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RISARCIMENTO DEL DANNO ALLA SALUTE PER MALATTIA DERIVANTE DA SOVRACCARICO
DI LAVORO
( Cassazione -
Sezione Lavoro - Sent. n. 1307 del 5/2/2000 - Presidente F. Sommella - Relatore
N. Capitano )
Con l'entrata in vigore
dei Codici Rocco cessò la funzione limitativa nei confronti dell'art. 1151 dell'allora
vigente codice civile in ordine alla risarcibilità dei danni non patrimoniali,
che il codice penale del 1989 e l'art. 7 del codice di procedura penale del
1913 avevano limitato, mediante l'istituto della "riparazione
pecuniaria", ad alcuni tipi di reato.
L'art. 185 secondo comma
del codice penale, tuttora vigente, previde, infatti, che il colpevole di
qualsiasi reato fosse tenuto a risarcire alla persona offesa non solo i danni
patrimoniali ma anche quelli non patrimoniali.
L'art. 598 secondo comma
dello stesso codice prevede, inoltre, la risarcibilità dei danni non
patrimoniali anche per le offese contenute negli scritti difensivi concernenti
l'oggetto della causa e per le quali il primo comma escludeva la punibilità
oggettiva e, quindi, la sussistenza del reato per mancanza di uno dei suoi tre
elementi essenziali (fatto, colpevolezza e punibilità oggettiva).
Il vigente art. 2043
c.c. potrebbe ricomprendere nei danni risarcibili sia quelli patrimoniali che quelli
non patrimoniali, potendosi attribuire agli uni e agli altri il carattere
dell'ingiustizia richiesto ai fini risarcitori.
L'art. 2059 c.c., però,
pur essendo stato accompagnato da una relazione ministeriale che intendeva
limitare la risarcibilità dei danni non patrimoniali solo in quanto previsti
dalla legge attribuendo alla locuzione "danni non patrimoniali" solo
il significato più ristretto di danni morali causati dal reato, di fatto, però,
ha adoperato un'espressione omnicomprensiva di qualsiasi tipo di danno non
patrimoniale.
D'altra parte al momento
della entrata in vigore (21 aprile 1942) dell'art. 2059 c.c. la risarcibilità
dei danni non patrimoniali non causati dal reato era prevista non solo dal
ricordato art. 598 secondo comma c.p., ma anche dagli artt. 89 e 120 del codice
di procedura civile, entrato in vigore contestualmente al codice civile e non
riferibili, anch'essi, a danni derivati da reato.
In particolare l'art. 89
attribuiva al giudice - e tuttora l'attribuisce - la facoltà di assegnare alla
parte che sia stata offesa da espressioni offensive o semplicemente
sconvenienti una somma a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale.
L'art. 120, invece,
prevedeva - e tuttora prevede - la risarcibilità dei danni non riparati dagli
effetti della sentenza civile e, quindi, i danni non patrimoniali non prodotti
da reato mediante pubblicità eseguita a spese dell'autore dell'illecito civile.
Con l'entrata in vigore
(1 gennaio 1948) della nostra Costituzione, di tipo non flessibile ma rigido (essendo
prevista per la sua revisione o per l'abrogazione di sue norme una procedura
rinforzata ex art. 138 cost.) si è realizzato nel nostro ordinamento giuridico
un insieme di norme superprimarie, le leggi costituzionali, rispetto a quelle
primarie, costituite dalle leggi ordinarie e rispetto a quelle secondarie,
costituite dai regolamenti.
È sorto, allora, il
problema della configurabilità di un diritto, come quello alla salute, che, pur
essendo tutelato da una norma costituzionale (art. 32 cost.) e, perciò, da una
norma superprimaria, non potesse, tuttavia, trovare tutela risarcitoria ex
artt. 2043 e 2059 c.c. se interpretato in senso restrittivo, tenuto, però,
presente che tali ultime norme, in quanto primarie, erano pur sempre
subordinate a quelle superprimarie della Costituzione.
Deve attribuirsi, in
giurisprudenza, al Tribunale di Genova (sentenza del 25 maggio 1974 in
Giurisprudenza Italiana, 1975, 1, 2, 54) il merito di avere per primo
prospettata la risarcibilità del danno alla salute o danno biologico, in quanto
fondata sull'art. 32 cost..
Parte della
giurisprudenza, però, aveva individuato in tale prospettata risarcibilità un
ostacolo ermeneutico nel combinato disposto di cui agli artt. 2043 e 2059 c.c.,
che poteva essere rimosso soltanto dalla Corte Costituzionale.
Quest'ultima, all'uopo
sollecitata, in un primo tempo con sentenza in data 26 luglio 1979 n. 88
dichiarava non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art.
2043 c.c. per la mancata previsione di risarcibilità del danno alla salute,
rilevando che esso quale danno non patrimoniale, al pari del danno morale puro,
andava risarcito ex artt. 2059 c.c. e 185 c.p. come conseguenza lesiva di un
fatto costituente reato.
In un secondo tempo, con
sentenza 14 luglio 1986 n. 184 pur dichiarando ancora non fondata la sollevata
questione di legittimità costituzionale in relazione alla limitata
risarcibilità del danno alla salute previsto dall'art. 2059 c.c. soltanto in
funzione dell'art. 185 c.p., rilevava, però, che tale ultima norma era
riferibile soltanto ai danni morali puri o con ripercussioni economiche
(secondo una distinzione che era stata per la prima volta prospettata da questa
Corte con la sentenza del 27 ottobre 1924 pubblicata sulla Giurisprudenza
Italiana 1924, 1, 952).
Da ciò in riferimento ai
fatti non costituenti reato stabiliva il principio in base al quale era
conforme alla Costituzione l'interpretazione, secondo diritto vivente (in
proposito vanno ricordate soprattutto la citata sentenza del Tribunale di
Genova e quella di questa Corte n. 3675 del 6.6.1981) che considerava non
limitata dall'art. 2059 cit. la risarcibilità del danno non patrimoniale, anche
se tale risarcibilità non è stata esplicitamente prevista dalla legge, qualora
essa sia conseguenza della lesione di un diritto costituzionalmente garantito
come quello alla salute, previsto dall'art. 32 cost..
Il principio è stato
subito accolto dalla giurisprudenza che lo ha esteso dalla responsabilità
extracontrattuale alla quale la Corte Costituzionale aveva fatto riferimento
nell'enunciare il principio, anche alla responsabilità contrattuale.
Per quest'ultima,
infatti, preesistendo un obbligo giuridico tra le parti in relazione
all'esecuzione del contratto nascente dall'accordo dei contraenti o dalla
legge, la diversità di disciplina rispetto alla responsabilità aquiliana si
sostanzia soltanto nell'onere della prova sulla colpa dell'autore
dell'illecito, per il solo fatto che l'inadempimento, una volta provato, fa
presumerla.
Tuttavia non essendo
applicabile l'art. 2059 alla responsabilità contrattuale ed essendo improntato
tutto il sistema della responsabilità contrattuale al risarcimento del danno
patrimoniale, riguardato o come lucro cessante o come danno emergente,
costituente conseguenza diretta e immediata dell'inadempimento (v. art. 1223
c.c.), il danno alla salute o danno biologico per tale tipo di responsabilità
poteva discendere o come esplicita previsione dell'inadempimento operata dalla
legge ordinaria ovvero come conseguenza collegata all'inadempimento di un
obbligo costituzionalmente previsto, anche se non sanzionato dal risarcimento,
essendo la previsione delle sanzioni esclusa dalla tecnica della normativa
costituzionale.
Questa Corte,
perciò, ha ritenuto sussistente il danno biologico del lavoratore in relazione
all'inosservanza dell'obbligo del datore di lavoro di non dequalificare il
lavoratore con offesa della sua dignità (art. 41 secondo comma cost.), in
quanto, insieme alla lesione del diritto alla salute (art. 32 primo comma
cost.), conseguenza diretta e immediata della dequalificazione (V. Cass. 24
gennaio 1990 n. 411).
Ha, altresì,
ritenuto (Cass. 23 giugno 1992 n. 7663), in tema di infortuni sul lavoro,
sussistente la responsabilità del datore di lavoro per il danno biologico,
inteso come menomazione dell'integrità psico-fisica, subita dal lavoratore e
valutabile monetariamente in modo autonomo rispetto al danno morale e alla vita
di relazione causati dal reato (v.: Cass. 4 ottobre 1994 n. 8054; Cass. 1996 n.
3510 e 7636).
Infine questa Corte con
la sentenza del 14.2.1997 n. 8267, a seguito della quale è stata pronunciata
l'impugnata sentenza di rinvio, ha enunciato il seguente principio di diritto:
"In ottemperanza al precetto costituzionale di cui all'art. 41 secondo
comma cost. il datore di lavoro non può esimersi dall'adottare tutte le misure
necessarie, compreso l'adeguamento dell'organico, volte ad assicurare livelli
compensativi di produttività, senza, tuttavia, compromettere l'integrità
psico-fisica dei lavoratori soggetti al suo potere organizzativo di
dimensionamento delle strutture aziendali. Pertanto l'accettazione da parte del
lavoratore di un lavoro straordinario continuativo, ancorché contenuto nel c.d.
"monte ore contrattuale massimo", o la rinuncia a un periodo feriale
effettivamente rigenerativo dell'impegno lavorativo non possono esimere il
datore di lavoro dall'adottare tutte le misure idonee a tutelare l'integrità
psico-fisica del lavoratore, comprese quelle intese ad evitare eccessività di
impegno da parte di un soggetto che è in condizioni di subordinazione
socio-economica.
L'eventuale concorso di
colpa del lavoratore non ha efficacia esimente per il datore di lavoro che
abbia omesso le misure atte ad impedire l'evento lesivo, restando egli
esonerato da ogni responsabilità soltanto quando il comportamento del
dipendente presenti i caratteri dell'abnormità, dell'inopinabilità e
dell'esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo e alle direttive
ricevute".
Il giudice del merito,
pertanto, sulla base dei suesposti principi, è stato chiamato ad accertare se
fosse o no fondata la richiesta di risarcimento del danno biologico avanzata
dal lavoratore nei confronti del datore di lavoro.
Va, però, precisato che
nella specie si verte in materia di responsabilità contrattuale nascente
dall'inosservanza di un obbligo preesistente del datore di lavoro, previsto
dalla Costituzione come limite al diritto di libertà all'iniziativa privata
nell'esercizio dell'impresa (art. 41 primo e secondo comma cost.).
Tale limite si sostanzia
nell'obbligo di non recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità
umana e, posto in relazione all'art. 32 primo comma cost. e all'art. 2087 c.c.,
nell'obbligo del datore di lavoro, costituzionalmente imposto, di adottare
tutte le misure necessarie a tutelare la integrità fisio-psichica del
lavoratore.
L'inadempimento di tale
obbligo deve essere dimostrato dal lavoratore che chiede il risarcimento del
danno biologico.
Una volta, però,
dimostrata la sussistenza dell'inadempimento, non occorre, a norma dell'art.
1218 c.c., che il lavoratore dimostri, come invece nella responsabilità
aquiliana, anche la sussistenza della colpa del datore di lavoro inadempiente.
Su quest'ultimo infatti,
incombe l'onere di provare che l'evento lesivo dipenda da un fatto a lui non
imputabile e cioè da un fatto che presenti i caratteri dell'abnormità,
dell'inopinabilità e dell'esorbitanza in relazione al procedimento lavorativo e
alle direttive impartite.
Come nella
responsabilità aquiliana anche nell'ipotesi della responsabilità contrattuale
il lavoratore deve dimostrare, la sussistenza del danno alla salute.
Tenendo, tuttavia,
presente che attività lavorative comportanti per il lavoratore meri disagi
fisici o psichici, perché espletate in giorni festivi o oltre il monte-ore
settimanale massimo previsto contrattualmente o per legge, non sono risarcibili
a titolo di danno alla salute o biologico, ma possono essere compensate, caso
mai, con remunerazioni supplementari contrattualmente previste o con somme
risarcitorie equitativamente determinate dal giudice.
È necessario, comunque,
che sussista un nesso eziologico tra l'attività lavorativa prestata dal
lavoratore in condizione di subordinazione socio-economica e il danno alla
salute denunziato e che di tale nesso il lavoratore offra idonea prova,
sottoposta alla insindacabile valutazione del giudice di merito, se sorretta da
congrua motivazione.