NOTE  AUTOBIOGRAFICHE

di  Pietro Silibello

 

 

Sono nato il 6 giugno 1920 a Ceglie Messapica, in provincia di Brindisi.

Sono poche le note biografiche che spiegano in qualche modo il presente lavoro.

La mia famiglia era molto modesta e nella mia fanciullezza furono quasi completamente assenti gli stimoli, anche quelli che, in genere, hanno i ragazzi delle classi popolari. La mia mente infantile era particolarmente colpita da episodi della vita di persone diseredate; ne riporto qualcuno.

      Poteva essere il 1929, l’anno della grande carestia; una sera d’inverno, verso le 8, bussò alla porta di casa una donna che chiedeva del pane per i suoi bambini. Noi non ne avevamo e non potevamo dargliene.

      Quasi ogni giovedì, verso mezzogiorno, bussava alla porta di casa un operaio anziano e molto malandato; gli davamo un piatto di pasta asciutta e lui partecipava, seduto su un gradino esterno della casa, al pranzo con noi.

      Nel paese vi era una donna sui 40 – 45 anni vestita a lutto e triste; aveva tre o quattro figli maschi (uno era della mia età). Ricordo confusamente che alcuni di loro furono condannati a molti anni di carcere. Il loro soprannome era “Scamarcio”. Mio padre ci diceva che il papà di questi giovani era stato condannato all’ergastolo perché, falsamente, gli era stato attribuito un omicidio.

      Questi episodi ed altri simili sono stati sempre presenti nella mia mente e, in un modo impensato, hanno tracciato il sentiero principale della mia vita.

      A quel tempo nel mio paese di circa ventimila abitanti i preti erano non meno di trenta, tutti, in genere, di famiglia benestante. Erano, si può dire, il fior fiore delle famiglie della classe media che, di fatto, si godevano i molti benefici terrieri ed economici della Chiesa cattolica.

Ricordo ancora “Via degli orti dei preti”, “Via del trappeto dei preti”, …

      I sacerdoti erano, in genere, uomini buoni, ma a tutti sfuggiva completamente che il loro esercizio sacerdotale era completamente estraneo alla Maternità Universale di Dio.

      Alla fine del 1930 una mia zia, dopo la quinta elementare, mi supplicò di entrare in un istituto religioso per farmi sacerdote.

Io accettai volentieri.

      Nel seminario dei Cappuccini di Francavilla Fontana eravamo circa diciassette e diciassette in quello di Barletta.

Al termine del quinto anno eravamo soltanto tre e al termine del sesto restai solo.

Ricordo un bambino che piangeva perché non riusciva a studiare il latino e, andando via, con le mani diceva: “Beati voi, che potete stare qui!”.

      Questo episodio è stato sempre presente nella mia mente e ancora non sono riuscito a capire perché degli educatori della storia di Gesù riuscirono, nello spazio di sei anni, ad eliminare trentatré aspiranti.

Negli istituti religiosi e nei seminari, cioè, anche oggi l’importante non è formare l’animo dei ragazzi secondo le norme della religione della Maternità Universale di Dio, ma preparare i migliori individui affinché il ceto dominante della Chiesa cattolica possa esercitare il suo potere su tutta la società nel nome del dominio assoluto di Dio, che è poi sempre il dominio assoluto di ogni classe dominante sacerdotale.

Si tratta di un dominio esercitato nel nome di Dio e completamente estraneo a Dio.

      Agli anni di seminario seguirono gli otto anni dell’ulteriore formazione cappuccina o francescana, durante i quali riuscii ad avere i primi barlumi che il programma riformatore di San Francesco era completamente estraneo a quello della Chiesa cattolica e completamente conforme all’insegnamento di Gesù ed alla religione della Maternità Universale di Dio.

      I punti fondamentali del programma di San Francesco sono due, ma oggi è assai difficile rintracciarli nei comuni libri su San Francesco.

Il primo era l’assistenza ai lebbrosi, nel senso di trovare il modo per permettere loro di vivere come noi e sentirsi come tutti gli altri uomini.

      Il secondo era lavorare i più disagiati, affinché con tale impegno scomparissero le classi sociali e tutti si sentissero figli della stessa madre, Dio.

      Una specie di eco di questi miei pensieri sul programma di San Francesco si trova in “Il Natale di San Francesco”, un lavoretto (riportato in appendice) da me recitato una sera di Natale dinanzi a tutti i superiori dell’Ordine. Questo mi fu possibile solo perché al revisore dei vari lavoretti sfuggì completamente la revisione del mio.

      Seguirono pochi anni di vita sacerdotale, durante i quali ho anche insegnato religione nelle scuole dello Stato, dopo di che chiesi ai miei superiori di lasciare l’Ordine. Loro volevano che restassi nell’esercizio del sacerdozio, ma io insistetti e, dopo due anni, passai allo stato laicale.

      Da allora non ho avuto, in genere, mai più relazioni di rilievo con le autorità della Chiesa cattolica.

      Per cinque anni andai a lavorare in una cava di pietre ad Avetrana, un paese in provincia di Taranto. Gli operai, che mi avevano già conosciuto come sacerdote, mi accettarono volentieri: mangiavo con loro, dormivo con loro, rispettavano tutte le mie pratiche religiose e, durante il giorno, lavoravo con loro.

      Nei cinque anni successivi feci doposcuola, prima ai ragazzi della scuola media, poi ai ragazzi del Liceo Classico, insegnando loro latino, greco e filosofia.

      Il 13 agosto 1966 mi sposai, con rito sacro, nella Basilica di Pompei con la signorina Amedura Anna di Eboli.

      Nel frattempo i miei alunni del Liceo mi avevano consigliato di laurearmi. Conseguita la laurea in Filosofia nel 1969, insegnai lettere nelle scuole medie.

      Da allora ho dedicato la più gran parte del tempo allo studio modestamente critico, dei Vangeli e della formazione etimologica del Dizionario Italiano, secondo criteri completamenti diversi da quello corrente. (*)

      Il tempo libero l’ho, invece, dedicato prima alla coltivazione di un campicello, poi alla coltivazione dei fiori intorno alla parrocchia del Sacro Cuore ad Eboli.

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(*)  Secondo gli studiosi per “dei gruppi di parole che hanno lo stesso tema o struttura e significati facilmente collegabili tra di loro la parola madre è, in genere, un verbo del gruppo; e si fanno dipendere i relativi sostantivi concreti o direttamente da tale verbo o indirettamente, tramite – in genere – un aggettivo.”.

      Secondo Pietro Silibello, invece, “sia i verbi che gli aggettivi sono delle idee o delle astrazioni e necessariamente devono dipendere da un sostantivo concreto, perché il parlare umano ha avuto inizio con parole che indicavano oggetti o fenomeni concreti.

 

PIETRO SILIBELLO è morto il 31 agosto 2004

 

APPENDICE

 

 

IL  NATALE  DI  SAN  FRANCESCO

 

 

   Sono in una strada di campagna. E’ notte. Il cielo è terso. Le stelle brillano vivaci. La luna bianca illumina i campi e le colline. La strada presenta qua e là dei piccoli specchi di acqua, dove si specchia la luna. I muriccioli a secco ed i cespugli sono coperti di neve vergine.

   Cammino cantando le pastorelle. Alzo gli occhi e vedo nella prossima strada un’ombra che avanza col capo leggermente inclinato. Mi sembra un frate. Accelero il passo perché voglio augurargli il buon Natale. Era una figura esile e piccola, una barbetta rada e brizzolata, l’abito stretto e corto e coperto di toppe, scalzi i piedi, il cappuccio in testa e senza mantello. Il viso giocondo e ansioso, come di chi attende una scena bella.

-   Gloria in excelsis Deo, padre -

-   Buon Natale, fratello - e mi fissa in volto due occhietti vivi d’amore.

-   Dove vai, padre, per questa stradetta di campagna? -

-   A festeggiare il Natale con i fraticelli dell’eremo in cima al monte –

-   Padre, vieni con me in città. Abbiamo la chiesa grande e illuminata da molte luci, una schiera di frati giovani che cantano canti liturgici, guidati dal suono dell’organo. Senti, padre, come è bello il suono delle nostre campane? E poi la stradetta del monte è fangosa e tu sei scalzo -

-   Fratello, è più bello il Natale del borghetto. Senti: E’ tardi. Anche la campana dell’eremo suona. Bisogna far presto. Dopo la messa di mezzanotte ripasserò per questa strada –

-   Buon Natale! –

-   Alleluia! – E ci separiamo.

   Inizia il mattutino. La chiesa, piena di popolo, è illuminata a giorno. Le voci dei frati ed il suono armonioso si spandono moderati per le navi della chiesa. L’altare è preparato come nelle più grandi solennità. Tappeto, tovaglie d’oro, fiori in vasi di cristallo, candelieri in metallo dorato lucente. Tutto è meraviglioso. Ma il mio animo non è quieto. Quella figura è impressa nella mente e vi ritorna spesso. Sento qualcosa di indecifrabile. Eppure, cosa mi ha detto quel frate? Perché questi sentimenti? Come s’inoltra la funzione, questo stato d’animo aumenta. Voglio andare a incontrare il frate. Sentirò cosa mi dirà. Gli chiederò chi è e donde viene.

   Termina la messa ed io sono di nuovo sulla strada. Quando arrivo all’incrocio, il frate attende seduto su un sasso.

-   Buon Natale! –

-   Alleluia! –

-   Padre, che funzione! Ho riudito il canto degli angeli a Betlemme. Perché non sei venuto con me? –

-   E’ stato più bello il Natale all’eremo –

-   Come! Più bello? Con quattro padri vecchi, due fratelli semplici e qualche contadino e pastore possono le funzioni essere così solenni come nel convento grande della città? –

-   Sì, fratello. Nel borghetto i frati lodano dio come gli uccellini. Il loro cuore è pieno di gioia e di amore. Cantano canti semplici, modulati solo dal cuore. Quando i loro occhi si posavano sul Bambino, erano occhi estasiati. Erano angeli e pastori –

-   Padre, e non è più in città? I canti solenni, le cerimonie perfette. Non si loda di più Dio e il Bambino? –

   Lui mi fissa, come per dirmi: Tu non puoi comprendermi. Io resto interdetto per un poco. Poi riprendo:

-   Ma, Padre, chi sei? –

-   Non mi hai ancora conosciuto? Fra Francesco d’Assisi –

-   Il fondatore del nostro Ordine? –

-   Sì, fratello. Ogni anno scendo dal cielo per festeggiare la nascita del Bambino di Betlem con i miei frati, ma con i più buoni e semplici dell’Ordine. Lo scorso anno sono stato in quel conventino della tale provincia. Fu tanto bello! Come quello di Greggio –

-   Padre santo, perché non vieni un anno nel mio convento? Ci verrai il prossimo anno? –

-   Qual è il tuo luogo? –

-   Il convento di… -

   Il volto del serafico Padre si fa più mesto, gli occhi accennano al pianto.

-   Ci verrai, Padre? –

-   No, figliolo –

-   Perché, Padre? Il nostro convento è la casa madre. Ci fanno rivivere il tuo spirito per portarlo in tutti i conventi. Tutto è perfetto. Non scegli tu, per festeggiare la nascita del Bambino di Betlem, il convento più vicino al tuo cuore? –

-   Figlio, ho sempre fortemente desiderato di fermarmi nella tua casa. Ogni anno, quando scendo dal cielo, vi passo vicino; ma ho dovuto sempre allontanarmi col cuore pieno di pianto. Ho rivissuto, vicino a quella casa, le lotte cui mi sottoposero i frati studiosi. –

-   Come, Padre? I nostri superiori dicono sempre che ci custodiscono, vogliono farci bere alle fonti del tuo spirito per vivificare le province. Considerano il nostro convento la pupilla degli occhi tuoi e loro. Si aspettano tanto, ma proprio tanto da noi-

-   Figlio, così dovrebbe essere, ma non lo è. Fissa nella tua mente queste parole: se la tua provincia sarà rovinata, lo sarà da quel convento; se il tuo Ordine sarà rovinato ancora di più, lo sarà da simili case –

-   Possibile, Padre? Tutti crediamo il contrario. Ogni fratello si augura in tutti i luoghi la vita del convento madre o centrale –

-   Ecco, figliolo, il peggior male per la tua casa. Tutti sanno, negli altri conventi, di vivere male; e conoscere il proprio male, può significare trovarsi sulla strada della salute. Invece nel convento di… tutti credono di vivere bene; ed avere il male nel proprio sangue e non accorgersene, è essere vicino alla morte

-   Padre, non comprendo il tuo parlare. Però credo ogni tua parola. Ma se è come dici, enumerami tutto ciò che ai tuoi occhi non piace ed io lo farò sapere al Superiore Generale. E’ tanto buono! Desidera il progresso dei frati! Farebbe ogni sacrificio –

-   Figlio, i superiori hanno le leggi, delle quali sono sudditi e il loro stretto dovere è di farle osservare. Non hanno bisogno di altro per fare il bene –

-   Padre, non sarebbe meglio se tu indicassi la via, aprissi la porta? Essi credono che nel convento di… si osservano tutte le tue leggi e si vive secondo il tuo spirito. Desiderano il tuo aiuto –

-   Ti terrò contento. Osservino attentamente, in tutti i suoi particolari, la vita dei conventi più piccoli, più semplici e più poveri. Tolgano tutto ciò che in essi trovano di contrario alle sante leggi. Non aggiungano o tolgano niente altro ed adattino questa vita al luogo di…. Solo allora, figliolo, quella casa sarà il cuore, che manderà in tutte le arterie sangue vergine –

-   Ed è possibile ciò? E lo studio?

-   Te l’ho detto, figlio, che quando passo davanti alla tua casa rivivo le lotte dei frati studiosi? –

-   Bisogna allora abolire lo studio? –

-   No, figlio. Io non l’ho mai condannato. Se fosse stato questo il mio pensiero, sarei stato energico come lo fui per altre cose –

-   Allora? –

   I fratelli cantavano la pastorella di mezzanotte. Mi trovai nel letto. Sognavo.

 

Letto durante una specie di accademia, che si teneva ogni anno la sera del Natale dinanzi a tutti i superiori generali dell’Ordine dei Cappuccini nel refettorio del Collegio Internazionale S.Lorenzo da Brindisi. (1945)

 

Pietro Silibello

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