Prima Conferenza Nazionale per la Salute Mentale
Roma 10/12 gennaio 2001 – Università La Sapienza

SE SI PUÒ SI DEVE

Indagine sulle Organizzazioni di Volontariato che operano nel campo della salute mentale

a cura di Renato Frisanco

1. Presentazione delle organizzazioni: diffusione e crescita

Una rilevazione nazionale promossa e realizzata della Fondazione Italiana per il Volontariato nel 1999 sulle organizzazioni solidaristiche operanti nel settore della salute mentale - comprensive del volontariato esclusivamente impegnato a favore di terzi, delle associazioni dei familiari dei malati di mente e delle associazioni di promozione sociale - ha permesso di censirne circa 350. Per un campione rappresentativo a livello nazionale di 180 organizzazioni è stato altresì possibile raccogliere, con un apposito questionario, una serie di informazioni su strutturazione, risorse, attività e rapporti con i servizi di salute mentale.
Si tratta di un fenomeno ancora in crescita come attesta il fatto che un terzo di esse sono sorte dopo il 1994, mentre sono diffuse soprattutto al Nord (60,6%).
Questo primo dato sulla crescita e diffusione del fenomeno permette di fare due considerazioni: anzitutto che la loro crescente influenza segnala che i servizi pubblici di salute mentale non sono in grado da soli di garantire tutti i diritti di tutti gli utenti né tutte le risposte ai loro bisogni, soprattutto a quelli sociali correlati alla malattia.
Esiste poi in generale una precisa correlazione positiva tra la diffusione del volontariato e gli indicatori territoriali che segnalano una maggiore presenza ed efficienza dei servizi pubblici, più attrattivi nei confronti del volontariato, oltre ad esservi un tessuto civile e condizioni di benessere economico più favorevoli al suo sviluppo.
In 6 casi su 10 sono Associazioni miste, composte sia da familiari di malati di mente che da cittadini volontari; tre unità su 10 sono invece costituite da persone che operano esclusivamente a favore di terzi.
Esse sono attive mediamente da 10 anni e aggregano 50 iscritti e 16 militanti. Complessivamente (considerando le 350 unità) mobilitano oltre 27 mila cittadini tra volontari, soci, iscritti, obiettori e personale remunerato. Quest’ultimo è presente nel 27 per cento dei casi. La risorsa maggiormente importante è quella dei volontari attivi che garantiscono mediamente 77 ore di lavoro settimanale per organizzazione pari a poco meno di 7 ore pro-capite (5 è il numero medio di ore settimanali di 1 volontario secondo l’ultima rilevazione FIVOL 1997)

La propensione al coordinamento non è ancora elevata: una organizzazione su due risulta appartenente ad organismi di coordinamento o a consulte presenti od operanti nella stessa regione, capaci di raccordare esigenze e di fare proposte unitarie, mentre continuano a sussistere in questo movimento solidaristico disomogenee visioni teorico-operative e ideologico-politiche.

Si tratta poi di organizzazioni che presentano un livello di formalizzazione elevato (pressoché tutte sono dotate di uno statuto), ma con una struttura sufficientemente leggera: hanno per lo più un unico organo dirigente e un basso grado di regolamentazione interna (riguarda meno del 30% delle unità esaminate). Vi è la tendenza ad adeguare la struttura formale a quella reale e ad evitare forme di burocratizzazione che non nascano da esigenze emerse nell’operatività quotidiana dell’organizzazione.
Sono state quasi sempre generate dall’iniziativa di cittadini, risultano quindi largamente aconfessionali (82,8%) e ben radicate nel contesto locale (a livello di Comune, Distretto o tuttalpiù l’ASL, quasi 9 su 10).
Le organizzazioni esaminate appaiono in una fase accrescitiva anzitutto per le risorse umane che riescono a reclutare: negli ultimi due anni 6 unità su 10 hanno incrementato uno o più tipi di figure, soprattutto quelle dei volontari attivi e dei soci, segno di una loro crescente visibilità e capacità operativa. E tale crescita è commisurata a quella delle richieste che provengono da cittadini bisognosi di orientamento e di prestazioni: solo 2 su 10 dichiarano di essere in grado di rispondere alla totalità delle richieste.
Nell’82% dei casi svolgono interventi strutturati o programmati per l’utenza, che è in aumento per una cospicua maggioranza di queste (65,5%). Non solo, ma negli ultimi 2 anni i destinatari dei loro interventi manifestano nuove richieste di aiuto o intervento all’associazione (nell’86% dei casi), di cui quella numericamente più importante è "l’apertura di specifici servizi o interventi non realizzati dai servizi pubblici". Il pericolo è al riguardo che si chieda alle associazioni non tanto di anticipare degli interventi ma di avere una funzione sostitutiva del pubblico laddove si pensi che spetti alle associazioni garantire i diritti dei malati. Ma spiccano anche altre richieste che segnalano una domanda via via più esigente e difficile da gestire per i servizi elevando la funzione di mediazione di queste organizzazioni, sia per gli utenti che per i servizi, a patto che questi le abilitino a partecipare ai momenti della programmazione e valutazione del loro operato.
Si nota pertanto una palese tendenza alla crescita della capacità operativa delle associazioni il 66,1% delle quali ha già discusso di progetti di ampliamento e di sviluppo delle attività, pur trovando qualche ostacolo per le difficoltà che incontrano nel disporre di adeguate risorse umane e materiali. Per dare un’idea dell’esiguità di queste ultime quasi 6 organizzazioni su 10 non hanno superato i 10 milioni di spesa nell’ultimo anno a fronte del 23% che ha utilizzato più di 30 milioni.

2. L’operatività delle associazioni: differenziazione delle attività e integrazione con i servizi pubblici

Esse svolgono diverse attività e funzioni, per lo più con una programmazione annuale documentata (63,3%). Suddividendo in 5 aree i 23 tipi di attività che ipoteticamente costituiscono il campo di azione di queste organizzazione, si evince che nei tre quarti dei casi operano in quattro o cinque aree, a segnalare la loro capacità di realizzare una differenziata gamma di interventi e di iniziative. Operano pertanto a tutto campo per filosofia di azione e per necessità di risposta a bisogni crescenti.
Pressoché 9 organizzazioni su 10 realizzano almeno un’azione di partecipazione nel settore della salute mentale - in primis, di stimolo e pressione nei confronti di ASL ed enti locali (7 su 10) - e almeno un’azione di promozione della salute mentale - soprattutto di sensibilizzazione della popolazione sui temi della salute mentale (66 su 100).
Esse svolgono poi almeno un intervento sul disagio attraverso la gestione di servizi prevalentemente "leggeri" (nel 66% dei casi, ascolto e consulenza soprattutto); 18 unità su 100 gestiscono invece strutture residenziali o diurne. Oltre la metà di esse svolge un’importante azione di sostegno alle famiglie (52,2%), prestazione che sappiamo difficilmente coperta dai servizi pubblici.
Nel complesso 1 organizzazione su 2 o gestisce direttamente una struttura diurna o residenziale oppure realizza, in collaborazione, delle prestazioni all’interno di un servizio pubblico. E quindi operano nel sistema territoriale dei servizi per la salute mentale, in un presidio per lo più diverso da quello della propria sede (66%).
Ma sono altresì importanti, oltreché specifiche di un contributo essenziale e integrativo a quello pubblico, anche le azioni per il reinserimento sociale finalizzate soprattutto a farsi carico delle attività del tempo libero (42 unità su 100), a promuovere progetti di sviluppo di competenze nel percorso di riabilitazione dei malati (un terzo) e ad accompagnarne l’inserimento lavorativo in sinergia con cooperative sociali (23,3%).
Vi sono poi alcuni indicatori che denotano l’esigenza delle organizzazioni di attrezzarsi culturalmente, di essere presenti nel dibattito sui temi specifici, di inviare messaggi e di rinforzare la competenza dei propri attivisti. E quindi indicativi della vitalità di una parte significativa del campione di queste organizzazioni.
Vi è così un segmento di organizzazioni (un terzo) che riflette su ciò che fa mettendo in atto strumenti non occasionali di ricerca, studio e documentazione, una quota discretamente cospicua di realtà (4 su 10) che dimostra di saper comunicare tramite l’accesso a più mass media, mentre 7 unità su 10 pubblicano materiali o producono documenti, audiovisivi, testi e pagine Web (il 28% ha una propria rivista o bollettino). Si presenta altresì discreta, anche se non generalizzata, la valorizzazione della propria risorsa umana attraverso attività formative promosse o realizzate dai due terzi delle unità esaminate.
Infine un dato sull’autocoscienza del proprio ruolo: anzitutto queste organizzazioni ritengono di essere una risorsa per la loro funzione di orientamento dei cittadini che hanno bisogno di informazione, mediazione e tutela per la sofferenza psichica (punto di riferimento e guida per i cittadini). Secondariamente, sottolineano il fatto di essere interlocutori operativi e collaboratori integrativi dei servizi di salute mentale e quindi un punto nodale della rete degli interventi, e infine, di essere in grado di sperimentare nuove prestazioni e servizi.
Vi è anche un terzo di casi che dichiara che nel rapporto con i servizi ha finora ottenuto come risultato principale la partecipazione alla definizione degli obiettivi e alla programmazione degli interventi del DSM o alla verifica della qualità degli interventi e della soddisfazione percepita dagli utenti.
I responsabili della salute mentale pubblica, intervistati in rappresentanza di 121 DSM, ribadiscono l’importanza delle associazioni per il lavoro di mediazione tra i servizi pubblici e i cittadini, per lo stimolo allo sviluppo delle risorse dipartimentali, spesso aggiungendone altre, per l’ampliamento della rete delle risorse sul territorio, per la capacità di far emergere una nuova domanda in aderenza ai bisogni dell’utenza. Solo il 20% dei responsabili dei DSM rivela che non esiste alcun rapporto o che tale rapporto non ha prodotto alcun risultato positivo.

3. Rapporto con gli enti pubblici e i servizi di salute mentale: più collaborazione che partecipazione

Le organizzazioni esaminate, e in particolare quelle dei familiari dei malati di mente, hanno conosciuto fin qui tre fasi evolutive:
a) una prima fase (inizio anni ‘80) fortemente rivendicativa e conflittuale con le istituzioni, talvolta anche in funzione antiriformista con richieste esplicite di maggior contenimento e cura dei malati in ospedali psichiatrici, sia pure da umanizzare;
b) una seconda fase (seconda metà degli anni ‘80) maggiormente caratterizzata da collaborazione con le istituzioni sanitarie e i servizi psichiatrici e da una richiesta di "presa in carico" sul territorio della patologia psichiatrica, soprattutto nei confronti della nuova utenza dei servizi;
c) una terza fase (anni ‘90) caratterizzata dalla capacità di proposta se non anche di servizio da parte delle organizzazioni espresse dai familiari, chiamate a integrare il servizio pubblico con specifici interventi di riabilitazione e reinserimento sociale e a partecipare a tavoli consultivi negli organismi istituzionali o dipartimentali.
Quest’ultima fase coincide con una cospicua propensione ad iscriversi ai registri regionali del volontariato previsti dalla L. 266/91: 6 unità su 10 sono già state registrate e un altro 12 per cento al momento della rilevazione si è candidato ad accedere alle convenzioni e agli eventuali incentivi e sostegni degli enti pubblici.
Attualmente 7 unità su 10 iscritte ai registri regionali operano in regime di convenzione con enti pubblici (in totale, 42 su 100) e in una quota identica hanno regolamentato con l’ASL un rapporto di collaborazione.
Nel complesso mantengono tuttavia una prevalente autonomia economica rispetto ai finanziamenti pubblici (solo 9 unità su 100 ne sono dipendenti) avvalendosi di un mix di risorse, quando non proprio dei proventi di attività di autofinanziamento e di quote associative che incamerano quasi 8 unità su 10.
Il clima attuale di generale collaborazione con i servizi pubblici è confermato dal fatto che il 76% delle OdV esaminate è attualmente collegato operativamente per iniziative o progetti comuni, collaborazioni o intese con il DSM o con singoli servizi di salute mentale. Tale strategia delle connessioni permette loro altresì di interagire operativamente con altri servizi socio-sanitari della ASL e di Enti Locali (56,4%).
Notevoli sono anche scambi e collaborazioni con altre OdV (6 su 10) e specifiche realtà di terzo settore: con cooperative sociali e con l’associazionismo di promozione sociale - 4 su 10 - con gruppi di auto-aiuto e con istituzioni ecclesiali - 3 su 10.
Ciò che determina il rapporto con i servizi di salute mentale è in particolare "la volontà e la motivazione dei soggetti impegnati" e meno "la capacità di collaborazione operativa e di coordinamento in rete", così come "la condivisione del progetto di intervento nelle sue fasi di definizione". Vi è ancora quindi molto da lavorare per passare dalla reciproca fiducia, che sembra oggi conseguita, alla reale capacità di concertare obiettivi e realizzare insieme degli interventi, sia per le carenze delle associazioni che per le sussistenti difficoltà di rapporto con le istituzioni e i servizi pubblici da cui non ricevono ancora un riconoscimento pieno del loro ruolo e funzione.
Infatti, se il livello di collaborazione con i servizi pubblici della salute mentale è oggi elevato anche rispetto al passato, non si può dire che esse siano chiamate a partecipare in generale e con assiduità ai momenti di consultazione, programmazione di attività e verifica delle stesse: ciò riguarda una significativa minoranza di casi. La punta più elevata di partecipazione è a momenti di consultazione a cui è regolarmente inviato il 18% delle OdV.
Sui versante dei DSM si è appreso che nei due terzi esatti dei casi non è prevista la presenza di associazioni di volontariato e dei familiari all’interno degli organi partecipativi e che solo il 25% dei DSM ha definito con un regolamento modalità di collaborazione con le OdV.

4. La valutazione dell’offerta dei servizi di salute mentale: non ancora soddisfacente

Un apposito indice di valutazione rispetto a cinque indicatori di capacità di offerta dei servizi pubblici rivela che non più del 24% dei responsabili di queste unità fornisce un punteggio complessivo di soddisfazione.
Nel valutare la capacità dei servizi di salute mentale di soddisfare i bisogni dell'utenza segnalano la più spiccata propensione a fornire risposte relative alla cura della malattia - ma non sempre nei confronti dei casi più gravi o problematici e come risposta ai momenti di crisi, anche domiciliare - a fronte di una più difficile risposta in termini di riabilitazione psico-sociale e alla sostanziale inapplicazione della funzione di prevenzione.
Vi è al riguardo un ritardo da parte del sistema dei servizi di salute mentale che è culturale, oltre che organizzativo e operativo, ad impostare un’azione che si faccia carico della comunità territoriale in cui opera, sia con adeguati interventi informativi e preventivi sulla salute mentale, sia in funzione di una mobilitazione delle risorse della cittadinanza attiva nei progetti riabilitativi finalizzati al recupero della vita sociale, relazionale, lavorativa delle persone in carico in una visione olistica dei bisogni e soluzioni dei singoli casi. E le organizzazioni di volontariato possono proprio costituire un soggetto facilitatore rispetto alla doppia missione dei servizi, quella di farsi carico dei percorsi individualizzati dei loro utenti e di lavorare sui fattori di rischio della salute mentale della comunità.
Tra le caratteristiche che le associazioni interpellate ritengono necessarie per lo sviluppo dei servizi di salute mentale due vengono sottolineate in modo prioritario: la professionalità degli operatori (50,8%) - che andrebbe sicuramente svecchiata a cominciare dai corsi universitari - e la capacità di "presa in carico globale dell’utenza". Quest’ultima è stata particolarmente enfatizzata come aspettativa fondamentale dalle associazioni delle famiglie negli anni ’80 e ’90 quando reclamavano strutture diurne e residenziali socio-riabilitative, fornendo per altro una forte spinta a incrementarle, come di fatto è avvenuto di recente, per quanto ancora insufficienti per quantità e qualità in varie parti del paese. Inoltre le organizzazioni esaminate ritengono che la relazione tra operatori-utenti e operatori-famiglie costituisca un aspetto ancora debole dell'operatività dei servizi in generale, mentre sappiamo che sono proprio gli aspetti di qualità del rapporto e della comunicazione sulla scena dei servizi (l'essere rispettati, accolti, ascoltati, informati, sostenuti) all'apice delle aspettative dei familiari.
Un contributo utile soprattutto a migliorare l'approccio relazionale nei servizi è la "Carta dei diritti degli utenti dei servizi" – nel 1999 risultava realizzata solo nel 10% dei DSM - che dovrebbe affermare esplicitamente quella "cultura della persona-utente" tanto auspicata dalle Associazioni e che può diventare l'innovazione più importante dei servizi nella misura in cui è in grado di affermare: la centralità del bisogno dell'utenza e la personalizzazione delle prestazioni, l'investimento sugli stessi soggetti più gravi e difficili, la maggiore interazione e informazione sui progetti terapeutico-riabilitativi con utenti e familiari, la presa in carico globale che significa occuparsi anche della prognosi sociale dei pazienti.
Se si può, si deve!

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