©Vita Nostra
2000, anno 40, n. 40, domenica 12 novembre 2000, p. 5
(Traduzione
di Antioco e Paolo Ghiani)
24 Ca in
cussas dis, apustis de cussa tribulia, su soli sat a iscurigai e sa
luna no at a donai su lugori suu, 25 e is isteddus ant essi arruendindi de su celu e is
trumas fortis de su celu ant essiri trumbulladas. 26 Tandus ant a
biri su Fille omini benendi in is nuis cun frotza manna e gròria. 27 E
tandus at a mandai is missus suus e is
chi at tzerriau ddus at a pinnigai de is cuatru bentus, de sùrtima làcana
de sa terra fintzas a sùrtima làcana de su celu.
28 De sa mata de sa figu imparaiddu, su contu: candu
su cambu sest giai amoddiau e bogat sa folla, scieis ca est acanta de
sistai. 29 Aici bosatrus puru, candu eis a biri sussedendi
custas cosas, eis a isciri ca issu est acanta, in sa genna. 30 Deaderus,
si ddu nau deu: non nci at a passai custa leva, innantis chi totu custa cosas
sussedant. 31 Su celu e sa terra nci ant a passai, is fueddus mius
no, non nci ant a passai.
32 De i cussa dì e de sora nemus ndi scit, né is
missus in su celu e nemancu su Fillu, feti su Babu.
A
prima vista, nel nostro caso, una tale conclusione sembrerebbe azzardata, visto
che il cristianesimo in Sardegna è presente fin dai primi secoli di questo
millennio. Eppure, ci sembra che la domanda non possa essere elusa. Certo, un
breve articolo di giornale non è il luogo adatto per approfondirla. Possiamo però, almeno, avanzare il
dubbio se ciò che si dà per scontato lo sia poi davvero, o non faccia parte di
quei luoghi comuni in cui ci accomoda per non pensare e per continuare a non
fare ciò che finora si è trascurato di fare.
Per
impostare il problema da un punto di vista positivo, partiamo ancora dal
documento della Pontificia Commissione Biblica, documento che fin dal suo
apparire risultò quanto mai trascurato nel contesto di una sensibilità
ecclesiastica che privilegia sempre più gli argomenti immediati della morale
sessuale e familiare rispetto a quelli, come luso della Bibbia, meno
immediati, ma anche più fondamentali e più specificamente cristiani. Ma
tantè, non vale lamentarsi: così va il mondo, diceva il Manzoni, o almeno
così va questo mondo religioso a cavallo del millennio.
Dunque,
il documento pontificio prosegue, anzitutto, mettendo in evidenza che tutti i
testi biblici che leggiamo, e non solo i testi evangelici, sono da leggere
allinterno di questa tappa di inculturazione.
Questa tappa ha avuto inizio fin dai tempi
dell'Antico Testamento quando il testo ebraico della Bibbia fu tradotto
oralmente in aramaico (Ne
8,8.12) e, più tardi, per iscritto in greco. Una traduzione infatti
è sempre qualcosa di più di una semplice trascrizione del testo originale. Il
passaggio da una lingua a un'altra comporta necessariamente un cambiamento di
contesto culturale: i concetti non sono identici e la portata dei simboli è
differente, perché mettono in rapporto con altre tradizioni di pensiero e altri
modi di vivere.
Il Nuovo Testamento, scritto in greco, è segnato tutto quanto da un dinamismo di inculturazione, perché traspone nella cultura giudaico-ellenistica il messaggio palestinese di Gesù, manifestando con ciò una chiara volontà di superare i limiti di un ambiente culturale unico (pag. 109).
Nel
corso della presentazione e della discussione delle traduzioni in sardo del
vangelo, abbiamo già dato e daremo degli esempi di questa prima
trasposizione culturale messa in atto nelle prime comunità cristiane,
ponendola alla base della domanda di come una traduzione in sardo debba
ripercorrere il medesimo cammino, se vuole evitare di essere una semplice
traslitterazione di un frasario cultuale che non ha niente da vedere né
con la lingua né con la tradizione culturale sarda.
Il
seguito del documento pontificio è però quanto mai importante in vista della
riflessione sulla nostra domanda iniziale sullinculturazione del
cristianesimo in Sardegna. Esso afferma:
La traduzione dei testi biblici, tappa
fondamentale, non può però essere sufficiente ad assicurare una vera
inculturazione. Questa deve costituirsi grazie a un'interpretazione che metta il
messaggio biblico in rapporto più esplicito con i modi di sentire, di pensare,
di vivere e di esprimersi propri della cultura locale. Dall'interpretazione si
passa poi ad altre tappe dell'inculturazione, che portano alla formazione di una
cultura locale cristiana, che si estende a tutte le dimensioni dell'esistenza
(preghiera, lavoro, vita sociale, costumi, legislazione, scienza e arte,
riflessione filosofica e teologica). La Parola di Dio è infatti un seme che
trae dalla terra in cui si trova gli elementi utili alla sua crescita e alla sua
fecondità (cf Ad Gentes, 22) (pag. 109).
In conseguenza di queste affermazioni, la domanda iniziale
si trasforma dunque in altre. Conosciamo, e quanto e come, i modi di
sentire, di pensare, di vivere e di esprimersi propri della cultura locale?
Quali strumenti, ad esempio quali studi antropologici, abbiamo per avere una
conoscenza riflessa e critica di questi modi di sentire e di pensare? Nella
riflessione dei cosiddetti uomini di chiesa, ad esempio, nei documenti dei
vescovi o in altre pubblicazioni teologiche, è presente e in che modo uninterpretazione
che metta il messaggio biblico in rapporto più esplicito con questi modi
culturali locali? Esiste una riflessione su
quali di questi modi potrebbero essere considerati utili alla crescita e
alla fecondità del messaggio evangelico?
Se si facesse un excursus storico su come la chiesa
sarda ha cercato lungo i secoli di inculturare il cristianesimo, ho il
sospetto che gli ultimi cento anni si rivelerebbero da questo punto di vista ben
al di sotto di altri periodi storici. Se leggiamo la frase del documento
pontificio che conclude il paragrafo che stiamo citando, forse ne possiamo
elencare uno dei motivi principali: Di conseguenza, i cristiani devono
cercare di discernere « quali ricchezze Dio nella sua munificenza ha dato ai
popoli; ma nello stesso tempo devono tentare di illuminare queste ricchezze alla
luce del vangelo, di liberarle e di riferirle al dominio di Dio salvatore » (Ad
Gentes, 11).
Domanda finale, per tornare allinizio: chi fra i
cosiddetti uomini di chiesa apprezza come curiosità i tentativi di
esprimere in sardo i testi biblici o evangelici, può dirsi davvero daccordo
con questo testo conciliare che valuta le caratteristiche dei popoli come
ricchezze della munificenza di Dio? Se
non si ha una valutazione positiva della cultura sarda o della sua identità,
quali ricchezze si pensa di illuminare e di fecondare?
Ma, si dirà, queste cose il Concilio le diceva per i
territori di missione, non per loccidente di antica tradizione cristiana, di
cui la Sardegna fa parte. E poi, siamo ormai in una fase di deculturazione
avanzata. Perché fare unoperazione di retroguardia?
Forse, il testo del documento pontificio ha ancora qualche
elemento utile per riflettere su queste due obiezioni:
Nell'Oriente e nell'Occidente cristiano
l'inculturazione della Bibbia si è effettuata fin dai primi secoli e ha
manifestato una grande fecondità. Non può, tuttavia, mai essere considerata
conclusa; al contrario, deve essere ripresa costantemente, in rapporto con la
continua evoluzione delle culture. Nei paesi di più recente evangelizzazione il
problema si pone in termini diversi. I missionari, infatti, portano
inevitabilmente la Parola di Dio nella forma in cui si è inculturata nel loro
paese di origine. È necessario che le nuove chiese locali compiano sforzi
enormi per passare da questa forma straniera di inculturazione della Bibbia a
un'altra forma, che corrisponda alla cultura del proprio paese(pag. 110).
Se
il linguaggio è una spia valida di certe cose, allora a giudicare dai tanti
cultismi, italianismi o traduzionismi in genere presenti nei testi religiosi
sardi più recenti, viene davvero da pensare che forse vale anche per noi la
necessità di uno sforzo per passare da una forma straniera di
inculturazione a unaltra forma che corrisponda maggiormente alla
cultura del nostro paese.