Lezione 8

 

 

Parte speciale

NEVROSI 2

Raffaella Colombo

 

 

 

Premessa
Inizio riprendendo l’argomento della lezione scorsa, perlomeno dei primi cinque punti, anzi dei primi quattro punti. Dal secondo: l’errore come errore della moralità, il principio di piacere come moralità.
Riprendo i punti e poi aggiungo e passerò in seguito a dare una definizione di "giudizio" (e per questo mi riferisco a Freud) e dei processi di pensiero, con le regole del pensiero, per passare poi agli errori di giudizio.

I. Definizione di "giudizio" e di "errore di giudizio"
Nelle nevrosi avviene un mutamento di segno del bene ossia di ciò che si presenta nell’esperienza come bene. Si tratta della relazione (questo bene), dell’amore a qualcuno. Nelle nevrosi, il bene (l’amore a qualcuno) diventa male, per salvare il bene. Per salvare la relazione (dire "sessuale" è pleonastico) diventa male il sesso, lo diventa, "male", diventando oggetto. Nelle nevrosi (questo riguarda ancora la volta scorsa) avviene un mutamento di segno del principio del bene, "Padre", la causa del desiderio, l’ambito di ogni possibile, già come pensabile, relazione. Nella nevrosi, in modi diversi, il "Padre" si pone come obiezione in quanto causa del desiderio, e come obiezione, quindi, si pone il sesso in quanto passa a oggetto. E proprio questo è l’errore del giudizio, che riprenderò più tardi.
L’errore, l’oggetto dell’errore, sta nel fare del sesso un oggetto, mentre il sesso è un bene sempre, perché è sempre legato (è il bambino, finché va bene, a saperlo, per esperienza personale) alla soddisfazione; l’errore sta nel determinarlo, il che comporta determinare la soddisfazione, cioè comporta determinare il bene stesso, anzi: comporta il determinare il piacere stesso. Il dubbio, così, investe il principio stesso del piacere, ciò che risulta come evidenza viene messo in questione.
Riguardo al giudizio, avviene un venir meno di ciò che muove il giudizio stesso. Determinando il bene (il sesso), l’intervento menzognero dell’altro definisce il bene per altre vie dalla personale capacità di riconoscimento del bene stesso, per altre vie dall’evidenza, e il bene, così predeterminato, finisce male, finisce male in male. Mi veniva alla mente l’esempio di un bambino di tre anni, che ho conosciuto, che ha ricevuto il suggerimento superfluo, la dannosa prescrizione del padre, in questo caso..., un bambino che aveva nella sua stanza un metro, un metro per misurare l’altezza. Il padre gli ha dato questa prescrizione: "Quando sarai alto tanto quanto l’indianino (la figura di un indiano posto su questo metro), non userai più i pannolini e userai come tutti il gabinetto", mentre è inutile dare una misura del genere. Da quel momento il bambino ha smesso completamente, si è ritenuto, si è trattenuto, non ha più..., è diventato stitico, completamente: "né nei pannolini né nel gabinetto", per giorni e giorni.
La causa dell’errore, nella moralità, si trova nella menzogna dell’altro. È la menzogna di chi ha rinnegato la relazione ossia di chi ha già preso la decisione di chiudere riguardo al "Padre" e a un possibile qualcuno come oggetto del desiderio. E ciò fino alla decisione seguente: "Non c’è "Padre", non c’è relazione". Vi è però determinazione: è il massimo di legge nell’assenza di ambito di legge. Tale menzogna è una decisione presa riguardo al giudizio: non c’è "Padre" = non c’è giudizio.
Nella perversione ogni altro sensibile viene ridotto a elemento, a oggetto astratto, oggetto cattivo perché oggetto. Senza "Padre" (senza giudizio), non vi può essere oggetto del pensiero: si crea il pensiero dell’oggetto e il pensiero stesso si crea l’oggetto, che è un oggetto astratto. Mentre nella nevrosi l’oggetto del pensiero resta il bene, ma è deformato.
La risposta (questo era il punto quattro), la risposta alla causa dell’errore è la difesa, risposta inadeguata per giudizio insufficiente: se ci fosse giudizio, questo sarebbe la difesa adeguata.
Allora, cos’è il giudizio? Ne do alcune definizioni. La prima, la più sintetica, è che il giudizio è una frase; è la formulazione di una frase già prima della capacità di parlare. Questo viene detto cent’anni fa.
Elenco una serie di definizioni: giudizio come la prima deduzione dell’esserci del pensiero e non dell’esserci dell’esistenza. Ciò prima ancora della parola in quanto segno dell’attività di pensiero (conoscitivo, mnemonico e critico). Giudizio come l’inizio di ogni pensiero che deriva dal pensiero pratico, essendo questo (il pensiero pratico) lo scopo finale di ogni processo di pensiero e l’origine di tutti.
Il giudizio è la scomposizione di un complesso percettivo in una parte, non assimilabile all’io (cioè è quello che chiamiamo comunemente "una cosa", "le cose"), e una parte conosciuta dall’io mediante la sua stessa esperienza. Questa seconda parte è costituita dagli attributi (o attività o movimenti nel complesso percettivo dell’altro). Il giudizio è già inizialmente la scomposizione, fra soggetto e predicato, di ciò che appare alla percezione.
E già inizialmente il giudizio è legato all’espressione verbale (tramite l’esperienza del singolo) quanto a suoni, in due punti, nel bambino piccolo: quanto a ciò che fa gridare, che produce dolore, così che l’informazione del proprio grido di dolore serve a caratterizzare un oggetto come ostile, spiacevole e provoca i primi ricordi ("Mi va", "Non mi va", il primo giudizio). Il secondo punto (in connessione con i suoni) sono i suoni emessi dalla realtà percepita (le cose che fan rumore) o è un’informazione di movimento. In questo caso il giudizio fa emergere la tendenza a imitare, e aggiungo: dal "Mi va", c’è passaggio al "Va", "Vado".
Che cosa muove al giudizio? Che inizio ha il giudizio? L’interesse per la differenza; ogni attività di pensiero muove da uno stato di attesa di soddisfazione. L’inizio del giudizio sta nell’interesse suscitato dalle percezioni; le percezioni suscitano interesse e lo suscitano a causa della loro possibile relazione con l’oggetto desiderato. È ciò che non coincide con il già noto, è la differenza e non la somiglianza a suscitare l’interesse, ed è esattamente il contrario della nevrosi o della malattia in generale. Anzi, proprio l’interesse alla situazione di soddisfazione produce non solo il giudizio: il giudizio da una parte (come conoscenza, come interesse, curiosità, come pensiero conoscitivo) e dall’altra la memoria (la memoria del pensiero pratico).
Eppure già la definizione di giudizio fa apparire inevitabile l’errore di giudizio, per almeno due motivi. Il primo è il fatto che il giudizio implica una parte che al giudizio stesso si sottrae; è il fatto che il giudizio porta la conoscenza di una parte del complesso percettivo, la parte attiva dell’altro incontrato, i suoi movimenti, quella parte che sola è conoscibile perché è confrontabile con i movimenti, l’esperienza di moto dell’io giudicante. Ciò che è giudicabile è ciò che è confrontabile con la propria esperienza, con l’esperienza del proprio movimento, e non ci sarebbe il giudizio se non vi fosse una parte non giudicabile, cioè una parte che rimane costante. Il secondo motivo di inevitabilità dell’errore è il fatto che l’altro è irrinunciabile e questo espone l’individuo all’inganno (e riprenderò alla fine).

II. I quattro processi di pensiero
Adesso un inciso: presento i quattro processi di pensiero, così come li ha isolati, come li ha individuati Freud e le due regole che il pensiero segue.
Appunto, sono quattro i processi di pensiero. Dire questo è dire che il primo pensiero pratico (già detto che è il primo pensiero e lo scopo del pensiero) non basta al suo scopo. Il pensiero pratico non basta allo scopo di produrre il sapere pratico necessario all’azione specifica. L’azione specifica è l’azione che porta alla relazione soddisfacente; vi possono essere diverse azioni, ve n’è una specifica: quella che porta alla relazione soddisfacente. Allo scopo pratico del pensiero servono: la conoscenza (di cui il giudizio è un mezzo), la memoria (che è memoria di pensiero pratico) e il pensiero critico. Il pensiero conoscitivo, mnemonico e critico non hanno scopo pratico immediato, loro scopo è la facilitazione del pensiero pratico.

Il pensiero pratico produce un sapere pratico come risultato, ma non produce ricordo di pensiero. Retto dalla regola biologica della difesa, il pensiero pratico persegue solo ciò che dà piacere, arrestandosi, come processo, di fronte al dispiacere. Tale limite viene superato dal giudizio, mediante la parola; la parola che, come già visto, favorisce il ricordo e anche il perseguimento di ogni percezione, anche di ciò che può risultare spiacevole (era quello che dicevo riguardo ai primi ricordi: piacevoli e spiacevoli, comunque legati al suono). Allora, il pensiero pratico è il più antico (questa è una ripetizione), procede da uno stato di attesa, da un investimento di desiderio; è un pensiero che non conduce direttamente all’azione (questo è importante), ma a un sapere pratico da usare all’occorrenza e intanto messo..., memorizzato..., diventato nel frattempo memoria di pensiero. Questo grazie dunque alla memoria di pensiero, e serve all’esecuzione dell’azione specifica, cioè la mossa verso l’altro.

Il pensiero conoscitivo (o osservante o teoretico o sperimentante) costituisce, per il pensiero pratico, un’economia, grazie alla facoltà di giudizio. È il nostro modo abituale di pensare; è il comune pensiero, a tutti normalmente inconscio, attivato dalle percezioni e capace di coscienza grazie alla parola. Secondario cronologicamente al pratico, lo serve, lo facilita; inizialmente tale servizio è offerto dal primo giudizio, infatti inizialmente lo serve, logicamente precede il pensiero pratico.

Il pensiero mnemonico (o riproduttivo) è costituito dal risveglio di pensieri già fatti, e bene, ed è attivato dalla differenza. È in parte incluso nel pensiero pratico, pur essendo più di questo: è infatti preliminare all’ultimo (cronologicamente) pensiero: il pensiero critico.
Questo, senza scopo pratico immediato (anche se ultimamente, come tutti, non meno pratico), è, come il pensiero teoretico, al servizio della soddisfazione, della soddisfazione dell’attività del pensiero; questo serve alla soddisfazione dell’attività del pensiero. Si tratta del secondo giudizio. Cosa vuole dire soddisfazione dell’attività del pensiero? Viene attivato dal dispiacere provocato da contraddizioni del pensiero, cioè il pensiero stesso provoca dispiacere. Viene attivato infatti dal dispiacere provocato da contraddizioni del pensiero e, fra queste contraddizioni, gli errori di giudizio.

Il pensiero critico persegue inversamente (e forse fino alla percezione, quindi inversamente rispetto al pensiero conoscitivo) un processo di pensiero dato, incontrandone delle tracce di memoria. Suo scopo è la conclusione, conclusione o progresso del primo giudizio. Il progresso del primo giudizio è uguale a conclusione del pensiero. Questi erano i quattro processi di pensiero.

III. Le due regole del pensiero
Il pensiero osserva due regole, sono due regole biologiche: la difesa dalla minaccia di dispiacere e l’attenzione. Fra regole del pensiero (la difesa e l’attenzione) e contraddizioni di pensiero vi è un nesso diretto: di fronte alla contraddizione il pensiero conoscitivo si arresta per il dispiacere intellettuale che lo sbaglio provoca e questo stesso dispiacere è il dispiacere che difende, che protegge le due regole del pensiero. Questo è il nesso.
Allora, la difesa (la difesa dalla minaccia di dispiacere, dall’esperienza dolorosa) provoca repulsione; è la rimozione in quanto esperienza di cessazione di ciò che ha provocato dolore. La difesa viene eseguita nel pensiero pratico che per questo subisce un arresto di fronte al dispiacere, mentre l’attenzione (ossia la distinzione fra investimenti di desideri e investimenti percettivi) è osservata dal pensiero conoscitivo.
L’attenzione è causata dall’interesse, dall’attrazione positiva per l’oggetto del desiderio; un’attrazione per l’oggetto del desiderio provoca l’attenzione a tutto, perché potrebbe essere possibile che fra le percezioni vi sia ciò che corrisponde all’oggetto del desiderio.

IV. Gli errori di giudizio
Arrivo agli errori. Sembra inevitabile che l’errore del giudizio vi sia. La possibilità dell’errore del giudizio è data dal fatto che il pensiero, di fronte alla contraddizione, si arresta. E sembra inevitabile l’errore per il fatto che l’ambito del giudizio è un complesso percettivo: il complesso dell’altro, sensibile, incontrabile, giudicabile quanto ai suoi movimenti. E più precisamente per il fatto che, da sempre, il desiderio e la sua soddisfazione sono legati ad un’esperienza fatta e scoperta come soddisfacente, nella quale esperienza (scoperta come soddisfacente) l’altro si presenta come mezzo irrinunciabile per il bene, e poiché mezzo per la soddisfazione, la relazione non può essere rinunciata. Allora, la difesa è innanzitutto difesa della soddisfazione, del piacere, prima che dal dispiacere, ed è difesa dell’altro. Ecco dove si insinua l’errore del giudizio: cioè l’altro va difeso, perché fa parte dell’esperienza di soddisfazione.
Gli errori di giudizio consistono in sbagli nelle premesse, per questo motivo: nella sostituzione (o riduzione) a un singolo dato, di ciò che è un complesso di dati; anzitutto nel rendere oggetto ciò che non lo è, e questo per il venir meno della scoperta dell’evidenza del bene; cioè il bene, che era evidenza, viene meno in quanto evidenza.
A questo singolo dato tra un complesso di dati si applica il primo giudizio ("va bene"); un fattore, un singolo elemento, che esclude tutti gli altri, anzi, esclude tutti i fattori contraddetti dall’attività dell’altro (azioni, parole, pensieri), e tale fattore a cui si riduce il giudizio è un fattore già noto. L’errore del giudizio consiste quindi nella fissazione a ciò che è già noto, senza confronto con altri con cui "va bene", senza la possibilità di cogliere quanto invece non va più bene.
Allora: l’altro irrinunciabile..., dell’altro irrinunciabile, quanto provoca dispiacere viene rimosso; il passo all’errore sta nell’assunzione dell’azione dell’altro per piacere all’altro, che però contraddice l’esperienza del soggetto, di ciò che è un sapere pratico e una memoria di pensiero. Vi può essere assunzione fino a rinuncia al giudizio per salvaguardare la relazione. All’osservazione da cui procede il giudizio, si sostituisce un pensiero già fatto. L’esperienza di soddisfazione viene resa oggetto della coscienza, quando invece è fonte, occasione, causa per l’attività del pensiero. L’esperienza della soddisfazione viene resa oggetto della coscienza, mentre era fonte, era causa dell’attività del pensiero.
Ora, per ritornare ai pensieri, ai processi di pensiero: se l’insufficienza del primo giudizio si può protrarre in una fissazione sul già noto (e questo è l’errore), l’insufficienza del primo giudizio può invece concludersi in un secondo giudizio (il pensiero critico), che pure si formula come il primo giudizio in una frase, la frase "Va bene così", ma una frase formulata, come il primo giudizio, dopo aver rifatto memoria del primo giudizio, per mezzo di qualcuno che ne ha facoltà di permetterlo ossia di permettere di fare una critica nei confronti di coloro con cui, invece, bene non va, il che è una critica di pensieri (non solo delle azioni e delle parole: dei pensieri). E allora (ecco il lato paradossale nel giudizio e nell’errore): è l’irrinunciabilità stessa al bene ossia alla relazione, al far sì che la relazione debba essere salvata in ogni modo, anche penosamente, e la riduzione del complesso dell’altro al già noto, come soddisfazione, cioè la fissazione nella via larga, nella via più breve, è la via più facile a garantire la permanenza della relazione.

 

Giacomo B. Contri

 

Quanto a me, ho giudicato che meritasse prendere tempo alla mia esposizione, in primo luogo perché trovo che la domanda di ponte, come mi sono espresso prima, è anche più che soddisfatta e infatti il punto da cui riprenderò lo mostra. Suggerisco a tutti che... (quando, grazie a Pietro Cavalleri, avremo in mano anche questo testo), che lo leggiamo attentamente perché non c’era nessuna ridondanza, ripetizione e ogni frase vale per sé stessa. Quindi grazie.
Io riprendo e aggiungo il commento buono, perché era buono quanto abbiamo sentito, io riprendo da... Non è affatto grave che la mia esposizione sia un po’ abbreviata: se questo Corso servisse per fissare i quadri, i titoli di questa concezione che si sta esponendo, basterebbe; sarebbe da essere soddisfatti della sola partizione della materia, come si dice in università. Allora, io stasera almeno farò della partizione della materia.

1. Inevitabilità di una parte della psicopatologia
Prendo l’ultimo metro di ponte ora fatto, per ripigliare l’esposizione; ultimo metro di ponte dato da questa frase: "Inevitabile è l’errore di giudizio". Credo..., a me è stato intelleggibile molto bene (credo a tutti)...: la motivazione per cui l’errore del giudizio è inevitabile. Questo giudizio (perché anche questo è un giudizio) verte subito sulla domanda della inevitabilità della patologia. Noi siamo tutti avvezzi alle frasi un po’ banali: "Siamo tutti un po’ malati", soprattutto "Gli uomini sono un po’ nevrotici", e le banalizzazioni come questa. Invece, il quesito se la malattia, come qui ne ho parlato, sia o non inevitabile, è un quesito inevitabile e deve avere una risposta; è un quesito degno, è un quesito che deve essere posto, che si pone e che deve avere una risposta.
Io mi associo alla frase, al giudizio espresso ora da Raffaella: "È inevitabile l’errore del giudizio", proseguendo questa frase dicendo: "Sì, allora è vero che (non solo grazie ai mezzi della statistica, ma infischiandoci completamente dei mezzi della statistica), è vero che una parte della psicopatologia è inevitabile", ripartendo dalla prima frase detta, se ben ricordo, in questa stanza, che: "L’uomo nasce sano, non nasce malato; non è vero che l’uomo è un animale malato". Tutto ciò che Raffaella Colombo ha detto presuppone la nascita sana. Anziché dire "presuppone" (ma ora non voglio sofisticare) si potrebbe dire "è una descrizione" della nascita sana, come si descrive un fenomeno nell’ordine della natura.
Quando ho detto (ciò che ora sto esponendo non era preparato, ma lo trovo la migliore preparazione a ciò che riuscirò a dire nella serata), quando dico che una parte (non "tutta la", ma una parte) della patologia, della psicopatologia, è inevitabile... (e dire inevitabile è dire che ci passano tutti, senza bisogno di fare un’inchiesta sul miliardo di cinesi, sulle non so quante decine di migliaia di italiani e tutti gli altri)...
Quale parte è inevitabile? Quest’altra domanda corrisponde esattamente alla distinzione fra patologia non clinica e patologia clinica. È inevitabile quella che è stata posta come la malattia antecedente la nevrosi stessa e antecedente a tutte le altre e implicita a tutte le altre nel suo contenuto clinico, sintomatico e non solo. Aggiungo, secondo me è inevitabile la nevrosi (discussione aperta), il passaggio dalla malattia alla nevrosi. Concludo: non è affatto vero che è inevitabile la perversione e la psicosi. Sulla perversione la discussione non è aperta (non nel senso che non ne possiamo discutere e che il mio sia il verbo definitivo), ma nella logica della costruzione qui proposta è indiscutibile che la perversione è evitabile. Mentre la discussione..., all’interno della logica di questa descrizione - per me, per il mio intelletto di persona che sta esponendo - ... è aperta la discussione sulla evitabilità della psicosi. Ma certamente, se malattia e nevrosi sono inevitabili (ci si passa, non si può non passarci), il passaggio alla perversione è perfettamente evitabile e richiede un passaggio ulteriore. E, per usare una parola su cui Bonora mi ha provocato più volte e che ora riprenderò, il passaggio alla perversione è un passaggio doloso e può essere evitato. È la definizione stessa del dolo.
E come al solito cento cose, ma devo riuscire ad arrivare almeno a impostare (neanche, non sarebbe ben detto) la classificazione delle nevrosi (essendo la volta scorsa dedicata alla nevrosi, cioè al concetto di unità di nevrosi). Come si dirà per le psicosi: non ci sono le psicosi, c’è la psicosi, poi ci sono delle psicosi; come si è detto che c’è la perversione e poi, solo poi, ci sono le perversioni. Ma fin qui sarebbe un’ovvietà: ognuno si aspetta che, essendoci tante forme patologiche, prima o poi arrivi la parte più stucchevole, in cui si apre la serie di capitoli A. B. C. D. E. Non è così; se anche (e se riuscirò mi fermerò almeno su queste due per un momento), se anche ci accontentassimo, quanto alla lista delle nevrosi, di elencarvi isteria, nevrosi ossessiva (e senza procedere nelle distinzioni o nelle connessioni di queste con la nevrosi di angoscia, con la nevrosi fobica, la distinzione di tutte queste con le nevrosi attuali e poi ancora ancora, e tutta questa manualistica, la storia di una manualistica che peraltro non ha mai risolto nulla in questi cenni sistematici), il punto cui spero di arrivare a costo di saltare il novanta per cento delle cose preparate, il punto difficile è quello di afferrare che non abbiamo assolutamente a che fare con le distinzioni che ci sono fra l’infezione A, l’infezione B, l’infezione C, l’infezione D ossia che, anche solo a livello classificatorio, il modello classificatorio delle scienze naturali, per esempio la medicina, non ha assolutamente il minimo potere di incidenza, di esplicazione, anche solo di sistematizzazione. Lo dico in un altro modo più..., diciamo, più pungente nel senso che, se anche nessuno dei presenti avesse la minima infarinatura di queste cose, dopotutto i nomi delle nevrosi sono correnti e dunque mi sembra abbastanza acuto il dire, il ridire ciò che ho appena detto così ossia che non c’è l’isteria, la nevrosi ossessiva, la nevrosi C, la nevrosi D, ma la nevrosi (unica dunque) che include in sé tutte le altre è l’isteria. Ma fra un momento, nella misura in cui la chiarezza riuscirà a essere compatibile con l’ora, si capirà meglio ed è meglio non capire in anticipo.

2. Il nevrotico è l’inventore della famiglia moderna
Dato che una numerazione serve, ciò che ho appena detto potrebbe essere il primo punto, il secondo dei punti essendo questo. Esso ha un carattere che potrà sembrarvi un po’ aforistico, non lo è, è sistematico anche questo: definisco il nevrotico l’inventore della famiglia moderna, della famiglia moderna come nucleo patogeno. Perché? Perché occorre il nevrotico per fare la teoria che la storia e le condizioni della propria nascita e vita (immediata o più tardiva dopo di essa), che la propria nascita e le condizioni immediatamente successive trovano nella famiglia il luogo della causalità della propria malattia.
Famiglia, rapporti, storia, interazioni (come dicono gli psicologi, parola che qui non va usata perché non c’entra), ma fosse anche complesso edipico e le seduzioni infantili e tutto il resto: "La famiglia è il luogo del sistema delle cause della mia malattia (nevrosi o tutto il resto)", è una teoria che è propriamente nevrotica e poi diventa ancora più grave in forme successive (nella patologia non clinica) e che è semplicemente falsa. Ma è con questa teoria che il nevrotico è stato l’inventore della famiglia moderna come nucleo patogeno. Lo esprimo anche in un altro modo: la famiglia moderna come nucleo patogeno, perché la famiglia moderna come il luogo del sistema delle cause per cui sono divenuto così o così. Una famiglia così concepita, praticata, vissuta, sistemata giuridicamente, eccetera, è una antitesi all’universo. Ma finché mi esprimo in questo modo vi sembra una riflessione "alta"; allora vi mostro che la riflessione ha un precisissimo e immediato carattere clinico e terapeutico. Che cosa si intenda per noi con "universo", è stato chiarito: che anche se non esiste un padre così "Padre" da far sì che tutti siano i suoi figli, universo significa che tutti sono figli. Ma ancora questo è un po’ "alto", un po’ astratto.
L’immediato valore pratico e terapeutico di questo lo si vede (dico: immediato) nel dato di osservazione per cui un qualsiasi malato (malato, nevrotico, psicotico, perverso, tutto quello che riuscite aggiungere, se riuscite a fare delle aggiunte sistematiche)..., il segno (a mio parere il primo) della guarigione non è neppure il fatto che "non dormivo e ora dormo", "non mangiavo, ma mangio e tutto il resto", ma sta nel fatto di avere realizzato che sono un ex-malato, ora guarito, per il fatto che ho realizzato nella mia condotta, nelle mie preoccupazioni, nei miei pensieri e non solo nelle teorie autoesplicative della mia malattia..., che ho realizzato (questo è il segno) che i miei genitori erano dei figli anche loro esattamente come me e tutti gli altri. In altri termini si è arrestato uno degli aspetti più massacranti della fissazione patologica: non esiste più la fissazione alla famiglia, ai ricordi della storia familiare, e "fine della fiera" (come in università non si dice), ma guarigione vuole dire "fine della fiera", anzitutto di un sistema di pensieri, perché la guarigione è anzitutto guarigione dei pensieri. Finché, andando a letto questa sera, io avrò ancora bisogno di pensare che se ho qualcosa qui è colpa dei miei genitori, io sono in pieno nella mia patologia antecedente, nel modo più grave e permanente, fisso e ripetitivo.
Assolutamente tipico della nevrosi (non della perversione) e della nevrosi come l’ho accennata ora. Ma adagio, non ho ancora definito nulla a questo proposito... È assolutamente tipico della patologia, con tutti i suoi aspetti sintomatici, inibitori, affettivi, attivi, ripetitivi, il fatto che i genitori non vengono lasciati in pace né da vivi né da morti. Vi potrei parlare ora sulla clinica della frase che ho appena detto, ma non avete bisogno perché voi tutti siete dei fenomeni clinici come me, per cui i fenomeni, le pezze documentarie di ciò che sto dicendo, le conosce..., vi vedo in viso e vedo che le riconoscete... Non vengono lasciati in pace né da vivi né da morti, per il fatto che non vengono riconosciuti come soggetti ossia come figli. Fenomeno interessante è che io, che vado da un terapeuta (ora non ho tempo di dire perché ormai io preferisco terapeuta a psicoanalista, ed è molto importante questo punto, io che non ho niente da spartire con gli psicoterapeuti, assolutamente...), io (genitore, padre) che vado da un terapeuta, quando sono lì (eccetto che non mi metta alla porta il giorno dopo perché vede che con me non si cava un ragno dal buco), è del tutto evidente che sono lì che gli parlo da figlio, non ci sono assolutamente dubbi. Il genitore, madre o padre, che va dal terapeuta (o dal mago, dal prete, dallo sciamano) e gli parla dei propri figli, anziché parlare di propri problemi, è così gravemente malato che non c’è assolutamente niente da fare, è una cosa assolutamente ovvia fin dall’inizio. È come figlio che parlo come malato in vista di una guarigione. Non accorgendomi che nel mentre mi sto comportando in questo modo, io che sono padre o madre, eppure non parlo affatto dei miei figli o delle mie preoccupazioni pedagogiche per esempio, per essi, e parlo da figlio..., magari vado avanti per sei anni di questo trattamento, a parlare dei miei genitori come padri e madri e non come figli, non mi rendo conto di questa strabiliante e volgare contraddizione (volgare nel senso di vistoso. A me piace la parola "volgare": vuole dire "triviale", da volgo, da trivio, comune a tutti).
Ed ecco perché è corretto continuare a considerare che la nevrosi è post-puberale. Non è soltanto come (non scorrettamente, ma parzialmente) si è sempre considerato: che il dato biologico e reale (realissimo, manifesto, con tutte le sue conseguenze) è quello. Questo mutamento senza nessuna mutazione è tale da riattivare ciò che in precedenza era malattia dandogli un nuovo corso, ma è parziale, non basta. È che questo dato biologico è quello sufficiente a fare di me (ex piccolo Hans, come diciamo qui, ex bambino con la mia storia, i miei sintomi, disturbi, angosce, inibizioni), è sufficiente a fare di me un nevrotico, per il fatto che il solo pensiero di essere..., la sola constatazione di essere diventato un corpo biologicamente mutato, mi innesta sul pensiero della generazione, e diventerò un nevrotico, cioè un inventore anch’io della famiglia moderna, cioè come nucleo patogeno. È inutile che citi libri che si sono occupati dell’importante mutamento storico quattro-cinquecentesco (forse anche precedente) della nozione di "paternità", da quella puramente religiosa o meglio credente come preferisco dire io, a quella paternalistica, con una serie di mutamenti anche giuridici, di assetto a livello statuale, di diritti e doveri dei genitori nella famiglia, e così via.

3. Definizione del trauma
Se questo era un secondo punto, un terzo: accenno sul trauma, ma ora vedo che la corsa deve diventare trafelata. Almeno i titoli e un punto sviluppato.
Forse terzo punto, allora: il trauma. Definizione del trauma (definizioni già date e ogni volta non è possibile riprendere tutto), ma ora lo definisco come l’inventore scoperto, l’inventore che è stato scoperto ossia una inventio che è stata scoperta ossia soggetta a una sistemazione diversa da ciò che essa era. Io ho inventato questo; qualcuno scopre che cosa ho inventato e lo sistema in un certo modo, per esempio in quella biblioteca. Ho dato un esempio di che cosa è una sistemazione, una scoperta fatta su qualcosa che è stato inventato. Pelo-pelo, terra-a-terra con l’esperienza, con la proto-esperienza infantile: il fenomeno dell’essere scoperti, ma Raffaella prima ha già fatto una allusione al bambino che andava benissimo nella proprie autoliberazioni corporali cioè più trivialmente, "a scaricarsi". Scoperto, riclassificato: è arrivato papà che gli ha detto una programmazione di qualcosa che andava benissimo così, che non aveva alcun moto di essere risistemato. Il padre non gli ha affatto dato un incremento di civiltà necessario, per così dire, alla "selvaggità" infantile (fa la cacca selvaggiamente e il padre gli aggiunge un complemento civile), non era assolutamente necessario, la dimensione civile e culturale già vissuta dal bambino era piena. Lo ha sistemato, la ha riscoperto diversamente. Raffaella ha bene descritto come caso clinico l’effetto immediatamente, da un giorno all’altro, patogeno: la produzione di una stipsi intensa in questo bambino, per il solo fatto che la sua esperienza, per altro di piacere, è stata sistemata in un modo diverso. Dico subito con parole precise il contenuto, la qualità meglio, di questa diversa sistemazione patogena in quanto diversa sistemazione: si viene scoperti in un piacere inventato. Qui ho tre esempi, ma l’esempio portato da Raffaella era già un quarto. Uno: è il caso dell’autoerotismo infantile; il bambino ha inventato, nessuno gli ha insegnato che col proprio corpo poteva andare così; qualsiasi intervento avvenga... Altro esempio: l’enuresi infantile, è certamente un piacere infantile, non ci sono discussioni su questo, e anche diventati più grandi... Sto pensando all’esempio di un caso riferitomi oggi da Giuliana Bianchi, il caso della bambina che riferisce alla madre di una propria preferenza individuale (non sto facendo errori riferendolo: non ci sono i protagonisti in questa stanza, l’avevo già pensato...), la preferenza individuale in questo caso essendo una zia, poco importa, poteva anche essere un’altra, un’amichetta, è irrilevante. Ossia la dichiarazione a un altro (in questo caso di una bambina alla madre) di un proprio principio di piacere in funzione ed in eccellente funzione. A questo punto è irrilevante che la madre abbia applaudito o abbia rimproverato (siamo molto vittime dello schema del rimprovero..., sarebbe il rimprovero, la punizione, ad essere patogena). Non è il rimprovero, la punizione, a essere patogena; non è il "Te lo taglio" (classico esempio da Pierino Porcospino, il sadico che arriva lì...), è la diversa sistemazione, è la sopravvenienza di un sistema, che è di giudizi, assolutamente non indispensabile, non petitum (come si dice di excusatio non petita)... è una elaboratio non petita a essere patogena. Quell’invenzione già avvenuta e questa invenzione (che si trattasse dell’autoerotismo infantile, della preferenza per un altro soggetto o dell’enuresi, vedete che le esperienze sono queste, a cui riferirsi nell’infanzia, e la nostra debolezza intellettuale è nella banalizzazione di queste esperienze), senza cogliere che l’operazione compiuta dalla sua ricreazione, giustificazione, risistematizzazione, avveniente per intervento di qualcun altro che invece avrebbe potuto soltanto stare zitto, consiste nella sostituzione del principio di piacere già in atto o in via di costituzione..., nella sostituzione di esso con un altro costrutto intellettuale, al posto del costrutto intellettuale già presente nel bambino..., che è un costrutto che è patogeno perché la qualità di questo costrutto sostituisce alla natura del primo costrutto del bambino (del principio di piacere del bambino) che caratterizzo con la coppia di parole potere-contingenza ossia "Io ho potuto inventarmi quell’esperienza", "potevo", ecco: "potevo", "potevo inventarmi questo e farlo mettere in pratica". Contingenza significa: "ora lo faccio e ora non lo faccio", "può accadere e può non accadere".
La nozione di contingenza e la parola "contingenza" non è usata in clinica, ma vuole semplicemente dire il caso normale di cui la coazione è il caso patologico, obbligatorio, coatto, compulsivo o ripetitivo; contingente è la normalità laddove coazione o compulsione è la patologia. Il solo intervento dell’adulto a questo proposito è la sostituzione di una civiltà, di una cultura della necessità, del dovere-necessità ("dovere" categoria morale, "necessità" categoria - facciamo - scientifica) a un regime personale civilissimo, perfettamente colto, che ho caratterizzato come "potere" (nel senso di "posso") e "contingenza" ("ora sì e ora no, e va bene lo stesso").
Ed ecco perché l’intervento che fa sopraggiungere una nuova cultura dell’esperienza individuale è patogeno. Ecco ciò che già è stato chiamato esautorazione: il nuovo schema esautora il primo, lo sloggia e per di più esautora il soggetto che ha attivato quella prima legge e quel primo pensiero. Non perché è intervenuta disapprovazione, anzi, e chi dei presenti ha presente il libro su La questione laica (ma ora non sto a dilungarmici) sa quanto si è insistito sul carattere anche politicamente (qui si sta parlando solo dell’esperienza individuale)..., ma anche politicamente e giuridicamente è violento il fare subentrare una autorizzazione laddove io mi sono autorizzato già benissimo da solo e non avevo bisogno di essere autorizzato da nessuno e formalmente mi ero autorizzato da solo, nulla di selvaggio, nulla a che vedere col selvaggio che va a caccia con l’arco e le frecce.

4. Il bersaglio della patogenesi è il giudizio
Il bersaglio di questa patogenesi, vera e propria patogenesi, è il giudizio. Avrei voluto fare una citazione, non c’è tempo; la citazione comunque riguarda..., la citazione (la prima ed ultima che avrei fatto di Freud in questo Corso) che è molto buona, anzi quasi da non credersi, perché poi tutti si immaginano che Freud sia... Bene, tre righe le posso leggere, non rubano più tempo...: "Ad ogni modo, comunque si spieghi questo singolare rapporto fra amore e odio, la sua presenza è fuori di dubbio dall’osservazione del nostro paziente (è il caso dell’Uomo dei topi, chiamato così), ed è (vi invito a badare a questa sintesi molto notevole) incoraggiante vedere come divengano intelligibili tutti i processi enigmatici (lo leggo lentamente perché è rilevantissimo), vedere come divengano intelligibili tutti i processi enigmatici della nevrosi ossessiva (con tutti i problemi di intelligibilità e di assurdità che la nevrosi ossessiva ha creato: "Perché ho certi pensieri fissi?", "Perché devo agire in un certo modo?", "Perché ho certi dubbi incredibili?"), come divengano intelligibili tutti i processi enigmatici della nevrosi ossessiva, mettendoli in relazione con quest’unico fattore", cioè la coppia amore-odio". [S. FREUD, 1909. Osservazioni su un caso di nevrosi ossessiva (Caso clinico dell’uomo dei topi), in: "OSF", VI:7-124, Boringhieri, Torino1974; la citazione è a p.69].
È piuttosto grosso. Qui a parlare è un clinico, non un esistenzialista che dice: "Sì, alla fin fine, nella vita, le grandi forze determinanti ultimamente nell’umanità sono l’amore e l’odio", cosa di cui non importa assolutamente niente a nessuno e questa notte dormiremo bene o male ugualmente indipendentemente, se si trattasse di questi fattori inutili. Qui pone in immediato contatto la clinica della nevrosi ossessiva con la coppia amore-odio, è questo il rilevante. E poi continua e poco dopo mette in diretto rapporto con questa coppia la coazione (pensieri coatti, azioni coatte) e il dubbio, cioè la coppia di sintomi caratterizzante della nevrosi ossessiva, poi l’incapacità di decisione, la paralisi della volontà.
Bene, il nucleo patogeno è l’essere prigionieri della sola coppia amore-odio, ma questo è già stato benissimo illustrato da Raffaella anche se non parlava di nevrosi o di altre patologie, perché l’altro va difeso in ogni caso, la relazione va difesa in ogni caso, l’amore cioè (sinonimo di rapporto, sinonimo di relazione) va difeso in ogni caso perché a ogni buon conto il bene o beneficio del soggetto è dal rapporto che proviene. Dunque il rapporto va difeso in ogni caso, a costo del sacrificio del giudizio. Di quel giudizio che ci sarebbe se quel bambino di tre anni che si sente dire di quando sarà diventato alto così... e tutti gli altri esempi..., se avesse un giudizio, esprimerebbe il giudizio: "L’altro - tu - mi offende, mi fa danno, mi fa torto". È un giudizio di condanna. Ma rinuncia al giudizio per, in ogni caso, mantenere la relazione; l’effetto del mantenere la relazione nella rinuncia al giudizio, è l’instaurazione del soggetto nella sola coppia amore-odio, perché la normalità è la terna che ha amore e odio agli estremi e in mezzo ha il giudizio. Il giudizio che ha conseguenze pratiche di questo tipo: "Con uno che mi inganna non ci sto", essendo chiaro che in questo caso "inganna" è sinonimo del triviale "mi frega", cioè "mi danneggia".

5. Conseguenze patologiche della patologia del giudizio
Le conseguenze patologiche della patologia del giudizio (dell’essere stato - il giudizio - il bersaglio e dell’essere rimasto prigioniero della coppia amore-odio senza l’interposizione del giudizio) è notevole, perché il giudizio rilancia il pensiero di amore e il pensiero di odio, e oltretutto li ri-illumina, non li lascia alle tenebre sempre un po’ torbide o alle luci incerte, un po’ fosche, di "cosa mai sarà l’amore, cosa mai sarà l’odio". Perché il concetto di ambivalenza di cui tutti avranno sentito parlare, non è affatto il concetto della coppia amore-odio, è il concetto della coppia confusa di amore confuso e di odio confuso. È questa l’ambivalenza, per cui le due cose possono sempre trasformarsi una nell’altra come in certe pièces teatrali in cui alcuni entrano..., altri escono..., si cambiano di costume e si mettono un altro cappello in testa: è cambiato il trucco.
Quinto. Le conseguenze patologiche sono:
1. Inibizione del pensiero.
2. Incertezza del rapporto.
Su questa espressione sarebbe da dilungarsi e non c’è tempo. Incertezza del rapporto come si dice incertezza del diritto, qui non è indispensabile..., incertezza del rapporto a ogni costo conservato. Parlavo della perversione e dicevo che il perverso è quello che il rapporto non lo conserva più, ha interrotto la conservazione del rapporto e non perché abbia introdotto un giudizio.
Una qualche specificazione rapidissima a questo punto, il più grave sul terreno clinico, degli errori riguardo alla nevrosi, è ritenere che il primo dato, fenomeno, concetto delle nevrosi, sia il sintomo. È falso. Il primo dato, anche nell’ordine della genesi e della rilevanza fenomenica nelle nevrosi, non è il dato del sintomo, è il dato dell’inibizione. Ci sono molti motivi per dirlo, ora non abbiamo tempo. È l’inibizione del pensiero la condizione dell’inibizione dei movimenti, delle iniziative, dei passi, dei moti.

6. La nevrosi comporta la divisione del giudizio del soggetto
Già detto: la patologia del giudizio nella nevrosi comporta una divisione. In un certo linguaggio si sarebbe detto: una divisione del soggetto, una divisione dell’io. Meglio dire: una divisione del giudizio del soggetto. È la divisione tra difesa (come si dice "avere delle difese") e offesa ossia il mettersi dalla parte dell’offensore, l’assumerne i mezzi e le ragioni. Si è malati perché ci si pone anche dalla parte di chi ci ha resi malati, se ne portano i colori o le bandiere. Alla domanda di Bonora: "Dov’è il dolo del soggetto, del malato?", dopo avere parlato del dolo dell’altro che lo rende malato, ecco la risposta alla domanda: il contenuto del dolo è identico. Gli esempi sono mille, ma ora mi viene in mente quello molto noto anche nella letteratura (non solo dalla trasmissione psichiatrica o psicologica o della psicoterapia sistemica), è il caso della coppia delirante madre e figlia, è talmente evidente... Il caso del rapporto melanconico tra due soggetti che si massacrano a vicenda, ma vivono insieme legati per tutta la vita...
Quando, e ne ha fatto cenno Genga prima, arriveremo a parlare del campo dello handicap a questo riguardo, c’è solo da aprire le cataratte del cielo: il legame fra il figlio handicappato e i genitori, cinque casi su quattro sono di questa natura o ci si avvicinano infinitamente. Ma è una divisione (la divisione del soggetto tra difesa - difendersi è pur sempre dalla patogenesi dell’altro - e il collocarsi dal lato dell’offesa dell’altro, questo è nevrosi) che è diversa dalla divisione (e di solito si parla sempre e solo di questa) del soggetto (quella della perversione) che è tutta all’interno dell’offesa.

7. Le componenti della malattia restano costanti in tutte le patologie
E ora riesco a dire (in quel poco che resta, prendo forse dieci minuti) il nocciolo, un po’ confondendo i tre o quattro punti che, in un’esposizione ordinata, arriverebbero a questo punto.
Abbiamo detto clinica e non-clinica. Per quanto riguarda la clinica delle nevrosi deve, deve, deve restare assolutamente intatto che il contenuto di essa è quello della già malattia del bambino (il bambinello di cui abbiamo sentito prima o il solito piccolo Hans o altri ancora, è il medesimo) e scolasticamente ne riassumo i capitoli: inibizione, fissazione, affetto patologico (anzitutto l’angoscia), la condotta attiva (l’azione), ...ecco perché mi mancava il quinto: dimenticavo, come fosse un’ovvietà, il sintomo. Ripeto: inibizione, fissazione, sintomo, affetto (angoscia anzitutto) e l’azione (la condotta), anche se ritengo che, in una buona esposizione ordinata, il capitolo dell’azione dovrebbe risultare (ma ora non ci interessa la finezza sistematica), dovrebbe risultare come un capitolo suddiviso in due sottocapitoli: un sottocapitolo del capitolo inibizione, un sottocapitolo del capitolo fissazione (ora lasciamo questo dettaglio).
Ed è importante l’affermazione che le componenti della malattia che precede la patologia (la nevrosi, la perversione) sono costanti in tutte le patologie, e questi cinque capitoli sono costanti nelle nevrosi; che inibizione, fissazione, sintomo, angoscia, ripetizione automatica sono tutti presenti anche nella perversione, e sono tutti presenti anche nella psicosi e sono tutti cinque presenti anche nella melanconia e che sono tutti presenti anche nella querulomania. E i soggetti che non esibiscono e non adducono (a qualsivoglia terapeuta piuttosto che amico di famiglia) la dichiarazione della presenza di questi cinque componenti, mentono per la gola. Anche, al primo posto, l’inibizione. Se c’è un soggetto che è l’inibito degli inibiti è il perverso, ma il perverso è quello che va per la strada con lo striscione che dice: "Inibiti siete voi e non io" è un manifesto pubblico, ma è scritto da tutte le parti, è la bandiera dell’Arci-gay..., vedete che parlo sempre di ciò che nella realtà è noto a tutti. "Inibito è il nevrotico" dice il perverso, che è il missionario della Propaganda fidae della perversione, è il missionario della nevrosi. Per questo che importa tanto a tutti gli psicoanalisti perversi (ormai sono forse..., no, la maggioranza non sono ancora..., nel mondo lacaniano sono maggioritari, ve lo dico, in senso numerico)..., non a caso tutti gli psicoanalisti perversi sono lì a citare sempre, come uno striscione... (ancora non è diventato, che io sappia, uno striscione, un manifesto): "La nevrosi è la negativa della perversione"; però questa frase, staccata, ritagliata e messa in striscione, cosa significa? Che se la nevrosi è la negativa della perversione, basta positivizzarla e fare lo sviluppo, e farne lo sviluppo in senso fotografico. Ecco perché dico che il perverso è il missionario del paese di missione costituito dalle nevrosi e non è una battuta personale, ma una descrizione dei fatti come vanno specialmente in questo decennio presente, anzi nel decennio appena trascorso e in modo ancor più galoppante nel decennio presente. Sto parlando di fenomeni noti e descrivibili e non di previsioni e di timori...
La condizione per l’intelligibilità delle nevrosi è, ancora prima della descrizione del contenuto clinico delle nevrosi - descrizione molto ben condotta, almeno a cavallo del nostro secolo e per qualche decennio dopo con grandi finezze, mai eccessive allorché si tratta di clinica - , la discriminazione di ciò che è non-clinico nelle nevrosi. Nella nevrosi ciò che non è clinico è l’alleanza con l’offesa, con la bandiera dell’offensore, dell’offensore esautorante la legge già elaborata dal soggetto.
I. Il nevrotico assume la sistematizzazione altrui
Primo (sto cercando sui fogli perché proprio questa sera, quando mi è mancato il tempo, stavo sistematizzando questa parte), il nevrotico assume l’azione traumatica di A (e l’ho descritta prima) consistente nel sistematizzare ciò che il soggetto ha già inventato benissimo per suo conto autorizzandosi da sé. L’azione traumatica di A rivolta a quanto il soggetto ha già inventato, consiste nel sistematizzare secondo una concezione, una cultura, un modo di vita, che gli è ostile, che gli è avverso. Ho detto: il passaggio dal regime di potere e contingenza, a regime di dovere e necessità. Poco importa se nella forma proibitiva o inibitoria del "non devi", del rimprovero o (secondo me più gravemente) nella forma istigatoria del "va benissimo così".
Vi stupireste se vi dicessi che sarebbe questo il capitolo in cui parlare del rapporto discepolo-maestro o del rapporto paziente-terapeuta, perché è soltanto..., diciamo così: si potrebbe dire che il nevrotico in questa sua parte non clinica, nella propria alleanza con l’offensore e l’offesa, fa il discepolo del suo offensore (è evidente...) e addirittura militante. Ma ne assume la dottrina, parola accuratamente scelta. In questo genere di discepolanza è impossibile andare aldilà del maestro, si potrà soltanto rimanere aldiquà e diventare sempre peggio; aldiquà, all’interno: non esiste trascendimento possibile. È quello che il popolo comunemente chiama: "Si può soltanto cadere sempre più in basso" (ogni tanto bisogna esprimersi così perché i concetti devono essere...). È il concetto che chiamavo di "equivoca fedeltà": fedelissimo..., il soggetto che si allea. Non è il vecchio concetto di alleanza con l’aggressore, si tratta di qualcosa di molto più intimo e più grave. E chiunque abbia, anche solo in termini di autocoscienza (che naturalmente non basta mai o peggio, ma un po’ di autocoscienza oppure di osservazione di altri... oppure faccia uno dei mestieri di questo genere...) per accorgersi che nella nevrosi si copre sempre qualcuno, proprio come si dice nel linguaggio politico: "Quello lì sta coprendo qualcuno".
II. Il soggetto patologico millanta soggettività
Seconda componente, che forse dovrei mettere per ultimo, ma mi viene meglio metterla in questo ordine. In questa parte della patologia, che è la parte che sostiene quella clinica, sintomatica, inibitoria e così via, noi troviamo sempre un soggetto che è un millantatore di soggettività, fino a estremi molto spirituali. Il soggetto, per lui, c’è sempre; grandi teorie sulla presenza soggettiva, sull’esserci soggettivo. Se anche al momento vi sembro oscuro, mi accontento di questo accenno.
III. Processo a oltranza al "Padre"
Terzo: in questa patologia non clinica è in atto un processo a oltranza al "Padre". Lo esprimerei con questa formula: "Il Padre deve presentarsi in aula". È una querela permanente al Padre.
IV. L’"insoddisfazione" dell’altro come programma
Quarta componente, anzitutto la formulo così, ammesso che la volta precedente (anzi, due volte fa) io sia riuscito un po’ a introdurre il concetto di "talento negativo"..., "aver dei talenti" è un’espressione corrente. L’ho anche introdotto come "il talento del rapporto", "il talento" perché il capitalista, che è qualsiasi altro che io incontro, investa a mio beneficio sul mio territorio che è il mio corpo, altro modo di esprimerlo che è corretto. Concetto economico: il concetto di amore è un concetto di investimento di qualcun altro sul mio corpo, vero o falso? Vero. Nella nevrosi antecedente le nevrosi, il rifiuto del talento negativo si esprime con un verbo che invento io, ma immediatamente intelleggibile, che è il verbo "insoddisfare", è come prendere l’aggettivo "insoddisfacente" e farne un verbo transitivo: "Io ti insoddisfo". Una volta caratterizzavo la nevrosi con questa frase, io che ti dico (di solito si attribuisce questa frase alle signore, la si attribuirebbe più facilmente alle signore - la perfidia maschile a questo riguardo non è da meno di quella femminile - ): "Aspettami, io non vengo". La mia azione è costruita in modo tale che altri investa su di me e quindi: "Aspetta" (ossia la relazione è conservata), ma: "Io non vengo", il che significa che, su mia iniziativa, io produco la tua insoddisfazione in quanto tu vieni sì e sarai insoddisfatto dalla mia risposta. È quello che chiamo la rinuncia del talento negativo ovvero la insoddisfazione come azione specifica procurata, contraria all’azione specifica di cui ha detto Raffaella.
È la frase era: "Aspettami, tanto non vengo".
Serve precisare (notate che non so se vi siete accorti che sto parlando dell’isteria)..., ma ancora non ho detto l’ultima precisazione a questo riguardo. Ciò che sto dicendo può anche essere descritto con due caratteristiche molto comuni nell’isteria, che ora ridescrivo con le due espressioni di "apartheid del corpo" e "apartheid del pensiero".
"Apartheid del corpo" non sta solo nel "non vengo" con il corpo, ma in quella che è stata sempre caratterizzata correttamente come la sintomatologia tipica dell’isteria, la sintomatologia di conversione in cui è il corpo che è interessato da sintomi fisici, corporei, paralitici, anestesici o di altra natura. Che cos’è il sintomo di conversione se non la sottrazione, al rapporto, del corpo stesso per investire nel mio stesso corpo apartheidizzato, sottratto al rapporto, tutto ciò che io potrei mettere nel rapporto?
"Apartheid del pensiero": è un dato altrettanto clinico di quella che è sempre stata chiamata "isteria" (sto lasciando in sospeso quest’ultimo punto, vedete che fin dall’inizio ho detto: "Un momento, la chiamo "isteria", ma c’è una cosa da chiarire). E si chiama "isteria", correttamente. È da chiarire che, diversamente dalla nevrosi ossessiva, in cui la dimenticanza (ora lasciamo il concetto di "rimozione" e così via), la dimenticanza ossia fenomeno descrivibile... Mentre rimozione è un concetto esplicativo, invece la dimenticanza è un fenomeno descrivibile: "Io in questo momento non ricordo che cosa ho fatto l’altro giorno"... Mentre nella nevrosi ossessiva la dimenticanza è molto ridotta (e la dimenticanza recente è molto ridotta, ma anche la dimenticanza dei fatti più antichi, la memoria remota è largamente integra), è del tutto manifesto che nell’isteria la dimenticanza riguarda e massicciamente i fatti lontani e altrettanto massicciamente i fatti più recenti: da un momento all’altro non si ricorda più niente. È quello che ho chiamato "apartheid del pensiero", sottrazione oltre che del corpo, del pensiero, al rapporto.
Ho scelto la parola apartheid non perché ci sono appena state le elezioni in Sudafrica, ma per il fatto che apartheid è un concetto politico, di comando e di potere. Queste sono operazioni che hanno rapporto con il potere, con un’aspirazione al potere, questa volta non il potere di cui parlavo prima che è il potere combinato a qualche cosa, ma è "il potere", il controllo, il comando.
In questo caso, questa nevrosi allo stato così puro (non ho decritto dei sintomi, ho descritto dei criteri, delle linee, si possono chiamare delle linee, una specie di "linea di partito"), una nevrosi così pura (questa componente non clinica della nevrosi)..., nevrosi così pura si presenta addirittura come un caso di divisione del lavoro con la perversione: "Io, nevrotico così puro, resto ancora nel partito, nel partito della nevrosi, non straccio la tessera del partito della nevrosi, resto ancora un nevrotico, tu perverso fai l’altra parte da fuori". È il concetto del gatto e della volpe. È estremamente importante il cogliere che, a livello di purezza, vedete quanto impura possa essere la purezza, perché qui vuole dire morti e cadaveri sul terreno..., a questo livello di purezza..., e la parola "purezza" sappiamo tutti più o meno bene che razza di mutazioni ha avuto tra il ’600 e ’700: la purezza kantiana non è, che so io, la purezza delle monachelle di altri secoli o la purezza interiore di un soggetto aspirante all’autenticità dello spirito.

8. Isteria
Il finale è sulla parola "isteria", poiché è del tutto chiaro che la nevrosi ossessiva è pochissimo ciò che ho appena detto. Perché un nevrotico ossessivo arrivi ad avere una discreta componente, almeno, di ciò che ho appena descritto come nevrosi, come patologia non-clinica, nevrosi non-clinica, ci vuole molto, se ne troverà un po’ ... E non vi porto le descrizioni cliniche del fatto che è vero, come qualcuno ha detto, che anche nel peggio delle sue condizioni psicopatologiche cliniche, il nevrotico ossessivo lavora in ordine alla guarigione, poco o male, ma lavora in ordine alla guarigione. Ma allora, che cosa dire della nevrosi isterica, in cui chi più e chi meno (che sia un "chi" lei o un "chi" lui)..? Nell’isteria e con l’isteria ci siamo tutti fino al collo: "Chi è senza peccato scagli la prima pietra" e nessuno lancerà pietre in questo istante. Allora, quale è, avendo io detto che la nevrosi è l’isteria (la nevrosi, e non-clinica come l’ho descritta prima)..., se è così, che cosa ho fatto? Bisogna e devo rispondere alla domanda se ciò che ho fatto, dicendo ciò che ho detto prima, è un verdetto (magari mio personale, ma comunque nel mio verdetto personale)... È un verdetto così definitivo e quasi irremovibile sull’isteria, senza speranza, senza possibilità di guarigione, senza pietà, ma comunque senza verdetto di guarigione possibile. E se è così come io ho detto, che ci si metta a flectere superos, o Acheronta è una frase... Che ci mettiamo a smuovere le forze superne o le forze infernali per uscire da questa situazione, non è il caso di parlarne e abbandoniamo il problema, la speranza, il compito. E infatti, non sto parlando a casaccio, ma quello che è stato il mio maestro aveva esattamente tirato questa conclusione sull’isteria: "Non venitemi a parlare di una qualsivoglia possibilità di farci qualcosa in ordine alla guarigione dell’isteria...", articolo datato 1972, intitolato in un certo modo, pubblicato su una certa rivista.
A questo punto (ed è la conclusione) bisognerebbe, come per l’ossessivo, riconoscere (e osservativamente ciò esiste), ammettere (e lo si deve ammettere perché ciò esiste), quel caso (ed esiste), quei casi (ed esistono) dell’isteria che, ben diversi dalla nevrosi ossessiva clinicamente (e non più non-clinicamente parlando), hanno con l’isteria non-clinica (come l’ho descritta prima) un rapporto giudicante come lo ha l’ossessivo. L’ossessivo non è d’accordo con la propria nevrosi ossessiva: la descrive, la valuta come estranea a se stesso, non la vuole... È vero che una qualche misura di desiderio di guarigione è pur sempre rintracciabile. Nell’isteria non-clinica, come l’ho descritta prima, il desiderio di guarigione non è rintracciabile, non esiste mai. Si tratta di ammettere (ma l’esperienza osservativa, l’incontro normale con altri mostra che ciò esiste) dei soggetti isterici che con la propria isteria non-clinica (che pure esiste) hanno un rapporto giudicante (in questo caso, giudizio sfavorevole, pollice verso nei confronti della propria stessa nevrosi non-clinica) e che in quanto tale hanno già iniziato a prendere un’altra strada rispetto alla nevrosi.
Mi veniva la domanda alla quale non ho ancora una risposta (e su questo chiudo): in che maniera chiamare un’isteria come questa? Per il nevrotico ossessivo ormai l’espressione è fatta, è inventata da tanto tempo e non abbiamo bisogno di cercare un’altra formulazione. In che maniera potremmo chiamare un’isteria come questa? "Isteria impura", se quella là è quella "pura" nel senso terrificante moderno e kantiano della parola? Usare (non ci avevo pensato), usare il lessico della medicina e distinguere fra malignità e benignità come i tumori o altre malattie? Qui avevo scritto: "isteria facilitata", non so perché l’ho scritto (vi informo di queste alternative di pensiero); usando il linguaggio degli anni ’70: "isteria pentita", in una sorta di "pentitismo psicopatologico"; "isteria confessa"? Vi lascio su interrogativi come questi; le parole a questo punto non sono più pura nomenclatura da entomologo, da scienziato naturale che descrive con i migliori lemmi che gli riescono... A questo livello la scelta delle parole è proprio, diciamo, "pensieri e sangue", non si sceglie senza..., senza premio o senza pena. O c’è pena o c’è premio nella buona scelta verbale a questo riguardo; io ancora non l’ho fatta. Vedo, penso che il concludere col quesito sia una vera conclusione perché almeno il quesito mostra come drammatico (per una volta in positivo, non è obbligatorio che "drammatico" significa che tutto va a rotoli) il quesito sull’isteria.
Termino con un mio desiderio, che - allo stesso modo che un desiderio - rivolgo alla vostra collaborazione..., non so se vorrete insoddisfarmi o meno. Il desiderio è: come avevo detto che una volta andavo alla ricerca e ho chiesto ad altri: "Pensate un po’ anche voi a che espressione verbale inventare o scoprire allo scopo di evitare quella truculenta e poi errata parola inventata da Freud, che è poi la parola "castrazione" (complesso di castrazione)..., e poi un giorno ho dovuto trovare io la cosa..., l’espressione di talento negativo (Madame de Stäel di cui parlavamo l’altra volta), sarebbe veramente ora (perché non sta in piedi) che si trovasse (anche coi mutamenti che una nuova espressione linguistica comporterebbe..., arricchimenti che apporterebbe al concetto) un’altra parola (o espressione o sintagma) al posto della parola "inconscio". Si apre la lotteria, e le corse.