©Vita Nostra 2001, anno 41, n. 06, domenica 11 febbraio 2001, p. 6

- Traduzione di Lc 6,27-38
- Commento su “rapporti sociali ed ecclesiali” nel vangelo di Luca

Lc 6,27-38  
Una grazia in prus

27 Ma deu si naru, a bosatrus chi mi seis ascurtendi:
istimai is chi si funti nemigus,
faéi beni a is chi si tirriant,
28 pedei beneditzionis po is chi si mandant maleditzionis,
pregai po is chi s’ofendint.
29 A chini ti ferit a una trempa, paraddi s'atra puru,
e de chi ti ‘ndi pigat sa manteddu, non nd’as arretirai nemancu su bestiri.
30 A chini ti dimandat, dona;
a chini ti ndi pigat su tuu, non torris a dimandai;
in prefinis, comenti is atrus boleis chi fatzant cun bosatrus,
sa matessi cosa faéi bosatrus e totu cun issus.


32 E chi istimais feti is chi si stimant,
ita grazia in prus nd’eis a tenniri?
Ca fintzas e is pecadoris istimant a is chi ddus istimant.
33 E chi faeis beni a is chi si faint beni,
ita grazia in prus nd’eis a tenniri?
Custu ddu faint fintzas e is pecadoris.
34 E chi donais prestidu a icussus de chi si pentzais de ndi ddu torrai,
ita grazia in prus nd’eis a tenniri?
Fintzas e is pecadoris si faint prestidus is unus cun is atrus
po ndi podiri torrai giustu su propiu tanti.
Po contra,
35 Istimai is chi si funti nemigus,
faéi beni e donai a prestidu chentza de ndi sperai cambiu perunu,
e nd’eis a tenniri una paga prus manna,
poita eis a essiri fillus de su Totu Artu,
issu chi est bonu cun is disconnotus e is malus.
36 Cumentzai a tenni lastima
comenti tenit lastima su Babu Mannu de bosatrus.
37 Non si pongiais a giudicai e no eis a essiri giudicaus;
non si pongiais a cundennai e no eis a essiri cundennaus;
perdonai e eis a essiri perdonaus;
38 donai e Deus puru at a donai a bosatrus;
una misura bona, arrecracàda, scutulàda, prena a cùcuru
Deus a bosatrus si dd'at a ponniri in coa;
poita, sa propia misura chi bosatrus eis a misurai,
Deus dd’at a misurai a bosatrus a cambiu».

 

 

Commento di traduzione – di Antonio Pinna

Le élites cambiano, le selezioni restano. Ed anche i “clienti”.
Niente in cambio. Ma dov’è la differenza?
Luca, evangelista dei rapporti sociali ed ecclesiali.

 

La “vita di città” al tempo di Luca

Da ciò che leggiamo nei due libri di Luca (Vangelo e Atti degli Apostoli), sembra che la comunità cristiana per la quale egli scrive viva in un contesto sociale che è quello tipico di una città ellenistica della parte orientale dell'impero romano.

Semplificando un po' i dati, possiamo dire che la società era divisa in due classi: quella della élite (5 o 10% della popolazione: gli honestiores) e quella della non-élite (il restante 90%: gli humiliores). La prima controllava la terra e la sua produttività, e insieme il sistema politico e religioso; in genere, abitava al centro della città, dove si trovavano anche gli edifici pubblici più importanti. La seconda comprendeva una grande varietà di gruppi: oltre ai servi e agli schiavi della élite, vi erano commercianti, negozianti e artigiani, organizzati in corporazioni e spesso riuniti in propri quartieri. Nelle città portuali, come Corinto ed Efeso, vi si aggiungevano stranieri provenienti da tutte le aree del Mediterraneo e dal Medio Oriente. Ai gradini più bassi della società troviamo le occupazioni più disprezzate, come quelle dei conciatori, degli osti e delle prostitute. Infine, all'estrema periferia o fuori della mura, risiedono i mendicanti e i "banditi".

È già possibile osservare che nell'opera lucana sono rappresentate abbondantemente tutte e due le classi. Ad esempio: gli imperatori Augusto e Tiberio, i due Erode, i prefetti Romani, i centurioni, la classe dirigente di Gerusalemme con i  sommi sacerdoti, scribi e anziani, i "ricchi", per quanto riguarda la classe delle "élites"; i pastori, le vedove, gli affamati e i poveri, i debitori, i lebbrosi, per quanto riguarda il resto della società.

Ma è ancora più importante notare che Luca, sia nel Vangelo sia negli Atti, sembra particolarmente interessato alle relazioni fra queste due classi di personaggi. Il suo racconto prende dunque un senso più concreto sullo sfondo della società che presuppone.

Per meglio inquadrarla, è tuttavia utile ricordare che gli studi sull’interazione economica nelle società preindustriali parlano di tre forme di reciprocità: 1) una reciprocità generalizzata: si dà senza una specifica domanda di restituzione; 2)  una reciprocità bilanciata: si dà con il presupposto di una rapida restituzione; 3) una reciprocità negativa: si prende, magari con la forza, senza niente restituire.

Ricordiamo, inoltre, che in questo tempo e in questi luoghi dell’impero il potere romano permetteva alle élites locali di conservare le proprie prerogative.

Ebbene, in questo contesto, e semplificando ancora i dati, possiamo dire che la struttura delle relazioni sociali in una città ellenistica, come quella presupposta da Luca, era fondata essenzialmente su tre principi.

Il primo era la ricerca dell'onore, e questo creava nelle élites un clima di costante competizione. I costi erano quelli di una beneficenza verso la città sotto forma di edifici pubblici, feste o giochi. Questa beneficenza era ricompensata con pubblici uffici o altri status symbol, come statue, posti di onore e banchetti cittadini.

In secondo luogo, le relazioni sociali erano fondate su un sistema di patronato. La posizione di una persona non era regolata in base ai diritti umani universali, ma in base al posto occupato in una gerarchia personale di "clientela".

Il terzo principio era quello di una reciprocità bilanciata, per cui, all'interno del cerchio della élite, chi dava qualcosa contava sul fatto che chi riceveva si sentiva obbligato per onore a ricambiare in modo proporzionato.

Dimmi chi inviti e ti dirò chi sei

È su questo sfondo che bisogna rileggere le pagine di Luca sul rapporto fra ricchi e poveri, tenendo presente soprattutto i momenti conviviali che sono frequenti nel vangelo e che svolgevano un ruolo importante nel sistema di riconoscimento delle relazioni sociali in quelle città.

Noi vediamo così che nella comunità lucana era conosciuto e accettato il ruolo dei "patroni". Si rileggano gli episodi che riguardano due centurioni "simpatizzanti" della religione giudaica (Lc 7,1-10 e At 10-11). Insieme con altri elementi, essi possono indicare che in questo momento i romani che venivano in aiuto ai cristiani provenivano non proprio dai più alti gradi delle élites, quanto piuttosto dai ranghi medi della società. Non mancano del resto i motivi per pensare che i rapporti di Luca con Teofilo, destinatario sia del Vangelo sia degli Atti,  siano quelli tipici del "cliente" verso il suo "patrono", che chiama appunto "sua eccellenza", secondo le abitudini di ogni buon "cliente".

Per quanto riguarda questo aspetto, è caratteristico di Luca il fatto di mostrare anche alcune donne nel ruolo di "patroni" e in modo a quanto pare autonomo dai loro mariti, ciò che non era usuale per quel tempo e per quei luoghi (cf. Lc 8,1-3; At 16,14-15). Diversamente però dai discepoli maschi, queste donne non reclamano per sé né onori né privilegi, ma rappresentano il modello del “padrone che serve” proposto da Gesù nel discorso dell'ultima cena (Lc 22,27).

Fra le scene conviviali, una tra le più significative è quella descritta al cap. 14 per ben 24 versetti. Quando Gesù suggerisce di invitare «poveri, storpi, zoppi, ciechi» (14,13), questi invitati non sono da classificare fra gli "impuri" dal punto di vista giudaico, ma fra quelli che «non potevano ricambiare» (14,14) dal punto di vista ellenistico. Luca cioè descrive l'ospitalità nei termini ben conosciuti della "reciprocità bilanciata", anzi è il solo autore del Nuovo Testamento a usare il vocabolario tecnico di questo sistema. La lista che Gesù critica è il tipico "circolo chiuso": «Non invitare i tuoi amici, né i tuoi fratelli, né i tuoi parenti, né i ricchi vicini, perché anch'essi non ti invitino a loro volta e tu abbia il contraccambio» (14,12). Ciò che viene criticato è proprio l'uso dell'ospitalità come mezzo per mantenere e coltivare il gruppo della élite. Gli "amici", infatti, rappresentano un cerchio diverso da quello del "patrono" e si limita a quelli che occupano una medesima posizione sociale. Una mancata reciprocità equivaleva a perdere l'onore e lo statuto di "amici". Invertire un simile "invito" significava non solo rompere con il sistema elitario e i suoi valori, ma anche esporsi alle conseguenti sanzioni sociali.

Un altro esempio d'inversione di tale organizzazione di rapporti è rappresentato dal "discorso di addio" dell'ultima cena. Solo nella versione di Luca troviamo un riferimento esplicito al "sistema dei benefattori": «I re delle nazioni le governano, e coloro che hanno il potere su di esse si fanno chiamare benefattori. Per voi però non sia così; ma chi è il più grande tra voi diventi come il più piccolo e chi governa come colui che serve. Infatti chi è più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve» (Lc 22,25-27). Ciò che viene criticato è ancora una volta il sistema della reciprocità bilanciata, come anche la struttura gerarchica delle relazioni sociali di beneficenza. L'alternativa proposta è basata invece sulla "reciprocità generalizzata", dove chi dà non presuppone nessun sistema di “ritorno”.

Tenuto conto di questo, i "ricchi" ai quali Luca rivolge i suoi "guai" non sono tanto quelli che "hanno molti beni", quanto piuttosto i membri del gruppo delle élites che non si curano affatto degli "esclusi" (cf. ad esempio l'episodio del "povero Lazzaro" che giace alla porta del ricco: Lc 16,19-31). Al contrario, il "ricco ideale" in Luca non appartiene alla classe chiusa della élite, ma, come l'esattore Zaccheo,  proviene dalle classi periferiche della cittadinanza e soprattutto mostra solidarietà verso coloro che si trovano in una posizione d’inferiorità sociale (cf Lc 19,1-10, e si tratta nuovamente di un "pranzo").

Una simile «etica conviviale» di Luca rappresenta dunque nel suo insieme una rottura con gli ideali della cultura cittadina dove le comunità cristiane stanno nascendo. Il terzo vangelo si presenta come "buona notizia" anche nella misura in cui rompe con i principi di patronato, di beneficenza e di ricerca dell'onore, tutti fondati sul sistema della reciprocità bilanciata.

Le “élites” cambiano, i meccanismi restano

Certo, non siamo più nelle città preindustriali di Luca e di Paolo, siamo però sempre parte di una “Chiesa di Dio che è in ... ”. Ripetere questa frase paolina (cf. 1 Corinti 1,2) è anzi diventato una moda. Tuttavia, nel saluto di Paolo «alla Chiesa di Dio che è in Corinto» c’era qualcosa di più che un “indirizzo”. Come nell’opera di Luca, c’era la convinzione che il cristianesimo lo si vive non fuori della storia, ma in rapporto con un contesto cittadino concreto nel quale si innesta una “differenza”. Le “società complesse” di oggi hanno anch’esse i loro “sistemi di relazione”. I “club” sono cambiati rispetto al tempo di Luca. La democrazia (dove c’è) ha certo reso più percorribile, e nei due sensi, il passaggio tra la classe di “quelli che contano” e la classe di “quelli che non contano”. Ma, appunto, sia pure sotto diversi nomi, le élites sanno ancora molto bene come delimitare il loro cerchio. E da questo punto di vista, l’organizzazione della “città di Dio” non sembra molto diversa da quella della “città dell’uomo”. E forse sarebbe biblicamente più onesto cambiare la frase di Paolo, e parlare di una “Chiesa che è come quelli di...”.

Per essere fedeli al vangelo di Luca, basterà alla Chiesa di oggi predicare “beati i poveri” e “guai ai ricchi”? Basterà parlare di “ricchezza disumana” e di “autosufficienza idolatrica”? Basterà aver descritto una “dottrina sociale” perfetta (almeno nei libri), in difesa della dignità della persona?

Non si fa nessuno sconto ai “ricchi” se si dice che il discorso di Luca su di loro mette in gioco ogni mentalità di “élite”, e magari di “carriera”. Non solo civile, ma anche ecclesiastica. Del “regno”, a una Chiesa che ha acquisito nelle sue strutture relazionali i meccanismi mondani di “riconoscimento”, resta poco da mostrare: come i ricchi, ha già la sua ricompensa, ha già i suoi status symbol, ha già qui i suoi “amici”. Il tesoro nei cieli sarà certo per tutti, grazie al nome della misericordia.  Ma secondo Luca, ciò che conta si vede solo nella  vita di coloro che, per quello che danno, dicono o fanno, «non si aspettano niente in cambio» (Lc 6,35). E nemmeno lo prendono. 

Antonio Pinna