BURN-OUT: i rischi del mestiere

a cura di Simona Menna

Chi opera nel campo della cura e dell’assistenza a persone in difficoltà si espone, forse inconsapevolmente, a "rischi professionali" Uno dei rischi più diffuso è quello di cadere vittime di una vera e propria sindrome descritta per la prima volta da una psicologa americana (C. Maslach, 1976) con il termine tecnico di burn-out syndrome (sindrome del bruciato, del fuso) e colpisce quelle particolari figure professionali impegnate sul fronte delle intense relazioni umane (infermieri, insegnanti, operatori sociali, psicologi, etc.). In parole più semplici si tratta di una particolare forma depressiva, di uno stato di esaurimento fisico, emotivo e mentale che si manifesta con un senso di affaticamento, svuotamento e inadeguamento al lavoro.
Questa grave caduta dell’iniziale investimento emotivo al lavoro generalmente si presenta dopo un periodo prolungato di attività e non è mai il risultato di un significativo evento traumatico ma il frutto di una lenta e continua lacerazione dello spirito: tanto più alta è stata la motivazione che ha spinto l’operatore ad intraprendere la strada nel lavoro di cura e assistenza, tanto più alto sarà il rischio di una forte caduta depressiva e il conseguente disinvestimento emotivo nella pratica delle proprie normali attività.
Inizialmente questa particolare forma depressiva è stata affrontata nell’ ambito della psicologia clinica e quindi trattata con rimedi incentrati solo sull’individuo. In epoca più recente si è acquisita la consapevolezza della stretta relazione tra meccanismi di esaurimento e contesto strutturale e organizzativo in cui si inseriscono le così dette "professioni sociali". In sostanza le cause che generano burn-out nel lavoro sociale non sono tanto da ricercare nelle motivazioni dei singoli, quanto piuttosto nelle condizioni lavorative (precarietà e incertezza del lavoro, fatiscenza delle strutture, etc.) e nella "obsolescenza del servizio" (disorganizzazione dei servizi, inadeguatezza e insufficienza organizzativa, etc.).
Altri recenti studi hanno evidenziato che il riconoscimento sociale della professione svolta diminuisce il manifestarsi della sindrome. Ad esempio, secondo uno studio condotto dall’Università di Palermo, gli insegnanti vivono un livello di burn-out inferiore a quello degli infermieri grazie ad un diverso prestigio sociale della loro professione.
Nell’ipotesi di voler affrontare uno studio per approfondire la conoscenza sul livello di born-out nei volontari ci si pone davanti la necessità di affrontare non pochi problemi legati sia alle teorie di riferimento attualmente disponibili, sia alle tecniche di misurazione comunemente utilizatte per lo studio di tale tematica.
Schematicamente gli aspetti che richiedono una attenta valutazione sono:

1- pertinenza con la definizione convenzionale di burn-out;
2- riconoscimento della sindrome;
3- strumenti di misura.

Nel punto 1 rientra il superamento di una serie di difficoltà di natura definitoria e concettuale. Infatti parlare di burn-out nei volontari è -per condizioni proprie del volontariato- diverso dal parlare di bur-out nelle categorie professionali. La differenza più sostanziale è rintracciabile nel tipo di legame/contratto che unisce le due figure (volontaria e professionale) alla struttura di apparteneza. Infatti il volontario -svincolato dalla struttura con ogni sorta di legame contrattuale (e quindi di remunerazione) - fino a che punto rimane vittima del proprio burn-out? Cosa manterrebbe ancora in piedi il legame alla struttura in condizione di evidente depersonalizazzione e demotivazione al lavoro volontario? A sostenere con un certo vigore questi interrogativi è il rapido e continuo turn over che si riscontra all’interno dei gruppi tanto da continuare a porre come centrale nei percorsi formativi il tema delle motivazioni alle attività di volontariato.
Restano ancora aperti altri interrogativi.
La flessibilità (se non a volte la minima) struttura organizzativa dei gruppi di volontariato influisce nella determinazione del burn out tanto quanto incide una pesante struttura, fortemente burocratizzata, come ad esempio una truttura ospedaliera o una struttura scolastica?
La condivisione degli obiettivi tra il volontario e la struttura struttura di appartenenza sono un deterrente all’insorgere della sindrome?
La gratificazione e il riconoscimento sociale che il volontario riceve in cambio delle sue attività volontaristiche sono anchesse un deterrente?

Alla luce di tali interrogativi fino a che punto è lecito parlare di burn-out syndrome nei volontari? Non sarebbe forse opportuno supporre che seppure ci siano degli inizi per certi versi simili o uguali nell’insorgenza di tale sindrome nei volontari e negli operatori professionali questi non abbiano poi percorsi diversi nella manifestazione dei comportamenti manifeti?

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