©Vita Nostra 2000, anno 40, n. 36, domenica 15 ottobre 2000, p. 5

Mc 10,17-31
Chini est sa genti de arrispettu ?

17 E candu fut bessendinci a sa bia, ndi fut suncurtu unu tali chi ingenugau ananti suu ddi pregontàt: «Su Maistu bonu, ita ap’a fai po eredai sa fida eterna?». 18Gesùs dd’iat arrespustu: «Poita mi naras bonu? Nemus est bonu, chi no unu feti: Deus. 19 Is cumandamentus ddus connoscis: non bociast, non fatzas farta a sa coia, non furist, non fatzas su testimongiu frassu, non fatzas trampanas, onora a babu tuu e a mama tua».

20 Tandus issu dd’iat nau: «Su Maistu, totu custas cosas ddas apu arrispetadas giai de candu fia piciocu ». 21 Gesùs tandus dd’iat castiau, dd’iat tentu stima e dd’iat nau: «Una cosa feti t’amancat: bai, totu su chi tenis bendididdu e donaddu a is poburus e as a tenniri arrichesa in celu; e toca, sodiga in fatu miu». 22 Issu annuilau po custus fueddus, si ndi fut andau intristau, ca fiat unu chi teniat propiedais mannas.

23 E Gesùs, castiendusì a ingiriu iat nau a is iscientis suus: «Ita traballosu chi at essiri, po is chi tenint is benis, a nc’intrai a s’arrenniu de Deus!». 24 Is iscientis fuant spantaus po is fueddus suus. E Gesùs iat torrau a arrespundi e ddis narat: «Fillus mius, ita traballosu chi est a nc’intrai a s’arrenniu de Deus! 25 Est prus facili po unu camellu a nci passai in d’unu cossu de agu che po un’arricu a nc’intrai a s’arrenniu de Deus!». 26 E issus prus e prus spantaus, si narànt is unus cun is atrus: «E chini s’at podiri sarvai?». 27 Castiendiddus Gesùs iat nau: «Po is òminis non si podit fai, ma non po Deus: ca dònnia cosa si podit fai po Deus».

28 Perdu si fut postu a ddi nai: «Mira, nosu eus lassau totu e eus sodigau infatu tuu». 29 Gesùs dd’iat nau: «Deaderus, si nau sa santa beridadi: non nci at nemus chi apat lassau domu, o fradis, o sorris, o mama, o babu, o fillus, o terras po mimi e po s’evangeliu, 30 chi no arriciat, imoi e totu, domus e fradis e sorris e mamas e fillus e terras, impari cun trumentus, e in su tempus benidori sa fida eterna. 31 Aici, medas de primus ant èssiri ùrtimus e de ùrtimus primus.

  Traduzione. Questa settimana, prendiamo una pausa dai discorsi tecnici sulla traduzione, per riflettere su una domanda che ricorre frequentemente quando si parla di tradurre in sardo la Bibbia: “Ma in fin dei conti a chi serve?”.  Non entro, per ora, nei particolari della discussione, e, prima di dare la mia risposta, premetto le parole del Documento L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa, della Pontificia Commissione Biblica.

Siccome penso che chi legge queste letture “domenicali”  sia abbastanza motivato da non avere bisogno di mediazioni cosiddette “giornalistiche”, riporto la citazione completa e senza commenti (aggiungo soltanto dei neretti di evidenziazione). Alle pag. 108-109 si legge: "Allo sforzo di attualizzazione, che consente alla Bibbia di conservare la sua fecondità anche attraverso i mutamenti dei tempi, corrisponde, per la diversità dei luoghi, lo sforzo di inculturazione, che assicura il radicamento del messaggio biblico nei terreni più diversi. Questa diversità non è del resto mai totale. Ogni autentica cultura, infatti, è portatrice, a suo modo, di valori universali fondati da Dio.

Il fondamento teologico dell'inculturazione è la convinzione di fede che la Parola di Dio trascende le culture nelle quali è stata espressa e ha la capacità di propagarsi nelle altre culture, in modo da raggiungere tutte le persone umane nel contesto culturale in cui vivono. Questa convinzione deriva dalla Bibbia stessa, che, fin dal libro della Genesi, assume un orientamento universale (Gen 1,27-28), lo mantiene poi nella benedizione promessa a tutti i popoli grazie ad Abramo e alla sua discendenza (Gen 12,3; 18,18) e lo conferma definitivamente estendendo a "tutte le nazioni" l'evangelizzazione cristiana (Mt28,18-20); Rm 4,16-17; Ef 3,6).

La prima tappa dell'inculturazione consiste nel tradurre in un'altra lingua la Scrittura ispirata..." (Pontificia Commissione Biblica, L'interpretazione della Bibbia nella Chiesa, Roma 1993, pp. 108-109).

Questa convinzione "teologica" deve essere il punto di partenza di ogni seria discussione sulla traduzione della Bibbia in sardo. Tradurre la Bibbia in sardo, prima che a tzia Maria o a tziu Srabadoi, serve anzitutto a Dio, alla piena manifestazione della ricchezza della sua parola. Il Verbo, la Parola fatta carne, non ha ancora detto pienamente tutto e in tutti i toni, finché non avrà parlato anche la nostra lingua.

Il sardo manca all'incarnazione. E, se vi sembra un'eresia, diciamo che il sardo manca alla storia dell'incarnazione.  

Nei tempi biblici, l’anno giubilare era un tempo dedicato alla lettura completa delle Scritture. Queste pagine di traduzione che noi abbiamo cominciato a pubblicare alla fine di questo anno giubilare (non più evidentemente nel senso che aveva ai tempi biblici), vanno inquadrate all’interno di questa teologia dell’incarnazione.

A questo punto la domanda iniziale potrebbe trasformarsi in altre domande un po’ più pericolose. Ad esempio: Se la traduzione è il primo passo di una inculturazione della fede, non avendo noi ancora una traduzione “accurata, chiara, naturale” della Bibbia, che tipo di “inculturazione” la Chiesa ha promosso in Sardegna? Ma ne ha mai veramente promosso una? Il clero oggi può essere diviso in due gruppi d’età: quello formato prima del 1970, a Cuglieri, e quello formato dopo il 1970, a Cagliari. Con tutto la riconoscenza che abbiamo per i gesuiti, non possiamo dimenticare che la lingua sarda e i canti sardi erano proibiti, fin dal seminario minore. E così abbiamo un clero che nella maggior parte è cresciuto cantando “Vorrei ch’io fossi un fiore, un fiore dell’altar”, invece che crescere come pianta radicata sul terreno solido della tradizione locale. La domanda dunque: da questo punto di vista, c’è una differenza tra il clero prima di Cuglieri, il clero di Cuglieri, e il clero dopo Cuglieri? Non sarebbe senza interesse cercare di rispondere. Per vedere se e come il clero può contribuire oggi con la gente sarda a “inculturare” la propria fede. Al di là delle facili gratificazioni giubilari, che purtroppo ci lasceranno da questo punto di vista esattamente al punto in cui eravamo prima. Celebrando l’incarnazione “altrove”, la dimentichiamo “a casa”.