©Vita Nostra 2001, anno 41, n. 33, domenica 16 settembre, p. 1 e 6

In questo numero:

- Fondo sull'attentato dell'11 settembre
- Rosh Has-Shanah 5762
- Lc 16,1-13

Lc 16,1-13

E a is iscientis ddis naràt puru: "Custu fut un'omini arricu chi teniat unu amministradori, e dd'ant fatu s'imputu ca custu fiat isperditziendiddi is benis. 

2 E dd'at tzerriau e dd'at nau: "Ita funt custas cosas chi seu intendendi po tui? Torramì su contu de s'amministrazioni tua, ca non podis amministrai prus".

3 Ma s'amministradori intra sei at au: "Ita ap'a fai, ca su meri miu mi ndi pigat s'amministratzioni? A marrai? Non tengiu fortza. A pediri sa limùsina? Mi ndi parit bregungia.
4 Ddu sciu deu it'ap'a fai, e aici, candu ap'a perdiri s'amministratzioni, nci at ari calincunu chi m'at a arriciri in domu sua.
5 E at fatu bènniri a unus a unus is depidoris de su meri suu e a su primu dd'at nau: "Cantu ddi depis a su meri miu?".
6 Issu at nau: "Centu zirus de ollu". E issu dd'at nau: "Piga is paperis tuus, setzitì e iscrì illuegu, cincuanta".
7 Apustis a un'aturu dd'at nau: "E tui cantu depis?". Issu dd'at nau: "Centu mois de trigu". E dd'at nau: "Piga is paperis tuus e iscrì otanta".

8 Su meri at bantau s'amministradori de trassas malas ca fiat istetiu abbistu. Ca is fillus de custu mundu, candu tenint ita biri cun is atrus, funt prus abbistus de is fillus de sa luxi.
9 E deu puru si naru: "Fadeisì amigus cun s'arrichesa de faìnas malas, poita candu cussa at èssiri spaciada Deus s'at a arriciri in is tendas de s'eternidadi".
10 Chini est fidau in pagu cosa est fidau fintzas in cosa meda e chini non fait su giustu in pagu cosa, non fait su giustu nemancu in cosa meda.
11 Chi, duncas, non seis istetius fidaus cun s'arrichesa de is faìnas malas e chini s'at a tenni fidaus in s'arrichesa vera?
12 E chi non seis istetius fidaus in custa arricchesa allena, chini s'at a donai sa de bosatrus?
13 Perunu srebidori podit srebiri a duus meris: o at a minuspretziai a unu e at a istimai a s'àturu o s'at a tirai cun d'unu e at èssiri contras a s'àturu. Non podeis srebiri a Deus e a Arrichesa.
 

Rosh Has-Shanah 5762

Rosh Has-Shanah 5762
È il primo giorno dell'anno ebraico, ma arriva nel settimo mese

 

Il 17 settembre è per gli ebrei il capodanno 5762. È il primo giorno del mese di Tishrì,  il quale però è il settimo mese dell'anno. Come mai questa stranezza? Come mai il primo giorno dell'anno non si celebra il primo giorno del primo mese, il mese di Nisàn, mese durante il quale si celebra anche la Pasqua ?

La risposta è nascosta nella storia dei secoli passati. La festa di Rosh Hashanah ha la sua origine in una celebrazione biblica del primo giorno del settimo mese, quando si doveva suonare lo shofar (ricavato da un corno di montone) e cessare da ogni lavoro: "Il settimo mese, il primo giorno del mese terrete una sacra adunanza; non farete alcun lavoro servile; sarà per voi il giorno dell'acclamazione con le trombe" (Num 29,1). Per questo il nome biblico di questo giorno è anche quello di Yom Teru'àh, "Giorno del suono dello shofar".

Molto probabilmente, gli antichi ebrei consideravano il settimo mese allo stesso modo del Sabato, il settimo giorno della settimana, come un tempo "da santificare". In realtà, il settimo mese di Tishrì è il mese che include il maggior numero di feste nel calendario ebraico, e tra queste la più "drammatica", la festa di Yom Kippur (il 27 settembre quest'anno). L'inizio del settimo mese può dunque aver ricevuto una importanza e un significato spirituale che lo ha mantenuto distinto dalla importanza storica del primo mese di Nisan,  che invece celebra l'esodo e la liberazione dall'Egitto.

Inoltre, come altre feste, anche questa era connessa con avvenimenti agricoli. Il settimo mese cade durante l'ultimo periodo della raccolta in Israele, e i suoi primi giorni furono quindi celebrati come la fine dell' annata agricola di cui si raccoglievano gli ultimi frutti e l'inizio della prossima annata.

Questo aspetto di inizio di un "nuovo anno" trovò uno sviluppo  per influsso dell'esilio a Babilonia (586 a.C.), quando gli ebrei adottarono nel calendario i nomi babilonesi dei mesi, al posto dei numeri ordinali ( primo mese, secondo mese...) usati fino ad allora. Ora, il nome di Tishrì  deriva da una radice babilonese che significa appunto "inizio", e l'uso babilonese di cominciare un nuovo anno in questo mese è passato anche presso gli ebrei, nel nuovo ordinamento dell'epoca del Secondo Tempio.

Per chi ricorda i nomi sardi dei mesi, tutto questo non risulta poi così strano, dal momento che il mese di settembre ha come nome proprio quello di "capudanni", cioè mese che segna il "capo" dell'anno, "su cabudu" (rosh, "capo, testa" in ebraico) e che vedeva la conferma o il rinnovo dei contratti in ambito domestico e lavorativo.

Nei primi secoli della nostra era, tempo dello sviluppo e della messa per iscritto della riflessione dei rabbini (Talmud), una tale distinzione del "capodanno" dal mese di Nisan era ormai stabilizzata, e i rabbini vi trovavano come al solito una spiegazione "più alta" di quella fornita dalla cronaca dei secoli. Il mese di Nisan, essi dicevano,  è il mese in cui i nostri antenati sono stati liberati; il mese di Tishrì  è il mese in cui il popolo di Israele sarà liberato nel "mondo che verrà".

E, in effetti, Yom Had-din "Giorno del giudizio" è un altro nome di Rosh Hashanah, perché Dio in questo giorno decide quali nomi saranno scritti nel "libro della vita" e quali nomi invece nel "libro della morte" per l'anno seguente. La decisione, dicono i rabbini, è presa nel giorno di Rosh Hashanah e poi confermata dieci giorni dopo, alla fine del giorno di Yom Kippur. La decisione di Dio può essere cambiata a seconda del comportamento che uno tiene in questi dieci giorni, i quali perciò prendono il nome di "Dieci giorni di conversione" Aseret Yemèi Teshuvah. Nel Medio Evo questi dieci giorni furono chiamati anche Yamim Nora'im, "Giorni del timore", denominazione usata ancora oggi.
In modo significativo, per il giorno di Rosh Hashanah  il calendario liturgico sinagogale prevede la lettura del racconto della nascita di Isacco (Gen 21), mentre per il secondo giorno della festa prevede la lettura della Akedah, del "legamento",  "del sacrificio", di Isacco (Gen 22), in cui Israele si vede preservato nell'esistenza da Dio (per gli arabi, parallelamente, il figlio salvato è il loro capostipite Ismaele).

La preghiera conclusiva del servizio sinagogale, la Amidah, così chiamata perché si dice "stando in piedi" (e più conosciuta presso i cristiani come la "preghiera delle diciotto benedizioni") ha in quel giorno un'aggiunta di tre parti dai nomi significativi di Malhuyyot (i regni), Zikhronot (i ricordi), Shofarot (le trombe, o i suoni dello shofar). Ognuna di queste sezioni contiene dei versetti biblici adatti al loro tema e tolti dalle tre parti della Bibbia ebraica, Pentateuco Profeti e Agiografi. Nella preghiera dei "regni" Dio è cantato come re dell'universo, mentre nella preghiera dei "ricordi" si proclama che Dio ha cura di tutte le sue creature e niente è a lui nascosto. La preghiera delle "trombe" infine parla della rivelazione sul monte Sinai, descritta nel racconto biblico come accompagnata da tuoni e suoni di tromba, e guarda al futuro, quando la venuta del messa sarà anch'essa accompagnata dal suono dello shofar.

In alcune comunità Ashkenazite, cioè dei giudei della Germania e del nord della Francia, e oggi soprattutto dell'Europa dell'Est (il termine Ashkenaz  può derivare dalla pronuncia Yiddish di Sachsen "Sassonia"),  si conserva l'usanza particolare, detta Tashlikh, di una preghiera recitata, il primo o il secondo giorno di capodanno,  presso una sorgente o una fonte di acqua, per significare la propria purificazione e conversione.

 

 

Editoriale dopo l'11 Settembre

 

[Titolo non messo]

 (Di accuse di silenzio ce ne basta già una)
 Nessuna accusa di silenzio

 

 

[neretto sostitutivo di titolo in prima pagina e Catenaccio in seconda] 

"Non lasciare che l'inimicizia di un popolo contro di te ti inciti a fare il contrario della giustizia"   (Corano 5,8)

1. Le feste sbagliate. Ero a Gerusalemme quando Saddam Hussein invase il Kuwait e assistetti allora alle manifestazioni di gioia dei palestinesi per l'invasione di questo piccolo stato. Gli americani stavano preparando ancora il loro intervento, quando un palestinese, tranquillo padre di famiglia, insieme con il quale avevo guidato dei gruppi di pellegrini, mi diceva convinto "Il Kuwait ormai è nostro e nessuno ce lo toglierà". Tutti sappiamo come sono andate le cose. Ieri abbiamo visto altre assurde immagini di gioia da parte ancora di una parte non piccola di palestinesi ormai abituati a fare le feste sbagliate e a prendere le decisioni più contrarie ai loro stessi interessi internazionali e nazionali. Questa volta, almeno, Arafat è apparso davvero e sinceramente scioccato dalle immagini che gli giungevano dagli Stati Uniti.  Sicuramente, Arafat si rendeva conto delle possibili conseguenze negative per la causa dei palestinesi, che pure tutto lascia pensare come una delle cause, dirette o indirette, di questi attentati terroristici contro gli Stati Uniti e in definitva contro il mondo occidentale.

2. Il rischio di dividere il mondo in due. L'atto di guerra contro gli Stati Uniti, nel momento in cui scrivo, è stato condannato anche da quegli stati e da quelle organizzazioni che pure notoriamente ospitano o promuovono basi terroristiche di fanatici islamici. Che la strage di New York si verifichi o no come organizzata da gruppi fanatici islamici, di fatto la comprensione e l'intesa tra mondo occidentale e mondo islamico rischia di trovarvi un'ulteriore incrinazione. Vorrei spendere due parole per fare dei ragionamenti che raramente la stampa si dà il tempo e la calma di fare.

3. Troppo silenzio. Anzitutto, troppo poca è l'attenzione che il mondo occidentale e la sua stampa dedica a quanto diffusa sia in certi ambienti arabi e palestinesi l'educazione alla violenza e all'odio. In mezzo a tante iniziative in difesa dei bambini, non mi sembra che si sia parlato molto nella nostra stampa dei quattro campi che il Canale 2 Israeliano denunciava come organizzati dalla Jihad Islamica nella striscia di Gaza. In questi "Paradise Camps" o "Villaggi Paradiso" bambini e ragazzi dagli otto ai dodici anni imparano l'importanza di diventare "bombe umane",  vedono i filmati dei "venerabili martiri" che muoiono mentre uccidono degli israeliani. "Noi insegnamo ai bambini che le bombe suicide incutono terrore al popolo israeliano e abbiamo il permesso di farlo", ha detto un assistente del campo a un operatore della BBC. "Noi insegnamo loro che quando uno diventa una bomba umana raggiunge il livello più alto nel paradiso". Il 19 luglio un portavoce dell'Autorità Palestinese dichiarava al Canale 1, sempre israeliano, che questi campi sarebbero stati chiusi per ordine di Arafat, e nel mentre smentiva che nei campi estivi organizzati da Fatah i bambini ricevessero qualsiasi istruzione militare. Non ho letto di inchieste o di giornalisti che siano andati a vedere cosa c'è di vero in tutto questo.
A parte i "villaggi paradiso", non mi sembra si dedichi molta attenzione ai contenuti dei libri di testo diffusi nelle scuole palestinesi. Libri di testo sovente finanziati da fondi della Comunità Europea. Basti dire che su alcuni di essi non è mai apparsa l'esistenza "geografica" di uno Stato israeliano.

4. Martirio da santificare o suicidio da scomunicare. Detto questo, bisogna saper continuare a fare una distinzione. Molti di questi gruppi militanti usano la religione islamica come giustificazione. Gli uomini bomba credono che il loro è un atto di martirio che assicura un ingresso automatico nel paradiso. Eppure, non tutti all'interno dell'islam sono d'accordo su questa giustificazione. "Per quanto riguarda il modo con cui una persona si uccide in mezzo al nemico... io non so se ha una giustificazione nella Sharia (nella legge islamica), ha detto la suprema guida religiosa dell'Arabia Saudita, lo sceicco Abdul Aziz bin Abdullah al Sheik. "Temo invece che sia considerato un suicidio (non un martirio, e perciò condannato)". Questa fatwa, o decreto religioso, pubblicato su un giornale della Arabia Saudita alla fine di Aprile, fu seguito qualche settimana dopo da alcuni commenti di una fra le più influenti autorità dottrinali del mondo arabo Sunnita, Mohammed Sayed Tantawi. "Se uno si fa esplodere in mezzo ai nemici che stanno combattendo, allora è un martire, scrisse Tantawi sul semiufficiale giornale egiziano Al Ahram. "Ma se si fa esplodere in mezzo a bambini d donne o anziani che non stanno combattendo, allora egli non può essere considerato un martire".

La distinzione è particolarmente significativa per i musulmani, poiché la loro fede è senza pietà nel caso di suicido. Il suicida. è scomunicato, non può essere sepolto in un cimitero islamico e viene considerato condannato per l'eternità. "Non toglietevi la vita, perché Allah è misericordioso con voi. Chiunque si toglie la vita, disubbidendo, o sbagliando, sarà bruciato nel fuoco", si legge nel Corano.

Come molte religioni, l'Islam non ha una autorità dottrinale centrale, e quindi nessuno che può decidere in modo ultimativo per il suicidio o per il martirio. Ogni singolo individuo è libero di seguire il parere del "saggio" che preferisce. Tuttavia, almeno teoricamente, nessuno discute il principio e la distinzione del sunnita Tantawi, e cioè che il farsi esplodere in mezzo a innocenti civili è un vero e proprio suicidio. Per evitare però che questo parere unanime possa essere considerato un modo di indebolire la guerra contro Israele, alcuni teologi affermano che ogni cittadino israeliano, ad eccezione forse dei bambini,  è da considerare un "combattente" poiché il territorio di Israele deve essere considerato a tutti gli effetti un campo militare. "Se si fosse in qualsiasi altra parte e non in Israele, le parole di Tantawi dovrebbero essere messe in pratica completamente, ma non Israele, poiché la sua società è un accampamento militare", ha detto il teologo hezbollah Sheil Afif Naboulsi.
Queste considerazioni escludono, anche all'interno dell'Islam, la possibilità di parlare di "martirio" di fronte all'azione terroristica che ha colpito gli Stati Uniti.

5. Le religioni sono sempre tentate dal "martirio". La comunità islamica non ha inventato e non ha il monopolio della pratica degli attacchi suicidi. Durante la seconda guerra mondiale, l'esercito giapponese usò 4615 piloti kamikaze ("vento di Dio") che si lanciavano sulle navi per affondarle. L'Iran, durante la guerra con l'Iraq, ha inviato truppe di giovani in missioni suicide, benedicendoli come martiri al momento della partenza. Nello Sri Lanka l'organizzazione delle Tigri Tamil ha creato delle speciali unità suicide che combattono per uno stato separato. In ognuno di questi casi si trattava sempre di contesti definiti di guerra. Gli esperti di antiterrorismo dicono che gli attacchi suicidi risultano per certi gruppi quanto mai attraenti, perché molto efficaci, difficili da arrestare, e relativamente facili da eseguire, non essendo necessario escogitare vie di fuga.

 

6. Un dialogo culturale deve affiancare i "riti" ecumenici. Il dibattito "teologico" continuerà nel mondo islamico, e purtroppo continuerà anche la pratica degli attacchi suicidi. Quale via per affrontarli? Di sicuro, non quella di evitare una discussione approfondita sulle giustificazioni "religiose" di tali azioni. Forse, anche da parte cattolica, si tace troppo sulla responsabilità di alcune dichiarazioni di certe autorità dottrinali islamiche. Forse si dice e si fa troppo poco per aiutare chi nel mondo culturale islamico tenta di far emergere uno spirito più critico e più aperto. Da questo punto di vista, non bastano gli incontri ecumenici e le cerimonie di preghiera tra élite religiose. Di questi "riti" niente passa o viene divulgato da parte degli stessi partecipanti islamici nei loro rispettivi paesi.
Tra le personalità islamiche che hanno parlato in modo più aperto circa la questione "suicidio o martirio" dobbiamo menzionare il professore di legge islamica Khaled Abou el Fadl. Per lui,  il punto chiave è la natura indiscriminata degli attacchi suicidi. Egli ha criticato come immorali gli attacchi suicidi che non distinguono tra israeliani pacifisti e belligeranti, tra il personale militare o capace di azione militare e i bambini e gli anziani. Pur criticando il trattamento che gli Israeliani riservano ai Palestinesi, egli ha anche citato il verso 8 del capitolo 5 del Corano che dice esplicitamente ai credenti: "Non lasciare che l'inimicizia di un popolo verso di te ti inciti a fare il contrario della giustizia".

Antonio Pinna