tendenze piú moderne del positivismo, arricchite dai progressi delle scienze fisiche e matematiche, e aveva viceversa diluito il suo tradizionale laicismo, alimentato soprattutto dalla divulgazione del darwinismo da un lato, e dalla questione romana dall'altro. La filosofia idealistica, cresciuta in Italia alla fine del XIX secolo e fiorita nel primo Novecento, si era già presentata al governo con Benedetto Croce ministro della PI nel ministero Giolitti del 1920-21, ma in quell'anno le condizioni generali della lotta politica postbellica non consentivano ancora un impegno dello Stato nella direzione di un riordinamento generale dell'edificio scolastico. D'altra parte, Gentile e i suoi collaboratori rappresentavano una posizione riformatrice molto piú radicale di quella impersonata da Croce: Gentile proponeva una riforma assai ardita nei suoi postulati filosofici e pedagogici e nel modo di tradurli in testi legislativi. La sua riforma significò un ammodernamento profondo e liberò all'inizio forze progressive. Poi, con il rapido evolvere del fascismo al potere verso la dittatura, anche essa fu irrigidita in un sistema autoritario, e la libertà d'insegnamento non trovò piú spazio, specialmente nelle materie piú vicine alla politica, mentre molto di nuovo rimase nei programmi e nella struttura giuridica della scuola.

D'altra parte, il compromesso nicodemico non poteva servire nell'insegnamento. Come può, infatti, l'ipocrisia governare un rapporto che per definizione mira a trasmettere la verità e il metodo per scoprirla?

Il nicodemismo - ci avverte ancora Granata -, come ciò che si riferisce esclusivamente alla sfera dell'esteriore cessava sulla soglia dell'aula scolastica [...] L'opera dell'insegnante è essenzialmente colloquio, dove non si può essere diversi da quello che si appare, perché l'insegnante è proprio e solo in ciò che dice. Quindi non c'era scampo, non si poteva parlare fascista e illudersi di non esserlo. Parlare fascista significava esserlo, agire cioè da fascista sulle coscienze dei giovani che ci erano affidati. Ora gli insegnanti nicodemici non portarono mai fino a questo estremo di ignominia il loro tradimento. [...]

Finiva col prevalere su tutto il dovere di non ingannare, il dovere di non presentare come vero ciò che per noi era falso e di non presentare come bene ciò che per noi era male. Il nostro era un parlar coperto e indiretto. Ma i ragazzi capivano lo stesso. [...]

Talvolta però la lezione di storia, specialmente in III liceo, metteva la nostra coscienza di educatori di fronte a scelte impegnative dalle quali non era possibile esimersi: bisognava lasciar correre quello che nei testi si diceva del socialismo e della Comune, delle radiose giornate del maggio 1915, del dopoguerra e dell'avvento del fascismo? Correggere, e come senza scoprirsi?24

Si potrebbe pensare che la deliberata «deformazione fascista» dei libri di testo inducesse a una contrapposizione di tesi «antifasciste» da parte del docente, se Granata non fosse pronto ad approfondire questo punto del problema, che metteva in giuoco la sua onestà di maestro e la sua serietà di studioso. La norma alla quale egli si sforzò sempre di rimanere fedele nel suo insegnamento fu, da un lato, «il rispetto della verità» e, dall'altro, «l'anticonformismo», cioè l'impegno di educare i giovani a «non adagiarsi sulle opinioni fatte e comunemente accettate»; ma, soprattutto, «la fedeltà all'ideale abbracciato», una proposta caratteristicamente ispirata all'insegnamento dei valori ed all'intransigenza, che potrebbe sembrare astratta se non fosse corretta dalla sincerità del proponente, che ricorda nella propria biografia un esempio di condotta difforme da quell'esemplare intransigenza che proponeva ai suoi alunni adolescenti: «quanto lontana da quell'esemplare intransigenza restava la mia condotta politica, il mio nicodemismo».

Granata asserisce di aver educato i giovani a non adagiarsi sulle opinioni fatte e comunemente accettate, ad essere soprattutto anticonformisti. Sotto il profilo educativo il suo insegnamento era tale da soddisfare le esigenze sia degli alunni fascisti sia degli oppositori. E anche gli alunni piú ligi al regime fascista, riconoscendo in lui il fedele di una causa, che si manteneva «quanto piú possibile aperto al dialogo e alla discussione», continuavano a rispettarlo e ad amarlo. Certo, nell'insegnamento cosí impostato, era implicito il rifiuto di particolari dottrine o, viceversa, l'adesione ad altre: ad esempio il rifiuto di quelle concezioni irrazionalistiche e misticheggianti che ebbero la loro massima e ridicola espressione nel movimento della «mistica fascista»; «che - aggiunge Granata - si estendeva all'idealismo gentiliano per il carattere quasi teologico del suo Atto Puro». E, al contrario, tutti accettavano «il manifesto favore (da parte del professore) all'esposizione del pensiero del Cattaneo», o la difesa dell'illuminismo dalle critiche di uno storicismo esasperato, e infine, la difesa del marxismo «che indirettamente scaturiva [...] dalla discussione delle obbiezioni crociane alla teoria marxista del valore e alla legge della caduta tendenziale del saggio del profitto». I temi piú ardui per un insegnamento cosí concepito erano quelli dell'età contemporanea, dove l'influenza nella storia del fattore sociale ed economico importava determinate prese di posizione che nel clima fascista assumevano un carattere immediatamente politico. Il giudizio sul Risorgimento poteva essere variamente accentuato nei termini della spiritualità o dell'economicismo, ma non era impossibile dimostrare che entrambe le componenti furono presenti in quelle vicende, e che era necessario piuttosto sforzarsi di dare una valutazione complessiva del risultato al quale era pervenuto il moto di riscossa nazionale sotto la spinta delle forze economiche borghesi.

Questi ricordi dell'insegnamento criptoantifascista, si riferiscono anche al periodo passato al liceo di Rossano ma piú ancora al liceo classico di Perugia, dove Granata approdò nell'anno scolastico 1939-40.

Ma ci fu un imprevisto, per ragioni eteroclite, le cui conseguenze per poco non misero in forse il suo trasferimento a Perugia. Granata insegnava dal 1926 al liceo di Rossano e aveva lí un gruppo di allievi prediletti che frequentavano anche la sua casa. Li ricorda per nome con immutato affetto molti anni dopo, nel famoso articolo sul Nicodemismo:

I miei alunni non solo non ci accusavano e non ci denunciavano ai presidi e alle gerarchie fasciste, ma finivano, i migliori, col chiederci di esporre loro piú estesamente e piú apertamente quelle idee e quei principii che le nostre lezioni lasciavano solo intravvedere. E venivi in quella mia casa al Ciglio della Torre a Rossano, ricordi, avvocato Berlingieri, con quel tuo cugino intelligentissimo ora vice prefetto e anche tu professor De Simone, che poi nel 1938, quando fu scoperta la tua attività antifascista, fosti inviato al confino. Venivate a casa e per interi pomeriggi si parlava, si discuteva di marxismo e di liberalismo, delle realizzazioni nell'Unione Sovietica, della situazione interna e internazionale e delle prospettive dell'avvenire. Vi davo dei libri (le edizioni Gobetti e Doxa), vi facevo leggere vecchi numeri dell'Ordine Nuovo settimanale, della Rivoluzione Liberale, e di Coscientia. Era veramente tutto un mondo diverso che si apriva davanti alle vostre menti e che vi spingeva a prendere il posto non piú poi abbandonato nella vita politica25.

Accadde che nella ricorrenza della vittoria, il mattino del 4 novembre 1937, fu trovata una bandiera rossa sventolante sul monumento ai caduti di Rossano. I sospetti si diressero subito verso gli allievi prediletti del professor Granata. Ma non c'erano prove e, a conclusione delle indagini condotte dalla polizia locale affiancata da un ispettore del ministero, Granata fu punito con il trasferimento «per servizio» al liceo di Matera. Rimase a Matera un solo anno. E, come egli stesso scrive, nel '39 fu trasferito a Perugia «perché il Liceo comunale di Rossano era stato regificato»: spiegazione chiaramente reticente26. La verità è che per Granata i trasferimenti furono due: il primo da Rossano (e non da Perugia) a Matera, e il secondo da Matera a Perugia. La permanenza a Matera, infatti, occupò solo l'anno scolastico 1938-3927.

Nell'autunno del 1939, dunque, tutto il liceo di Rossano, già comunale e dal 1936 statale, si fuse con il liceo classico di Perugia. Con esso si trasferí anche Giuseppe Granata, il quale, tuttavia, non proveniva da Rossano ma da Matera. Di questa sua diversa provenienza né nella sua Relazione né in altri scritti fa cenno, ma è certo che prese servizio con tutta la scuola di Rossano a Perugia al principio dell'anno scolastico 1939-40. E fece tutto il possibile perché nessuno notasse la sua anomala provenienza da Matera. È significativo anche che Granata non abbia scritto una parola sul suo insegnamento in una sede meridionale, dove avrebbe trovato forse un terreno vergine e probabilmente fertile per seminare il marxismo implicito nel suo insegnamento della storia e della filosofia, ma in tutti gli scritti di Granata che mi sono noti non c'è il minimo accenno a una lezione tenuta a Matera: lui che non ha dimenticato neppure di citare le lezioni di pedagogia tenute all'Istituto magistrale di Venezia nel 1945, pur asserendo di non aver ritenuto nei suoi ricordi nulla di quell'esperienza.

Coloro che chiusero un occhio per far sí che il trasferimento per punizione di un singolo sparisse nel calderone del trasferimento di un'intera scuola dovettero essere piú d'uno, e in questa vicenda ebbe certamente una parte di rilievo quel funzionario inviato dal ministero, del quale Granata tace il nome, mentre ne traccia un profilo che fa pensare ad un burocrate molto abile nell'aggiustare le cose facendo il minor danno possibile e soprattutto senza perdere la faccia. Ma lasciamo che sia lo stesso Granata a presentare il personaggio:

Nel suo affettato ottimismo (solo affettato, perché era uomo assai acuto e conosceva certamente la situazione della scuola italiana e sapeva muoversi in essa con comprensione ed equilibro), l'ispettore arrivava a dire che gli unici studenti antifascisti d'Italia erano quelli del liceo di Rossano. Di questa stranissima cosa andava perciò cercata la causa. Le autorità politiche e di polizia locali la trovavano nella suggestione che esercitava sull'animo degli alunni il mio passato di antifascista, in città da tutti conosciuto e che probabilmente la fantasia giovanile arricchiva e aureolava di romantiche esagerazioni sui processi del '23 e del '27. Proponevano pertanto il mio allontanamento dalla scuola. E in questo senso decise poi il Ministero trasferendomi per servizio al liceo di Matera28.

Questa combinazione di spregiudicatezza e di furbizia, ma anche di una certa saggezza del funzionario, che utilizza cosí a proposito i suggerimenti della polizia locale, è forse la chiave per capire il fortunato esito dell'incidente di Rossano, arbitrariamente attribuito dagli inquirenti all'antifascista piú noto sulla piazza, ma senza infierire troppo neppure sul prescelto capro espiatorio e lasciandolo ritornare silenziosamente a casa dopo il breve esilio. Fu, dunque, grazie a questo compromesso che Granata poté svolgere a Perugia il suo insegnamento criptoantifascista, illustrato con tanta finezza e con una punta di legittimo orgoglio nella Relazione.

Ma quanto era stata esaltante l'esperienza dell'insegnamento perugino dal '39-40 al '42-43, altrettanto deludente fu il ritorno nel '45, dopo le burrascose vicende degli anni di guerra. Granata si illudeva di poter riprendere e arricchire con il vantaggio della libertà di parola, il discorso storico-politico iniziato negli anni di guerra. Paradossalmente, invece, l'insegnante antifascista che sotto il regime era riuscito a portare avanti un insegnamento ispirato ad un'ideologia perfettamente antifascista e a fare breccia, in qualche misura anche nella mente degli scolari fascisti o filofascisti, ora si trovò di fronte ad «una esperienza sconcertante». I giovani ostentavano freddezza e disinteresse verso lui e respingevano ogni suo invito al dialogo e alla discussione.

Granata non tardò a rendersi conto di quel che era avvenuto. I perseguitati ora non erano piú gli antifascisti ma gli ex fascisti, o quelli che dal fascismo avevano avuto benefici di carriera. E questo spiegava il malumore dei loro figli verso un antifascista di antica data come lui. Ma ostili al professore ritornato dall'esilio e dalla guerra si mostravano anche alunni che provenivano da famiglie antifasciste da sempre, e «qui - spiega lo stesso Granata - giocava un altro fattore, la rottura dell'unità dell'antifascismo in conseguenza dell'accentuarsi (in Umbria in maniera assai notevole) della lotta di classe». Ragazzi, figli di grandi o agiati proprietari terrieri ora erano diffidenti verso il docente che nella lotta sociale era stato da sempre schierato con la parte opposta. L'ostilità istintiva di questi giovani borghesi verso tutto ciò che sapeva di socialismo, di lotta di classe, di sindacato, li portava a «difendersi» anche dallo studio di quelle discipline che, con quel docente, li avrebbe portati sul terreno dell'impegno, o del rifiuto esplicito dell'impegno, nelle lotte sociali. Neppure faceva breccia fra di loro il cattolicesimo politico e sociale, grazie alle tradizioni laiche e, piú ancora, anticlericali dominanti nell'Umbria. Prevaleva, tuttavia, una tendenza alla «spoliticizzazione», come oggi si direbbe.


Gastone Manacorda, Storia di un antifascista. Giuseppe Granata


14 Copia di questa lettera si trova in ACS, CPC, cit. Altre copie in altri fondi con piccole varianti.

15 I due articoli del c.p. del 1889 puniscono l'oltraggio e altri delitti contro persone rivestite di pubblica autorità.

16 G. Granata, Nicodemismo antifascista, in «La Voce della scuola democratica», II (XII), n. 9, 1° maggio 1955.

17 Archivio di Stato di Napoli, Sentenze della Corte d'Assise.

18 La legge del 24 dicembre 1925, n. 2260 aveva, bensí, delegato al governo «la facoltà di emendare il codice penale», ma il nuovo testo, che sarà il Codice Rocco, fu pronto solo cinque anni dopo: fu infatti approvato con r.d. 19 ottobre 1930, n. 1398, che ne fissò l'entrata in vigore dal 1° luglio 1931. E solo nei primi mesi del 1931 fu messo a punto il nuovo ordinamento delle Corti d'Assise, che sarebbero state composte d'ora in poi da due magistrati e da cinque assessori, nominati gli uni e gli altri ogni anno con regio decreto fra gli appartenenti a categorie prestabilite. La nomina dei giudici d'Assise sarebbe passata cosí nelle mani dell'esecutivo solo nel 1931. Granata e Scaffidi furono giudicati da una Corte d'Assise ancora formata secondo le norme precedenti l'entrata in vigore del Codice Rocco. Queste norme non erano state neppure sfiorate dalla legge del novembre del 1926 che aveva istituito il Tribunale speciale per la difesa dello Stato limitandone, però, la competenza solo ai reati da essa esplicitamente indicati. Tutto il resto della competenza giudiziaria rimase immutato fino al 1931.

19 Cfr. L. Salvatorelli e G. Mira, Storia d'Italia nel periodo fascista, Torino, Einaudi, 1964, pp. 368-369.

20 G.Granata, Nicodemismo antifascista, cit.

21 «La Voce della scuola democratica», passim.

22 G. Granata, Nicodemismo antifascista, cit. Da notare che, a differenza di tutti gli altri articoli, questo è firmato Giuseppe Granata, e il cognome materno, Messana, è riportato sotto la firma in carattere minore e fra parentesi.

23 Ibidem.

24 Ibidem.

25 Ibidem.

26 Ibidem. Il Liceo di Rossano era stato «regificato» dal 1936.

27 La signora Irea Granata mi ha assicurato che suo marito rimase a Matera un solo anno nel 1938-39 e che aveva portato con sé la famiglia.

28 Relazione, p. 9.