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LA «DONNA NUOVA» DI MUSSOLINI TRA EVASIONE E CONSUMISMO

Helga Dittrich-Johansen

1. Nell'ambito degli studi sul fascismo resta ancora in gran parte da indagare il composito e sotto molti aspetti frivolo mondo della stampa femminile a carattere divulgativo1, popolato da un numero imprecisato di riviste scritte dalle donne per le donne. Questi periodici, quasi tutti a scadenza settimanale, consentono, se opportunamente interrogati, di andare oltre gli stereotipi ed i molteplici luoghi comuni con cui ogni società tenta da sempre di definire il cosiddetto «sesso debole», imbrigliandolo in modelli comportamentali rigidamente precostituiti.

Gli anni Trenta del nostro secolo, per il fatto stesso di essere anni di dittatura e di consolidamento di un regime teso sempre piú a poggiare su di un incondizionato consenso di massa, offrono l'opportunità di cogliere mutamenti significativi nelle abitudini e nel costume, i quali, benché coinvolgano ampi strati sociali, si riflettono in particolar modo sulle donne, con effetti talora anche dirompenti. La stampa femminile, che proprio in questo periodo si afferma come uno dei settori trainanti della pubblicistica italiana2, diviene al contempo specchio e veicolo di diffusione di numerosi cambiamenti che iniziano ad essere percepiti come potenzialmente «remunerativi» dall'industria editoriale del nostro paese.

Gli anni Trenta vedono le donne italiane, o almeno una gran parte di esse, messe alla prova in un confronto diretto con sollecitazioni nuove sul piano sociale, culturale e lavorativo, ed è in questo clima denso di tensioni e di suggestioni inedite che donne giovani e meno giovani si scoprono di volta in volta incuriosite, stimolate, a volte persino intimorite. Si tratta di impulsi che testimoniano sia dell'influsso crescente esercitato nel nostro paese dal capitalismo di consumo sia dell'emergere di quel processo di massificazione della società che, già presente ad uno stadio piú avanzato in altre aree del mondo occidentale, va oramai prendendo piede in un'Italia che Mussolini e la sua classe dirigente vorrebbero tenere saldamente ancorata a miti e valori tradizionali, non contaminati da quanto sta avvenendo nelle piú progredite nazioni «plutocratiche». Diversamente da quanto si ostina a propagandare, il fascismo si trova suo malgrado costretto a gestire un difficile e precario rapporto che lo obbliga ad attuare continui riadattamenti tra il «vecchio» e il «nuovo», tra un passato certo e percepito come stabile, ma che si rivela sempre piú anacronistico, ed un presente ancora in gran parte da definire e dagli imprevedibili sviluppi. In particolare, è quest'ultimo dato a destare presso l'élite politica e culturale comprensibili timori e apprensioni, che talora degenerano in un vero e proprio clima allarmistico contro i nuovi pericoli che paiono insidiare la collaudata femminilità «latina». La donna nuova, celebrata dalla retorica ufficiale di regime per mezzo di un esplicito recupero dell'immagine cattolico-conservatrice della sposa e madre esemplare3, si trova nel corso del ventennio al centro di un processo di trasformazione che investe, sin nella loro piú intima essenza, tutte le strutture sociali, economiche e ideologiche della nazione.

In questo clima di difficile convivenza tra conservatorismo e modernità e stimolato dalla necessità di lavorare su una dimensione di massa, il mondo dei mezzi di comunicazione si arricchisce nel corso del secondo decennio mussoliniano di un nuovo prodotto - il rotocalco -, destinato a grandi fortune e ad essere «consumato» soprattutto da un pubblico femminile in rapida e convulsa trasformazione. Presentato come la grande novità editoriale del momento, in realtà esso non è altro che la versione rinnovata del settimanale illustrato di moda e varietà di tradizione ottocentesca4, che aveva già riscosso un notevole successo presso un pubblico di lettrici dalle limitate possibilità economiche. Tipico esponente di un'industria culturale prona innanzitutto alla logica ferrea del mercato5, il rotocalco si propone di assecondare ed incentivare i nuovi valori ed interessi che vanno prendendo piede tra gli strati femminili della piccola e media borghesia urbana. Le riviste in vendita nelle edicole sono, infatti, destinate alle masse e al consumo ed è proprio questo loro essere uno «specchio» dei gusti e delle abitudini di una società in rapido mutamento che li rende una fonte storica preziosa, consentendo a chi li indaga e li interroga di conoscere un po' piú a fondo il variegato mosaico della condizione delle italiane vissute durante la dittatura. Sfogliandone le pagine, la donna di Mussolini ci appare piú autentica, assai diversa dall'immagine oleografica, dai contorni netti e precisi, che campeggia imperturbabile in tanti scritti e discorsi segnatamente di regime. La sposa e madre esemplare assume volti molteplici, talora anche contraddittori, finendo con lo sgretolarsi sotto i nostri occhi.

2. Il rotocalco rappresenta, dunque, la grande novità dell'editoria italiana degli anni Trenta. In quanto risultato di un'operazione commerciale, esso si propone come strumento di intrattenimento, fatto questo che gli impedisce di mostrarsi sempre del tutto allineato con i principi della politica del regime verso le donne, nei cui confronti manifesta anzi una ambiguità di fondo dovuta ad una «compresenza di elementi reazionari e progressisti»6.

È bene, però, precisare che se la pubblicistica periodica riceve la propria consacrazione ufficiale negli anni compresi tra le due guerre mondiali (in concomitanza con l'affermarsi - seppure a un livello ancora iniziale - di nuovi modelli comportamentali), essa tuttavia non si presenta come un fenomeno del tutto nuovo, potendo di fatto vantare a quella data una lunga e consolidata tradizione alle spalle7. Già a partire dagli ultimi decenni del secolo scorso, infatti, i piú intraprendenti editori italiani specializzati nella produzione di riviste di moda (Sonzogno e Treves prima, Rizzoli e Mondadori poi), intuendo quanto redditizio potesse diventare l'ancora poco esplorato mercato dei giornali illustrati, si erano cimentati nel campo dei periodici destinati alle donne, offrendo ad un pubblico di dame e signorinette fogli patinati dalla modesta tiratura. In anni non ancora sospetti, quando il consumismo continuava ad essere percepito come una delle tante «anomalie» in voga nei paesi d'oltreoceano ed il trinomio Dio-patria-famiglia resisteva imperturbabile ad ogni sorta di attacchi, a Milano - tra tutte le città del Regno la piú moderna, cosmopolita ed attenta alle novità8 - si incominciava a prestare maggiore attenzione ai sussulti ed ai fermenti provenienti dall'inquieto ceto femminile piccolo e medio borghese. Da questo versante della società giungevano timidamente le prime richieste di consigli e di suggerimenti volti a facilitare l'ingresso delle donne nel competitivo mondo esterno dei maschi. A tali supporti pratici si univa, poi, una crescente volontà di affermare un modo nuovo di essere donna, una femminilità piú sicura di sé anche con il costante e puntuale aggiornamento sulle ultime novità in fatto di moda, di cosmesi e di costume. Per questa figura femminile emergente ed alla faticosa ricerca di una propria identità, in sintonia con i piú recenti modelli incarnati dalle dive del cinema e divulgati dai mezzi di comunicazione, venivano confezionate apposite riviste sorte con il preciso intento di ricoprire l'intero arco di quelli che si riteneva fossero gli interessi specificamente «muliebri». Puntando soprattutto sull'evasione e su di una nutrita batteria di consigli e suggerimenti capaci di semplificare i tanti piccoli problemi della vita quotidiana, vennero escogitate formule editoriali destinate ad «arredare» il corpo e l'anima delle donne. L'intento era di offrire loro una sorta di habitat psicologico in cui potessero facilmente riconoscersi.

Inizialmente furono le organizzazioni cattolico-popolari ad interessarsi in particolar modo al settore della «buona stampa» indirizzata alle donne9, proponendosi fini dichiaratamente educativi e di difesa ad oltranza di un ordine sociale che pareva perdere terreno. I primi due decenni del nuovo secolo erano stati, infatti, contrassegnati dall'affermarsi di un battagliero movimento femminista, attivo anche nel settore della stampa periodica10; le donne italiane, mobilitate durante l'emergenza bellica, erano poi affluite in massa negli uffici e nelle fabbriche, acquisendo maggiore coscienza dei propri diritti come soggetti sociali autonomi. A detta di numerosi benpensanti dell'epoca, la tradizionale gerarchia dei ruoli sessuali, fondata su di una rigida doppia morale tra un «privato» prettamente femminile ed un «pubblico» esclusivamente maschile, rischiava di incrinarsi sotto i colpi dell'incipiente processo di industrializzazione e di urbanizzazione, che, ancora confinato in poche e ben delimitate aree geografiche della penisola, minacciava di aggredire e contaminare la restante parte sana del corpo sociale, la cui esistenza continuava, per contro, a scivolare lungo binari antichi e collaudati.

La grande guerra aveva, poi, investito in modo traumatico e dirompente i gangli vitali della società; la durata del conflitto, lo sconvolgimento da esso provocato nella vita quotidiana della popolazione civile, l'ingresso traumatizzante in un mondo dominato dalla tecnologia industrialista e da forme piú razionali di organizzazione e divisione del processo produttivo, erano tutti fenomeni che - una volta deposte le armi e pacificati nuovamente i vari fronti - necessitavano di essere contenuti e «riassorbiti». Se si voleva salvaguardare l'ordine sociale cui da tempo si era abituati, allora era indispensabile neutralizzare la carica potenzialmente destabilizzante ed eversiva di tutto ciò che aveva il sapore della novità.

Le donne della piccola e media borghesia e del proletariato urbano avevano, in quei pochi ma intensi anni di emergenza e di mobilitazione di tutte le risorse nazionali, sperimentato nuove opportunità di socializzazione e di organizzazione dell'esistenza, acquisendo lentamente consapevolezza delle proprie potenzialità e dei propri diritti come soggetti sociali e produttivi autonomi. Cessato il conflitto - allorché la parola d'ordine di un repentino «ritorno alla normalità» incominciò ad essere accolta da piú parti11 - proprio queste donne rischiavano di divenire l'anello debole della catena di rigide gerarchie sociali e sessuali che ora si intendeva ripristinare.

Bisognava, dunque, correre ai ripari. A mobilitarsi dapprima furono appunto le organizzazioni femminili cattoliche12, al cui interno dame piú o meno blasonate (alcune mosse da autentici sentimenti filantropici, le piú sostenitrici di un perbenismo retrivo), si impegnarono in una capillare opera di educazione e di propaganda tra le masse femminili maggiormente esposte alle insidie della corrotta civiltà urbano-industriale. Nei primi anni Venti, in un periodo in cui il nascente movimento di Mussolini era all'affannosa ricerca di una propria identità politico-ideologica e non si poneva ancora problemi inerenti la gestione del consenso popolare, furono proprio gli istituti e le organizzazioni cattoliche, da tempo radicati nel tessuto sociale italiano, ad assumersi l'incarico di far rientrare le donne «nei ranghi».

La pubblicistica periodica femminile assunse, pertanto, i connotati di diretta emanazione di organi quali l'Azione cattolica femminile o istituti come la Compagnia di San Paolo, al cui interno le signore della buona società, facendosi interpreti della necessità di «ricorrere a strumenti [...] moderni, piú razionali, piú incisivi» nell'ambito di «un disegno nel quale modernizzazione tecnologica e conservatorismo ideologico generalmente si fondevano»13, indossavano i panni di dispensatrici di consigli e suggerimenti impartiti attraverso testate quali «Fiamma viva» (1921), «Squilli di resurrezione» (1921), «Alba» (1922), «Beatrice» (1923) e «La Fiorita» (1927). Tutte pubblicazioni, queste, di scarso rilievo in quanto ad impostazione e tiratura, ma tutte ugualmente rispondenti all'obiettivo prioritario di diffondere tra le masse popolari i «sani» modelli comportamentali ed educativi del passato14.

Con gli anni Trenta si giunge ad un momento di rottura: mentre la Chiesa e lo Stato, alleati e concorrenti nella gestione del consenso di massa, si interrogano sul tipo di educazione e di formazione da impartire alle giovani generazioni femminili, la donna viene sottoposta a spinte contrastanti e a tensioni proprie di un nuovo tipo di cultura che suggerisce inediti modelli sociali e sessuali, assai piú liberi e disinibiti di quelli delle generazioni precedenti. La confusione e lo smarrimento sono, d'altro canto, una diretta conseguenza della stessa contraddittoria politica femminile fascista e del suo pretendere che le donne siano «al contempo cittadine responsabili e membri subordinati della famiglia, persone attive nella vita pubblica dell'Italia nuova, ma sottomesse all'autorità paterna»15.

Per quanto concerne, poi, propriamente il versante della carta stampata, anche qui si segnalano novità di un certo rilievo. Mentre il consolidamento del fascismo al potere obbliga molte testate a ridefinire i propri obiettivi e a ridimensionare le velleità che le avevano animate al momento della loro fondazione, i piú lungimiranti tra gli editori individuano nelle donne della piccola borghesia e del proletariato un fertile terreno ancora largamente inesplorato e che pare promettere, commercialmente parlando, assai bene. Come già negli anni precedenti, le riviste di evasione continuano, infatti, a costituire la stragrande maggioranza delle pubblicazioni indirizzate alle donne; ora, però, la conquista di nuove potenziali lettrici risulta largamente facilitata dall'innovativo procedimento fotomeccanico della stampa in rotocalco, consentendo esso una migliore riproduzione delle immagini e garantendo una presa piú diretta sulle ragazze attratte dalle nuove forme di divertimento e dai modelli di condotta piú emancipati che tanto scalpore vanno suscitando tra i benpensanti16.

Ancora una volta Milano si conferma capitale della moda e della pubblicistica femminile. Nel 1933 escono nella città lombarda «Eva. Rivista per la donna italiana», diretta da Ottavia Vitagliano (che si firma con lo pseudonimo «Sonia») e «Lei. Rivista di vita femminile», pubblicata da Rizzoli17, poi costretta a mutare il nome in «Annabella» (1938) all'epoca della campagna linguistica contro l'assai poco virile «lei». Nei medesimi anni altre testate, sorte nel confuso clima politico del primo dopoguerra ed animate da fieri e battaglieri propositi di rivendicazione dei diritti femminili, si vedono costrette ad attuare un repentino e drastico mutamento di rotta e a scendere a compromessi con un regime sempre piú invadente ed occhiuto. Inizia, cosí, il riflusso verso temi assai piú innocui e cari alla propaganda ufficiale. Affogati nella retorica dei «buoni sentimenti», dispensata a piene mani dalla novellistica rosa18, sostanzialmente avulsi dalla realtà sociale ed economica del tempo, i nuovi settimanali illustrati di moda e varietà ammiccano dalle edicole italiane, piacciono per i loro bei figurini e le elaborate immagini pubblicitarie, finendo col diventare un appuntamento fisso per molte giovani dei ceti urbani medio-bassi. L'accorto dosaggio di evasione-curiosità-pettegolezzi-consigli che li caratterizza si rivela una formula vincente, tanto che, opportunamente riammodernata, essa verrà ripresa nell'immediato secondo dopoguerra, quando i rotocalchi conosceranno un vero e proprio boom fino ad imporsi come «il ramo piú solido e fiorente dell'industria culturale di massa»19 del nostro paese.


Helga Dittrich-Johansen, La "donna nuova" di Mussolini tra evasione e consumismo


1 Negli ultimi anni si è, tuttavia, registrato un sensibile aumento dell'interesse per la pubblicistica periodica femminile del ventennio. Se oggi si può fare riferimento ad interessanti monografie sulle riviste piú impegnate sul piano politico ma anche maggiormente compromesse con il regime, è da segnalare però il perdurare di un notevole vuoto in merito a quelle a carattere propriamente divulgativo. Tra i contributi piú recenti e significativi su questo tema: S. Bartoloni, Il fascismo femminile e la sua stampa: la «Rassegna Femminile Italiana» (1925-1930), in «Nuova Dwf», 1982, n. 21, pp. 143-169; E. Mondello, La nuova italiana. La donna nella stampa e nella cultura del ventennio, Roma, Editori Riuniti, 1987; S. Follacchio, Conversando di femminismo. «La Donna italiana», e M. Saracinelli-N. Totti, «L'Almanacco della donna italiana»: dai movimenti femminili ai fasci (1920-1943), entrambi in M. Addis Saba, a cura di, La corporazione delle donne. Ricerche e studi sui modelli femminili nel ventennio, Firenze, Vallecchi, 1988, pp. 171-225 e pp. 73-126. Ho trattato le riviste femminili durante il fascismo, con particolare riferimento ai temi della maternità e del lavoro, nel mio Dal privato al pubblico: maternità e lavoro nelle riviste femminili dell'epoca fascista, in «Studi Storici», 35, 1994, pp.207-243.

2 Cfr. L. Lilli, La stampa femminile, in V. Castronovo-N. Tranfaglia, a cura di, La stampa italiana del neocapitalismo, Roma-Bari, Laterza, 1976, p. 276.

3 La donna diviene, infatti, oggetto nel corso del ventennio di una continua ed ossessiva attenzione da parte della propaganda politica specificamente fascista, come confermano i discorsi di Mussolini e dei suoi gerarchi, la stampa ufficiale di regime, l'organizzazione dei Fasci femminili (senza contare la miriade di manifestazioni e celebrazioni tenute su tutto il territorio nazionale). Sulla questione femminile nel fascismo si vedano in particolare V. De Grazia, Le donne nel regime fascista, Venezia, Marsilio, 1993; M. Fraddosio, Le donne e il fascismo. Ricerche e problemi di interpretazione, in «Storia contemporanea», 1986, n. 2, pp. 95-135; P. Meldini, Sposa e madre esemplare. Ideologia e politica della donna e della famiglia durante il fascismo, Rimini-Firenze, Guaraldi, 1975. Un'analisi storiografica del rapporto Chiesa-fascismo in materia femminile, con particolare riferimento al settore della pubblicistica periodica, è proposta invece da S. Portaccio, La donna nella stampa popolare cattolica. «Famiglia Cristiana», 1931-1945, in «Italia

contemporanea», 1981, n. 143, pp. 45-68.

4 La nascita della stampa illustrata femminile, all'inizio interamente dedicata alla moda, si può collocare già nel periodo precedente l'Unità nazionale, epoca in cui il primato era detenuto dall'editore Alessandro Lampugnani proprietario di testate quali il «Corriere delle dame», il «Giornale delle famiglie», «La Moda» e «Le Ore casalinghe». Di poco posteriori (1864-65) erano le riviste illustrate pubblicate da Edoardo Sonzogno: «La Novità», «Il Tesoro delle famiglie», «La Moderna ricamatrice» e «Il Monitore delle sarte».

Per un maggiore approfondimento sul tema D. Bertoni Jovine, La stampa femminile in Italia, in Enciclopedia moderna della donna, vol. I, Roma, Editori Riuniti, 1967, pp. 107-159.

5 Va, tuttavia, rilevato il fatto che il giornale femminile ubbidisce sin dai suoi esordi ad una concezione prevalentemente commerciale. Fatta eccezione per le riviste di impostazione cattolica con intenti dichiaratamente educativi, già gli editori di fine Ottocento, soprattutto milanesi, «puntavano su riviste di svago e di intrattenimento, che rispondevano alle esigenze del mercato e quindi potevano garantire dei buoni profitti» (R. Carrarini, Tendenze e caratteri della stampa destinata alle donne, in A. Marchetti Gigli-N. Torcellan, a cura di, Donna lombarda, 1860-1945, Milano, Angeli, 1992, p. 279).

6 E. Mondello, op. cit., p. 107.

7 Lo sviluppo della stampa illustrata femminile in Italia è descritto, con particolare riferimento all'area lombarda, in R. Carrarini, op. cit. Si veda anche M. Giordano, La stampa illustrata in Italia dalle origini alla grande guerra, 1835-1915, Milano, Guanda, 1983.

8 Già negli ultimi decenni del secolo scorso, stando a quanto riferisce l'editore Eugenio Torelli Violler, i giornali di moda erano divenuti «una specialità milanese». Da un'analisi comparata dei piú importanti repertori e cataloghi dei periodici redatti in quegli anni risulta, inoltre, confermata l'esistenza di «un primato milanese per quanto riguarda la pubblicazione di giornali di mode, riscontrabile fin dal primo decennio dopo l'Unità» (ivi, p.275). Su questo, oltre a M.Giordano, op. cit., si rimanda a L.Barile, Per una storia dell'editoria popolare: le riviste Sonzogno, in «Esperienze letterarie», 1977, n. 1, pp. 96-110.

9 Laura Lilli individua proprio nella stampa femminile, specie in quella di impostazione cattolica, uno dei principali veicoli di diffusione della «favola di Cenerentola», la cui morale risiede nel fatto che «la donna è l'angelo del focolare: il suo riscatto - sempre confinato alle pareti domestiche - prevede che, se ha fortuna, eccezionalmente essa passi dalle cucine ai fasti dei piani superiori [...] Il biglietto per partecipare a questa lotteria è che Cenerentola sia bella e brava, il che significa degna, prima di tutto, del consenso del sistema» (L. Lilli, op. cit., p. 262). Il tema del condizionamento ideologico esercitato dalla stampa sulle donne è analizzato anche in G. Dal Pozzo-L. Lilli, a cura di, Perché la stampa femminile?, Ferrara, Bovolenta, 1977, e G. Pezzuoli, La stampa femminile come ideologia, Milano, Il Formichiere, 1975.

10 Per il periodo emancipazionista e suffragista del movimento femminile italiano il rinvio bibliografico è ai due testi ormai classici di F.Pieroni Bortolotti., Alle origini del movimento femminile in Italia, Torino, Einaudi, 1963, in particolare i capp. VI (Socialismo e questione femminile) e VII (Tradizione democratica e nuove prospettive), e Femminismo e partiti politici in Italia, 1919-1926, Roma, Editori Riuniti, 1978. Cfr. anche A. Rossi-Doria, a cura di, La libertà delle donne. Voci della tradizione politica suffragista, Torino, Rosenberg & Sellier, 1990. Sul tema piú specifico della stampa emancipazionista si vedano, invece, i contributi di A. Buttafuoco, «Sprezza chi ride». Politica e cultura nei periodici del movimento di emancipazione in Italia, in «Nuova Dwf», 1982, n. 21, pp. 7-34, e Cronache femminili. Temi e momenti della stampa emancipazionista in Italia dall'Unità al Fascismo, Siena, Dipartimento di studi storico-sociali e filosofici, Università degli studi di Siena, 1988.

11 La politica familista, compendiata nel celebre motto «le donne a casa», divenne uno dei principali cavalli di battaglia del regime, coadiuvato in ciò dalla Chiesa e dalle numerose associazioni cattoliche disseminate sul territorio nazionale. Tra gli innumerevoli esempi che si potrebbero citare su quella che divenne un'autentica tempesta retorica ecco un passo tratto dalla rivista «Il mare nostro», secondo cui la donna deve essere educata «circondandola di premure e di affetto nella casa, la quale deve essere la sua reggia, vietandole qualsiasi abitudine extrafamiliare» (cit. in O. Del Buono, a cura di, Eia, Eia, Eia, Alalà! La stampa italiana sotto il fascismo, 1919/1943, Milano, Feltrinelli, 1971, p. 330).

12 Su questo aspetto rinvio a C. Dau Novelli, Società, chiesa e associazionismo femminile. L'Unione fra le donne cattoliche d'Italia, 1902-1919, Roma, 1988, e P. Gaiotti De Biase, Le origini del movimento cattolico femminile, Brescia, 1963.

13 S. Pivato, L'organizzazione cattolica della cultura di massa durante il fascismo, in «Italia contemporanea», 1978, n. 132, p. 5.

14 La stampa femminile cattolica conosce, nell'immediato primo dopoguerra, un notevole sviluppo soprattutto nell'area milanese e lombarda, dove nel 1918 esce «Le Nostre battaglie», organo della Gioventú femminile cattolica italiana, e nel 1919 inizia ad essere pubblicato il mensile dell'Unione donne di Azione cattolica «Fortes in fide». Ulteriori notizie in M. De Giorgio, Metodi e tempi di un'educazione sentimentale. La Gioventú Femminile Cattolica negli anni Venti, in «Nuova Dwf», 1979, nn. 10-11, pp. 126-145, e M. De Giorgio-P. Di Cori, Politica e sentimenti: le organizzazioni femminili cattoliche dall'età giolittiana al fascismo, in «Storia contemporanea», 1980, n. 3, pp. 337-371.

15 V. De Grazia, Le donne nel regime fascista, cit., p. 167.

16 Su questo tema si vedano i contributi di B.P.F. Wanrooij, Il casto talamo. Il dibattito sulla morale sessuale nel ventennio fascista, in Cultura e società negli anni del fascismo, Milano, Cordani, 1987, pp. 533-561, e Storia del pudore. La questione sessuale in Italia, 1860-1940, Venezia, Marsilio, 1990.

17 Angelo Rizzoli è il primo editore italiano a inaugurare (1927) la stampa in rotocalco. Sulla presenza della casa editrice Rizzoli nella pubblicistica periodica femminile si rimanda a R. Carrarini, op. cit., pp. 285-286.

18 Sulla letteratura rosa e sul suo successo all'interno della stampa delle donne, oltre al datato ma ancora valido saggio di R. Balbi, Storia e ragioni del romanzo rosa, in «Paragone», 1953, n. 38, pp. 28-34, si rimanda ai seguenti contributi piú recenti: M. Giocondi, Lettori in camicia nera. Narrativa di successo nell'Italia fascista, Messina-Firenze, G. D'Anna, 1978; P. Cavallo-P. Iaccio, Ceti medi emergenti e immagine della donna nella letteratura rosa degli anni Trenta, in «Storia contemporanea», 1984, n. 6, pp. 1149-1170; e G. De Donato-V. Gazzola Stacchini, a cura di, I best seller del Ventennio. Il regime e il libro di massa, Roma, Editori Riuniti, 1991.

19 L. Lilli, La stampa femminile, cit., p. 254. Per la stampa femminile del secondo dopoguerra, analizzata nei suoi aspetti sia tecnici sia ideologici, si rimanda a: A.C. Quintavalle, a cura di, La bella addormentata. Morfologia e struttura del settimanale italiano, Parma, Istituto di storia dell'arte dell'Università degli studi di Parma, 1972; M. Buonanno, Naturale come sei, Firenze, Guaraldi, 1975.