Qualità del lavoro e soddisfazione
dei lavoratori nei servizi sociali:
Un'analisi comparata tra modelli di gestione

sintesi a cura di Renato Frisanco

E' possibile richiedere la relazione integrale di Carlo Borzaga a studi.ricerca@fivol.it

Motivazione della ricerca

L’interesse degli economisti, e in particolare degli studiosi del mercato del lavoro, per il settore dei servizi sociali è, da qualche tempo, in crescita. Le ragioni di questo nuovo atteggiamento sono molteplici.
Fino agli anni ’80 l’intero settore era considerato, a seconda dei modelli di welfare adottati, o parte integrante delle politiche pubbliche, oppure di prevalente competenza delle famiglie. E quindi di scarso interesse sia dal punto di vista economico che occupazionale. Negli ultimi due decenni, tuttavia, l’assetto del settore si è modificato: le politiche di contenimento della spesa pubblica e di privatizzazione hanno ridotto il numero, o almeno i tassi di crescita, dei dipendenti pubblici impegnati nell’erogazione di servizi sociali e hanno invece dato impulso allo sviluppo di iniziative private, in parte finanziate da denaro pubblico, e all’incremento della relativa occupazione. Questo processo si è tradotto prevalentemente nell’aumento di forme organizzative, generalmente nonprofit, che combinano in vario modo risorse (pubbliche, da donazioni, da attività commerciali) e fattori produttivi (lavoratori remunerati e volontari). In altri termini, i processi di riforma e di privatizzazione hanno determinato una moltiplicazione delle forme di produzione di servizi sociali e di interesse collettivo e, con esse, delle relazioni tra lavoratori e imprese.
Più di recente, ad accrescere l’interesse per il settore dei servizi sociali ha contribuito la presa d’atto delle sue potenzialità occupazionali. Le trasformazioni demografiche e sociali hanno infatti ridimensionato l’offerta di questi servizi da parte delle famiglie e ne hanno accresciuto la domanda potenziale. Alcuni confronti internazionali sembrano suggerire che ulteriori ed incisivi interventi di liberalizzazione e di privatizzazione dei servizi in genere e, in particolare, dei servizi sociali potrebbero contribuire alla piena liberazione delle loro potenzialità occupazionali.
Su questa tesi, tuttavia, non vi è accordo tra gli studiosi anche in mancanza di ricerche empiriche sulle condizioni di lavoro e sul livello di soddisfazione degli occupati nelle organizzazioni, vecchie e nuove, che operano nel settore.
Per far avanzare il dibattito sulla riforma del welfare, sulle potenzialità occupazionali del settore dei servizi sociali e sul ruolo da assegnare alle organizzazioni nonprofit è necessario conoscere meglio le caratteristiche, la situazione e il grado di soddisfazione dei lavoratori in esso occupati. A tal fine è stata realizzata la ricerca di cui si riportano di seguito alcuni dei risultati principali.

Alcuni risultati della ricerca

La ricerca permette di trarre alcune conclusioni su almeno quattro aspetti: 1) le caratteristiche del lavoro nei servizi sociali; 2) la qualità del lavoro nelle diverse tipologie organizzative; 3) l’importanza delle forme organizzative nel valorizzare le motivazioni che inducono a lavorare nel sociale; 4) le strategie di gestione delle risorse umane.
Dalla ricerca emerge innanzitutto un settore dei servizi sociali articolato e complessivamente dinamico, attento all’evoluzione e alla soddisfazione della domanda e alla qualità dei servizi erogati (Tavv. 1-2). A rendere il settore dinamico contribuiscono soprattutto le forme organizzative più nuove: le nonprofit laiche, in particolare le cooperative sociali, e le for-profit.
La decisione di lavorare nel settore dei servizi sociali dipende soprattutto da quelle intrinseche; in particolare: l’interesse per il settore e per il lavoro e la coerenza con la formazione; tra le motivazioni estrinseche, prevale la necessità di conciliare il lavoro con altri impegni familiari o personali. I lavoratori più interessati a lavorare nei servizi sociali sono quelli delle cooperative sociali e del nonprofit laico.
Gran parte dei lavoratori, tuttavia, ha liberamente scelto sia il settore che l’organizzazione; nella maggioranza dei casi essi sono soddisfatti dell’esperienza e intendono prolungarla, almeno per qualche anno. In un buon numero di casi, la fedeltà al settore e all’organizzazione è tale da aver giustificato il rifiuto di alternative migliorative. Tutte queste evidenze dimostrano che il settore è, dal punto di vista occupazionale, tutt’altro che marginale. Lo conferma anche il fatto che i flussi di lavoratori tra organizzazioni e tra queste e il mercato esterno sono tutt’altro che unidirezionali, smentendo la convinzione che l’impiego pubblico costituisca la condizione preferita da tutti i lavoratori. Essi evidenziano, semmai, che le organizzazioni private nonprofit più dinamiche favoriscono il passaggio volontario da altri settori, offrendo ai lavoratori interessati la possibilità di coniugare meglio il lavoro con i propri ideali o con le necessità familiari e personali. Non a caso i lavoratori delle organizzazioni nonprofit risultano complessivamente più soddisfatti per la gradevolezza del lavoro, per le prospettive di carriera e per le relazioni con colleghi e superiori.
Le differenze principali tra tipologie organizzative riguardano soprattutto il livello e la struttura delle retribuzioni: da una parte vi sono i lavoratori degli enti pubblici, con retribuzioni mediamente più elevate, strutture retributive più gerarchizzate, ma che tengono poco in conto l’anzianità di servizio, e forme di accesso di tipo burocratico; dall’altra vi sono i lavoratori delle organizzazioni private, con retribuzioni spesso, ma non sempre, inferiori, forme di accesso più informali e strutture retributive diverse a seconda della natura delle tipologie organizzative. Dalla ricerca non emerge alcuna evidenza empirica a sostegno del miglior funzionamento del primo modo di organizzare e remunerare il lavoro; anzi, se si prendono a riferimento la soddisfazione dei lavoratori e la loro fedeltà all’organizzazione, si può affermare che funzionano meglio le diverse forme di organizzazione privata del lavoro.
I livelli retributivi e gli avanzamenti di carriera passati e attesi (ovvero i vantaggi economici) non sembrano essere le variabili che maggiormente influenzano la soddisfazione dei lavoratori. Nonostante piccole differenze tra tipologie organizzative, i livelli di soddisfazione per questi aspetti risultano contenuti. Inoltre, non sembra esistere una relazione diretta tra livelli retributivi e soddisfazione. Quest’ultima sembra piuttosto dipendere dall’equità procedurale e distributiva percepite.
Particolarmente preoccupante appare la situazione dei dipendenti pubblici: essi risultano meno motivati, guadagnano generalmente di più di chi lavora in altre organizzazioni, ma sono più scontenti anche degli aspetti materiali del lavoro, si assentano più frequentemente e, pur non correndo rischi di disoccupazione, apprezzano in misura minore la comodità e la sicurezza del posto di lavoro. Sono inoltre meno soddisfatti del rapporto con la propria organizzazione, più inclini a vedere negli utenti un pretesto per intaccare i diritti dei lavoratori, più propensi a cambiare lavoro. Questi atteggiamenti sono tra loro correlati e sembrano influenzare le aspettative di ricompense monetarie, al punto da far ritenere insoddisfacente anche un trattamento più favorevole di quello degli altri lavoratori. Questi risultati indeboliscono quindi, almeno per l’Italia, uno dei più importanti elementi riportati in letteratura a sostegno della tesi che il settore pubblico è in grado di garantire una maggior qualità dei servizi proprio a seguito della capacità di motivare i lavoratori, di attrarre lavoratori con elevato capitale umano, pagandoli in alcuni casi meno delle organizzazioni private. Queste sembrano piuttosto prerogative del settore nonprofit.
Le differenze nei livelli di soddisfazione sembrano particolarmente influenzate dalla natura delle organizzazioni e da come esse sono strutturate. Infatti, mentre gli atteggiamenti generali verso il lavoro non risultano significativamente diversi, le motivazioni della scelta di una specifica organizzazione risultano più strettamente connesse alle caratteristiche della stessa. I lavoratori del nonprofit, in particolare, paiono valorizzare più degli altri gli aspetti di natura non strumentale (il coinvolgimento nelle decisioni, la più ampia autonomia e la maggior flessibilità, oltre al generale interesse per il settore) e, di conseguenza, la preferenza per tali forme organizzative è spiegata dalle diverse priorità assegnate alle loro caratteristiche, più che da una diversa visione del lavoro. I lavoratori non sembrano, quindi, scegliere in modo casuale le organizzazioni in cui lavorare: essi si orientano prevalentemente verso quelle che valorizzano alcune peculiarità del lavoro piuttosto che altre. Sembra quindi che le diverse tipologie organizzative agiscano effettivamente come "strutture di incentivi" in grado di orientare le scelte dei lavoratori facendo loro valutare positivamente (o negativamente) determinati aspetti del lavoro. Si conferma così che nel settore dei servizi sociali la presenza di una pluralità di forme organizzative contribuisce a migliorare l’incontro tra domanda e offerta di lavoro e quindi l’equilibrio su questo particolare mercato.
Un’influenza particolare sulla soddisfazione dei lavoratori sembra avere la presenza di volontari nell’organizzazione: essa si associa in generale ad un valore medio della soddisfazione più elevato. Questa relazione si presta ad una duplice lettura: da un lato, i lavoratori possono beneficiare della presenza in organico di personale non remunerato e spinto da motivazioni ideali molto forti; dall’altra la soddisfazione dei lavoratori può costituire un richiamo per i volontari.
I dati confermano inoltre che il grado di attaccamento varia in base alla tipologia organizzativa ed è elevato soprattutto nelle nonprofit, nonostante le retribuzioni siano inferiori a quelle del settore pubblico. Questi dati sono in pieno contrasto con la tesi di chi vede il lavoro nelle nonprofit non come una scelta (anche di lungo periodo) dettata da precise motivazioni, ma come una necessità, dovuta al rallentamento della domanda di lavoro nei servizi pubblici.
Dall’analisi è possibile, infine, trarre alcune riflessioni sulle strategie di gestione delle risorse umane finalizzate a conciliare i vari aspetti della soddisfazione dei lavoratori, in modo da svilupparne le motivazioni iniziali e sostenerne la soddisfazione e la fedeltà nel tempo. Le organizzazioni private, e in particolare le nonprofit, dovrebbero porre particolare attenzione ai livelli retributivi e alla sicurezza del lavoro. Anche se la retribuzione non appare un elemento fondamentale della soddisfazione, vi è comunque la possibilità che il livello di insoddisfazione per la retribuzione possa varcare i limiti oltre i quali si innescano effetti di "trascinamento". Il problema dell’insicurezza del lavoro non è sempre immediatamente risolvibile; proprio per questo motivo, è necessario che le organizzazioni nonprofit instaurino e mantengano con i propri lavoratori un rapporto partecipativo e fiduciario, che li rassicuri su come l'organizzazione intende tutelare i lavoratori in caso venga a mancare una parte della domanda.
Le organizzazioni pubbliche, e con esse le organizzazioni sindacali, dovrebbero invece prendere atto che il semplice aumento delle retribuzioni, qualora gli altri problemi permanessero irrisolti, difficilmente sarà in grado di accrescere la soddisfazione complessiva per il lavoro. Molto più efficace sarebbe invece un intervento complessivo sull’organizzazione del lavoro, volto a modificare, in primo luogo, gli aspetti - relazionali e motivazionali – che sembrano essere la vera causa del basso livello di soddisfazione complessiva.
Più in generale, tutte le tipologie organizzative hanno bisogno di considerare con maggior attenzione le interdipendenze tra aspetti economici e non economici che compongono la remunerazione dell’impegno dei lavoratori. Qualsiasi strategia organizzativa che non tenga conto della complessità e dell'interdipendenza tra i diversi fattori di soddisfazione rischia di aumentare i costi senza che cambino in modo significativo il coinvolgimento e l’impegno degli operatori. Ed è proprio in questo che oggi sembra consistere il vantaggio delle organizzazioni nonprofit, o almeno di una parte di esse: nell'avere costruito un insieme bilanciato di ricompense monetarie e non monetarie, in grado di compensare una retribuzione inferiore (con conseguente maggior competitività in un ambito in cui il personale costituisce la parte preponderante dei costi), con gratificazioni extra-economiche consistenti nella partecipazione alla gestione, nella trasparenza e nell’evidenza del beneficio sociale prodotto.
L’analisi dell’equità percepita dimostra, a parziale sostegno delle affermazioni precedenti, come è proprio il modo con il quale è progettata la struttura gestionale ed organizzativa che contribuisce a determinare la soddisfazione dei lavoratori e quindi, indirettamente, la performance dell’organizzazione. La convinzione che la soddisfazione dipenda dalla sola equità distributiva, per di più limitata agli incentivi di natura economica, risulta riduttiva. Ne consegue che una strategia che si proponga solamente di ridurre il gap di natura retributiva tra le organizzazioni nonprofit e le altre forme, in particolare pubbliche, è perdente e non conforme alle preferenze stesse di gran parte dei lavoratori. Questo risultato segnala alle organizzazioni che operano nel settore dei servizi sociali, la necessità di investire sul sistema complessivo di gestione delle risorse umane e sulla trasparenza delle regole che lo caratterizzano, piuttosto che sulle ragioni immediate dello scambio tra contributi ed incentivi.
Infine circa i rapporti tra lavoro remunerato e volontari, i dati esaminati mostrano in modo inequivocabile che le componenti retribuite (dirigenti e lavoratori) hanno un’elevata considerazione del volontariato in generale e del volontariato realizzato nelle specifiche organizzazioni. Essi accettano, rispettano e valorizzano tale risorsa. E non è un caso che proprio nelle organizzazione in cui si concentra maggiormente questa risorsa vi sia una rappresentazione della stessa più positiva.
Così come nelle nonprofit, soprattutto di emanazione religiosa, che paiono quelle maggiormente animate da una tensione solidaristica dello stesso personale remunerato.
In generale, dalla ricerca emerge una concezione del volontariato come fatto positivo, utile per le organizzazioni soprattutto in termini di sostegno all’innovazione e come fattore motivante per i lavoratori remunerati, oltre che per garantire il collegamento con gli utenti e la comunità locale. Il fenomeno non è ritenuto invece avere una specifica rilevanza sul piano economico sia nel senso di contribuire alla creazione di nuovi posti di lavoro sia in quello di sottrarre posti di lavoro remunerati. E’ piuttosto generalizzato il consenso sul fatto che il volontario produce un contributo di valore aggiunto e non sostitutivo di altri profili professionali.
Infine, la ricerca mette bene in luce che i dirigenti e i lavoratori remunerati che hanno fatto del volontariato o lo stanno facendo manifestano atteggiamenti, motivazioni e impegno più positivi. Essi sono, in generale, più motivati al lavoro e più identificati con le organizzazioni di appartenenza. Sono altresì i più attenti alla soddisfazione dei bisogni degli utenti e i più impegnati nelle relazioni con l’ambiente in cui l’organizzazione opera. Tutto ciò sta ad indicare che l’esperienza di volontariato non tende ad esaurirsi in se stessa, ma influenza profondamente anche l’impegno professionale lungo tutto l’arco della vita professionale.

freccia torna indietro