©Vita Nostra 2001, anno 41, n.07, Domenica  18 febbraio 2001, p. 6

- Traduzione in sardo di Lc 6,39-48
- Commento di traduzione sul problema delle equivalenze e del passaggio da una lingua ad un'altra

Lc 6,39-49
Sa pitzialla e su cordau

39 E ddis at nau fintzas e unu dìciu: «No ca unu tzegu podit fai ghia a unu tzegu? Non nci ant a arrui s'unu e s'atru aintru de unu fossu? 40 Su scienti non est prus de su maistu; ma donnia scienti beni imparau at a essiri comenti de su maistu suu.
41 Poita castias sa pitzialla chi est in s'ogu de fradi tuu, candu de su cordau chi est in s'ogu tuu e totu mancu ti nd'acatas? 42 Comenti fais a narri a fradi tuu: Fradi, lassa ca ti ndi bogu sa pitzialla chi est in s'ogu tuu, e tui e totu non bis su cordau chi est in s'ogu tuu? Tui, fraìtzu, bogandi innantis su cordau de s'ogu tuu e tandus as a biri craru po ndi bogai sa pitzialla chi est in s'ogu de fradi tuu.

43 Scieis fintzas ca non s'agatat mata bona chi fatzat frutu malu, né mata mala, su propiu, chi fatzat frutu bonu. 44 E difatis donnia mata si connoscit de su frutu suu; ca non si ndi boddit
figu de sa spina, e de s'orrù non si binnennat àxina. 45 Sa genti bona de is arrichesas bonas de su coru ndi bogat a foras su beni, e sa genti mala de is arrichesas malas ndi bogat a foras su mali, poita ca sa buca insoru fueddat de sa budàntzia de su coru.

46 E a ita srebit chi mi tzerriais: "O su Sennori, o su Sennori!", e agoa non faeis su chi si naru?
47 A chini si ponit cun mimi e ascurtat is fueddus mius e fait su chi nau deu, imoi si dd'amostu deu a chini assimbillat: 48 assimbillat a unu chi pesendi domu at sacavau a fundu e at postu is fundatzionis in s'arroca. E candu est calàda s'unda, s'arrìu at impelliu sa domu, e no dd'at potzia sciorrocai ca fut beni pesada.
49 Ma chini at ascurtau e no at fatu su chi apu nau deu assimbillat a unu chi nd'at pesau sa domu in pitzus de sa terra, chentza de fundatzionis.
Candu est calàda s'unda s'arrìu nci at impelliu sa domu, e illuegu nd'est arruta e su sciuscìu fut mannu».

 

Io sono la A e la Zeta.
Solo le nostre lettere non farebbero parte dell’alfabeto del Verbo?

Come tradurre “ipocrita” in sardo? Una tale domanda richiede una riflessione preliminare.

Premessa. Un processo di traduzione è una ricerca di equivalenze che pone talvolta particolari problemi al traduttore. Relativamente al livello delle equivalenze lessicali si possono dare tre casi. In un primo caso, nel testo da tradurre è presente un “concetto condiviso” con la lingua di arrivo, nella quale tuttavia è assente un termine unico corrispondente. In un secondo caso, invece, nel testo di partenza è presente un “concetto non condiviso” con la lingua e la cultura di arrivo, nemmeno a livello di idea. In un terzo caso, infine, nel testo di partenza sono presente dei termini cosiddetti “chiave”, cioè dei termini così importanti nello sviluppo del tema da richiedere un particolare trattamento.

Veniamo subito al termine “ipocrita”. Nei vangeli sinottici esso ricorre solo in bocca Gesù. Ciò è interessante, dal momento che né in ebraico né in aramaico esisteva una parola corrispondente. Siccome il termine è greco, qualche esegeta ha  immaginato che Gesù parlasse di tanto in tanto in greco. Ora, non abbiamo niente in contrario ad “immaginare”  Gesù che parla greco. E questo non per la scienza infusa di cui hanno parlato i teologi, ma semplicemente perché aveva vissuto trenta anni in Galilea e per di più a Nazaret, vicino a Sefforis, città che dagli scavi archeologici recenti sembra essere stato proprio in questo tempo un centro avanzato di civilizzazione occidentale, anche se i vangeli (stranamente, secondo alcuni) non la nominano mai. Città tanto sviluppata, che taluni hanno ancora immaginato che Giuseppe e Gesù vi abbiano lavorato come carpentieri nella costruzione dei diversi importanti edifici ritrovati. Tra cui del resto proprio un teatro, che qualcosa con gli “ipocriti” ha a che fare, dal momento che il termine indicava in greco proprio il ruolo di chi sulla scena “interpreta” una parte o “risponde, espone”, in discorso o dialogo con altri “attori”.

Ma con l’immaginario e il verosimile non si ricostruiscono né storia né lingua. Di fatto, il termine “ipocrita” è greco, e che l’abbia usato per primo Gesù o gli evangelisti, cambia di poco il problema del passaggio da una lingua all’altra. Di fatto, anche se vi piace immaginare che di tanto in tanto Gesù dicesse qualche parola in greco, è fuori dubbio che egli parlasse aramaico, e come i suoi uditori e come i primi cristiani ebrei non aveva in questa lingua un termine corrispondente a quello greco di "ipocrita".  Tuttavia, l’aramaico non manca di concetti come “simulazione” o “insincerità” o “falsità”, e per essi Gesù aveva a disposizione altri termini più generali. Haneph, ad esempio,  ha un significato generico di “profano, allontanamento dal giusto, irreligioso” e ha, nella forma verbale causativa, il senso di “agire falsamente verso qualcuno”. Così pure il termine shaw’   si muove nell’area  semantica di ciò che è “vano, vuoto, inutile”, ed è usato nella bibbia ebraica per parlare dei falsi profeti, dei quali si parla appena prima nel testo lucano. All’aspetto giuridico del nostro medesimo contesto (“non giudicare”), appartiene poi il termine sheqer , usato anch’esso per i falsi profeti, ma che viene usato specificamente per i falsi testimoni.  Dunque, se la lingua parlata da Gesù non aveva un equivalente esatto del termine “ipocrita”, essa ne aveva però altri, più generali, ma appartenenti alla medesima area semantica. I primi cristiani di origine greca, esprimendo tale concetto generale nella loro lingua, hanno usato un termine più specifico della loro cultura. Così facendo, non hanno tolto niente al messaggio evangelico, gli hanno invece aggiunto un aspetto, implicito oggi per noi, di “simulazione scenica”, con tutte le connotazioni di "pretesa" che l'isotopia del livello teatrale poteva convogliare. Aspetto che, se esplicitato, rende bene ancora oggi la differenza fra ciò che si è e ciò che si pretende apparire, e lo rende certamente meglio dei termini disponibili nella lingua originaria parlata da Gesù.

Ciò illustra un punto che abbiamo esposto anche da queste pagine. Tradurre la Bibbia in sardo non serve anzitutto per far conoscere il vangelo a tziu Srabadoi o a tzia Madalea, ma serve anzitutto a Dio, alla sua ricchezza non ancora finita. La parola di Dio non si è ancora incarnata del tutto, non ha ancora detto tutto, finché non avrà usato anche le ricchezze linguistiche e culturali della nostra isola. Il greco ha arricchito la parola del Verbo fatto carne usando le proprie parole. Le quali perciò sono diventate anche le Sue parole, con la maiuscola. Forse solo le nostre lettere non sarebbero degne di far parte di quell’alfabeto universale di cui il Verbo è la A e la Zeta?

Sopralluogo. Vediamo ora che cosa succede in alcune, poche, traduzioni sarde disponibili. La traduzione del Vargiu (1990), fatta ripetiamo sulla falsariga della traduzione dinamica italiana della Ldc-Abu, usa “falsu” sia nel nostro passo di Lc 6,42 sia in quello parallelo di Mt 7,5 dove però dice “No siast falsu!” invece del semplice vocativo “Falsu!”. Quando il termine ricorre al plurale “ipocriti”, Vargiu usa “frassus” in Mt 6,2, “falsus” appena dopo in Mt 6,5.16;  cambia invece in Mt 15,7 e 22,18 dove usa “Faccianus”, citato nel Ditzionariu del Puddu, la cui definizione tuttavia starebbe ad indicare piuttosto un uso improprio del termine: “chi faedhat o faghet sas cosas a fatza manna, chentza birgonza veruna; nâdu de fémina, chi est irfatzida, bagassa, chi che cónchinat sos ómines”: ciò che non è evidentemente il senso del termine nell’uso sinottico. In Mt 23, dove il termine ricorre nell’espressione “farisei ipocriti”, Vargiu usa sempre “fariseus prenus de falsidadi” (vv. 13.15.23.25.27.29), espressione che alla lettera si ritrova in Mt 23,28 : “ma a intru seis prenus de falsidadi e de dónnia cosa mala”. Vargiu ritorna infine a “falsus” in Lc 12,56 e alla variazione del vocativo “seis falsus”’in 13,15. Questa variazione all’indicativo al posto del vocativo sembra originata da una imitazione della traduzione Ldc-Abu, in Mc 7,6. Una identica imitazione è presente in Mt 24,51, dove anche il Vargiu usa un generico “malus”. Un esempio che ci sarebbe sembrato bene non seguire. Quando il termine infine ricorre nella forma verbale, troviamo il verbo “fingi” in Lc 20,20: “iant mandau unus cantus bugonis e ddus iant cunzillaus de si fingi ominis onestus”. Infine, alla forma astratta troviamo “falsidadi” nel già citato Mt 23,28 e in Mc 12,15: “ma Gesus, conoscendo sa falsidadi insoru…”.

Nella versione del Cuccu (1997), che dichiara di voler fare una traduzione formale, troviamo “Fingidòri” in Lc 6,42 e Mt 7,5; e in modo omogeneo il plurale “fingidòris” in Mt 6,2.5.16; Mt 15,7; 22,18; Mc 7,6; Lc 12,56; 13,15;  e nelle sei occorrenze di Mt 23, dove in modo coerente al v. 23,28 troviamo anche l’espressione “prènus de fingimentu e de iniquidadi”. Dopo una tale omogeneità, non ci saremmo aspettati di trovare “ipócritas” in Mt 24,51, dove però troviamo anche una traduzione tanto immaginariamente letterale-etimologica quanto assurda, quando fa del padrone del servo infedele un cinico torturatore : “candu ad a arrivai su meri de cussu serbidori in dì chi no abèttada e in un’ora chi no scidi, ddu ad a segai in dùus e ad a ponni puru sa parti sua cun is ipocritas”. Sulla quale traduzione è bene non infierire per non aumentare la truculenza della scena. Nell’uso alla forma verbale troviamo invece che il Cuccu cambia vocabolario: “E spegulendi cun assentu, hadi mandau [sic! Al singolare!] tramperis, chi faìanta crei de essi giustus”. Nella forma astratta, dopo aver usato “fingimentu” in Mt 23,28, troviamo invece “ipocrisìa” in Mc 12,15. 

Per quanto riguarda la traduzione dei Ghiani, essi nei testi finora tradotti stanno optando per “fraitzu, fraitzus, frassia”. Ciò che ci porta a una ulteriore riflessione. Infatti, leggiamo nel Ditzionariu del Puddu alla voce “fraissu”: “chi o chie zughet fraitza, trassas, e leat a s’àteru a ingannu; chi est furuncu, foressidu; nâdu in suspu, su grodhe”. La voce “fraìcia, fraitza” conferma ciò che sembra la caratteristica di questo termine, la capacità di ingannare danneggiando l’altro, “capatzidade de leare s’àteru a ingannu”. Il termine “falsu” invece sembra piuttosto insistere sulla non corrispondenza tra ciò che appare e ciò che è, e include un'idea di danno solo quando è usato, come l’ebraico sheqer, per i falsi testimoni.

Dalla lingua alla teologia. È giunto così il momento di introdurre il livello di “equivalenza discorsiva” accanto a quello di “equivalenza lessicale”. Ci sembra infatti che i tentativi di traduzione finora fatti siano preoccupati quasi esclusivamente del livello lessicale; per di più, senza troppa coerenza e senza passare nemmeno attraverso una verifica dei testi originali. Ora, a leggere attentamente il contesto della pagina di Luca 6, dove il termine di “ipocrita” è usato per un destinatario generico, ma soprattutto se si confrontano tra loro i contesti in cui Gesù usa il termine al plurale rivolto ai farisei, appare chiaro che Gesù non sta condannando semplicemente una “falsità” o una “non corrispondenza”, ma sta denunciando il danno che alcuni procurano ad altri con la pretesa di un insegnamento religioso, esigente e autorevole. Diamoci il tempo, in queste letture domenicali  e sabbatiche, di rileggere il testo lucano e di accorgerci che la sua caratteristica è la sproporzione volutamente esagerata tra la pagliuzza e la trave. Ogni spiegazione della pagina, anche omiletica, per essere presa sul serio, deve includere questa contrapposizione. Di fatto, non tutte le interpretazioni che vengono proposte lo fanno. a) Si è detto ad esempio, e predicatori leggono e ripetono, che il desiderio di aiutare gli altri deve essere accompagnato dal desiderio di migliorare sé stessi. b)  Si è detto pure, e guide di gruppi biblici leggono e ripetono, che se ci capita di voler giudicare gli altri dobbiamo ricordare che Dio ha molto da giudicare anche contro di noi (confermando così una certa tendenza delle facili prediche a fare del cristiano un perenne colpabilizzato). c) Si è detto pure, e padri spirituali leggono e ripetono, che uno deve aiutare gli altri senza accusare o minacciare, ma riconoscendo la comune solidarietà nel peccato. d) Si è detto pure, e contestatori leggono e volentieri ripetono, che in questo momento il discorso di Luca si rivolgerebbe alle guide spirituali della chiesa o del popolo ebraico, anche se è chiaro che il testo è sempre rivolto semplicemente "a voi che mi ascoltate", cioè ai discepoli.  Tutte queste spiegazioni hanno certamente una parte di verità e di universale buon senso, ma questa parte, presa in sé stessa, non ha bisogno di questa pagina evangelica per essere detta. Il fatto è che purtroppo queste spiegazioni non prendono in considerazione ciò che è l’aspetto più proprio del testo, appunto la sproporzione tra la pagliuzza e la trave. Ora, nel contesto immediato del discorso “presso la montagna” (dizione che ci sembra più esatta di quella di “discorso della pianura”), il problema di Luca è proprio quello di superare un modo proporzionato e simmetrico di agire (“anche i peccatori fanno lo stesso”), per arrivare invece ad un comportamento sproporzionato, come quello di "amare i nemici”. Solo così il discepolo si inserisce nell'agire sproporzionato di Dio: “una misura bona, arrecracàda, scutulàda, prena a cùcuru Deus a bosatrus si dd'at a ponniri in coa” (trad. Ghiani). Capita invece con grande facilità, e con tutta la buona intenzione di essere “guida”,  che tutti i discepoli, e non solamente le guide del popolo, seguono una sproporzione invertita. È  tipico infatti di un sincero desiderio di perfezione fare attenzione ai minimi dettagli, anche perché, come i predicatori amano ripetere, si comincia dalle “piccole cose”; solo che spesso tanto più si è attenti alla perfezione delle “cose piccole”, tanto più si rischia di trascurare le “cose grandi”. È di fatto quello che Gesù rimprovera ai farisei, “i separati, i perfetti”, ad es. in Mt 23,23-24: “23 Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che pagate la decima della menta, dell'anèto e del cumìno, e trasgredite le prescrizioni più gravi della legge: la giustizia, la misericordia e la fedeltà. Queste cose bisognava praticare, senza omettere quelle. 24 Guide cieche, che filtrate il moscerino e ingoiate il cammello!”. Tanto più che così facendo sovente si guadagnano anche una certa fama che ha un suo corrispettivo di interesse, ma, appunto, a danno degli altri, come dice in Mc 12,38-40:  Diceva loro mentre insegnava: Guardatevi dagli scribi, che amano passeggiare in lunghe vesti, ricevere saluti nelle piazze, 39 avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti. 40 Divorano le case delle vedove e ostentano di fare lunghe preghiere; essi riceveranno una condanna più grave”. 

Da questo punto di vista, tradurre il termine “ipocrita” con “fraitzus”, con la sua connotazione di danno doloso, va oltre una equivalenza lessicale per ritrovare un’equivalenza discorsiva e contestuale. Da una prospettiva di storia della traduzione, se il greco con il termine di “ipocrita” ha aggiunto agli eventuali termini aramaici una connotazione di simulazione e di pretesa “teatrale”, il sardo con il termine “fraitzu” esplicita meglio l’intenzione di danno a fini di proprio interesse, senza del resto omettere del tutto il senso di “mascheramento”, dal momento che una componente semantica di “fraitzu” è proprio quella di nascondimento doloso delle proprie reali intenzioni. È solo un esempio concreto, al di là di discorsi teorici e sovente vuoti di riferimento, di come l’uso appropriato della lingua sarda può dare il suo contributo per comprendere ed esprimere meglio una medesima fede. In questo caso, una fede non solo attenta più all’amore delle persone che alla perfezione del dettaglio, ma anche capace di non lasciarsi “defraudare” e di non “defraudare” nessuno, con la scusa che Dio sta sulla punta della lancia delle  nostre perfezioni celestissime, e, in ultimo, dei nostri terrenissimi interessi. Solo un'ultima domanda: come direste : “fraitzu” in italiano? Più tempo ci mettete per rispondere e più vi accorgerete che il sardo qualcosa di suo lo pùo dire. Se glielo facciamo dire bene, e non soltanto ricalcando in modo secondario l'italiano degli altri.