Articolo pubblicato su:
©Vita Nostra 2000,
anno 40, n. 36,
Traduzione. Questa settimana, prendiamo una pausa dai discorsi tecnici sulla traduzione, per riflettere su una domanda che ricorre frequentemente quando si parla di tradurre in sardo la Bibbia: "Ma in fin dei conti a chi serve?". Non entro, per ora, nei particolari della discussione, e, prima di dare la mia risposta, premetto le parole del Documento L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa, della Pontificia Commissione Biblica. Siccome penso che chi legge queste letture "domenicali" sia abbastanza motivato da non avere bisogno di mediazioni cosiddette "giornalistiche", riporto la citazione completa e senza commenti (aggiungo soltanto dei neretti di evidenziazione). Alle pag. 108-109 si legge:
"Allo sforzo di attualizzazione, che consente
alla Bibbia di conservare la sua fecondità anche attraverso i mutamenti dei
tempi, corrisponde, per la diversità dei luoghi, lo sforzo di inculturazione,
che assicura il radicamento del messaggio biblico nei terreni più diversi.
Questa diversità non è del resto mai totale. Ogni autentica cultura,
infatti, è portatrice, a suo modo, di valori universali fondati da Dio.
Il fondamento teologico dell'inculturazione è la convinzione di fede che la
Parola di Dio trascende le culture nelle quali è stata espressa e ha la
capacità di propagarsi nelle altre culture, in modo da raggiungere tutte le
persone umane nel contesto culturale in cui vivono. Questa convinzione
deriva dalla Bibbia stessa, che, fin dal libro della Genesi, assume un
orientamento universale (Gen 1,27-28), lo mantiene poi nella benedizione
promessa a tutti i popoli grazie ad Abramo e alla sua discendenza (Gen 12,3;
18,18) e lo conferma definitivamente estendendo a "tutte le nazioni"
l'evangelizzazione cristiana (Mt28,18-20); Rm 4,16-17; Ef 3,6).
La prima tappa dell'inculturazione consiste nel tradurre in un'altra lingua la
Scrittura ispirata..." (Pontificia Commissione Biblica, L'interpretazione
della Bibbia nella Chiesa, Roma 1993, pp. 108-109).
Questa convinzione "teologica" deve essere il punto di partenza di
ogni seria discussione sulla traduzione della Bibbia in sardo. Tradurre la
Bibbia in sardo, prima che a tzia Maria o a tziu Srabadoi, serve anzitutto a
Dio, alla piena manifestazione della ricchezza della sua parola. Il Verbo, la
Parola fatta carne, non ha ancora detto pienamente tutto e in tutti i toni,
finché non avrà parlato anche la nostra lingua.
Il sardo manca all'incarnazione. E, se vi sembra un'eresia, diciamo che il sardo
manca alla storia dell'incarnazione.
Nei tempi biblici, l’anno giubilare era un tempo dedicato alla lettura completa delle Scritture. Queste pagine di traduzione che noi abbiamo cominciato a pubblicare alla fine di questo anno giubilare (non più evidentemente nel senso che aveva ai tempi biblici), vanno inquadrate all’interno di questa teologia dell’incarnazione.A questo punto la domanda iniziale potrebbe trasformarsi in altre domande un po’ più pericolose. Ad esempio: Se la traduzione è il primo passo di una inculturazione della fede, non avendo noi ancora una traduzione "accurata, chiara, naturale" della Bibbia, che tipo di "inculturazione" la Chiesa ha promosso in Sardegna? Ma ne ha mai veramente promosso una? Il clero oggi può essere diviso in due gruppi d’età: quello formato prima del 1970, a Cuglieri, e quello formato dopo il 1970, a Cagliari. Con tutto la riconoscenza che abbiamo per i gesuiti, non possiamo dimenticare che la lingua sarda e i canti sardi erano proibiti, fin dal seminario minore. E così abbiamo un clero che nella maggior parte è cresciuto cantando "Vorrei ch’io fossi un fiore, un fiore dell’altar", invece che crescere come pianta radicata sul terreno solido della tradizione locale. La domanda dunque: da questo punto di vista, c’è una differenza tra il clero prima di Cuglieri, il clero di Cuglieri, e il clero dopo Cuglieri? Non sarebbe senza interesse cercare di rispondere. Per vedere se e come il clero può contribuire oggi con la gente sarda a "inculturare" la propria fede. Al di là delle facili gratificazioni giubilari, che purtroppo ci lasceranno da questo punto di vista esattamente al punto in cui eravamo prima. Celebrando l’incarnazione "altrove", la dimentichiamo "a casa".