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[Ricchezza e povertà] [Il reddito pro-capite] [Denutrizione] [Lavoro minorile] [Colonialismo]

[Neo-colonialismo] [Profonde disuguaglianze economiche] [Precarie condizioni naturali]

[L'impresa multinazionale] [Ragioni di successo] [Vantaggi e svantaggi]

 

 

 

Ricchezza e povertà

 

Gli squilibri Nord/Sud consistono innanzitutto nelle enormi differenze nella produzione di ricchezza tra i due mondi. Queste differenze sono evidentissime nella metacarta riportata qui sotto, dove la superficie di ogni paese è proporzionale alla ricchezza prodotta in un anno nello stato, cioè al Prodotto Interno Lordo (PIL). In questo planisfero l’immagine tradizionale del mondo è completamente sconvolta. Paesi immensi e popolarissimi come l’India risultano molto più piccoli dell’Italia, di gran lunga meno estesa e meno popolata. Stati Uniti, Europa e Giappone giganteggiano, mentre molti PVS, soprattutto africani, scompaiono dalla carta, perché sono troppo poveri per essere rappresentati. Nel suo insieme l’ Africa produce una ricchezza nettamente inferiore a quella della Germania.

 

 

 

 

Il reddito pro-capite

 

Dividendo il PIL per il numero degli abitanti si ottiene il valore del reddito per abitante, detto anche reddito pro-capite. Questo dato è importante, perché consente confronti diretti tra stato e stato, indipendentemente dal numero di abitanti e permette alla Banca Mondiale di classificare le nazioni del mondo, stabilendo così 4 fasce di reddito:

-        Reddito pro-capite alto: da 7.620 $ in avanti

-        Reddito pro-capite medio alto: da 2.446 $ a 7.619 $

-        Reddito pro-capite medio basso: da 611 $ a 2.465 $

-        Reddito pro-capite basso: da 0 $ a 610 $

 

Il paese con il reddito pro-capite più basso è il Mozambico con 80 dollari. Quello con il reddito pro-capite più alto è la Svizzera con 32.680 dollari.   Tale misura, tuttavia, applicata ai paesi ad economia arretrata risulta criticabile. Essa si basa su dati rilevati direttamente dai paesi arretrati, che spesso sono male organizzati e non in grado di garantire la loro attendibilità. Inoltre il PIL non è che una media e come tutte le medie non descrive la realtà. Ma non è neanche un dato statisticamente attendibile, perché il calcolo della ricchezza nazionale si basa solo sulle informazioni fornite dalle aziende registrate e dalla pubblica amministrazione.    Quindi ignora due realtà molto diffuse nel Sud del mondo che sono l’economia non monetaria e l’economia sommersa.   La prima si riferisce al valore dei beni e dei servizi scambiati al di fuori del mercato monetario, la seconda invece alle piccole attività artigianali e commerciali che la gente improvvisa per sopravvivere. Per questi motivi la maggior parte degli studiosi usa integrare il PIL pro-capite con altri indicatori del sottosviluppo. Ne riportiamo alcuni a titolo esemplificativo.

 

Questo nuovo metodo di valutazione tenta di esprimere con un solo numero  la realtà esistente in ciascun paese rispetto alla durata media della vita, al livello medio di istruzione, al reddito medio famigliare.   Ecco come si presentano le nazioni secondo lo sviluppo umano.

 

 

 

Denutrizione

 

Le conseguenze negative di una condizione di arretratezza economica sono purtroppo molteplici. Una tra le più rilevanti è sicuramente la denutrizione.   Non è un mistero che i paesi ad economia arretrata siano in condizioni di denutrizione. Ciò non significa necessariamente che muoiano di fame.

Anche sul termine “fame” ci sono molte idee confuse.   La televisione ce ne parla solo quando assume dimensioni spettacolari e noi siamo abituati a vederla collegata solo alle carestie provocate da guerre, siccità e pestilenze.  E’ chiaro che esistono le carestie e che le carestie portano fame. Ma, premesso che non la portano a tutti, va aggiunto che questi sono eventi eccezionali che non spiegano la fame cronica della maggior parte del mondo. Ogni anno, nel più assoluto silenzio stampa, nel Sud del mondo muoiono di fame da 13 a 18 milioni di persone e tutti i giorni quasi un miliardo di persone va a letto senza aver mangiato a sufficienza. Ma in molti casi la loro fame non dipende da scarsa produzione alimentare.

Prendiamo come esempi l’Asia e l’America Latina. Negli ultimi anni la produzione agricola è aumentata più di quanto non sia aumentata la loro popolazione. Ma secondo i dati Ufficiali l’Asia conta mezzo miliardo di denutriti e l’America Latina 59 milioni.  Essi non sono denutriti per mancanza di cibo, ma perché non possono procurarselo. In città gli affamati sono i disoccupati e quanti altri non hanno denaro.   In campagna sono i contadini che non hanno un pezzo di terra da coltivare.

La denutrizione comporta, quindi, la carenza soprattutto di vitamine e proteine con il risultato che i bambini sono più esposti alle malattie infettive parassitarie, anche perché la denutrizione è quasi sempre associata all’esistenza di condizioni igieniche sanitarie assolutamente precarie.

 

 

 

Il lavoro minorile

 

Il nostro consumo è legato direttamente al lavoro di chi produce i beni che acquistiamo, ed è quindi uno strumento efficace per influire sulle condizioni di lavoro in tutto il mondo. La globalizzazione del mercato ha portato a una corsa verso il fondo nelle condizioni di lavoro; la produzione viene via via spostata dove i salari sono più bassi e i diritti dei lavoratori meno rispettati. In Indonesia il salario minimo (2,1 dollari al giorno) non basta neanche a soddisfare i bisogni vitali. In Cina 10 milioni di detenuti lavorano nei campi di prigionia senza alcun diritto; sempre in Cina, nel 1993 ci sono stati 20.000 morti in incidenti sul lavoro per l’assenza di misure di sicurezza. In Bangladesh le operaie lavorano dalle 8 del mattino alle 11 di sera, 7 giorni alla settimana, 30 giorni al mese, guadagnando dai 7 ai 10 dollari al mese. In Costa Rica 15.000 lavoratori agricoli sono diventati sterili per l’irrorazione di pesticidi.

 

Un altro guasto della liberalizzazione del mercato del lavoro è l’impiego di manodopera minorile. I bambini vengono preferiti agli adulti perché hanno meno pretese e sono più docili. Non ci riferiamo a qualche ragazzo di 16 anni che aiuta i genitori in negozio, parliamo di 120 milioni di bambini dai 5 ai 14 anni che lavorano a tempo pieno, anche fino a 11 ore al giorno per 6 o 7 giorni la settimana per tutto l’anno, vivono lontano dalla famiglia e dormono nelle stesse fabbriche dove lavorano. Non esistono statistiche complete sul lavoro minorile; nella gran parte dei casi i governi e i datori di lavoro si rifiutano di ammetterne l’esistenza, o comunque non compiono rilevazioni statistiche ufficiali. Secondo le stime dell’OIL (Organizzazione Internazionale del Lavoro), il numero di bambini lavoratori nel mondo oscilla intorno ai 250 milioni, distribuiti quasi ovunque: in Asia, Africa, America Latina, ma anche in Europa e in America del Nord. Qualche dato:

·       in India le stime più accreditate parlano di 44 milioni di bambini lavoratori;

·       in Pakistan 8 milioni di lavoratori (10-14 anni) costituiscono il 20% della popolazione attiva, e sono impiegati in ogni sorta di lavoro, dall’industria all’edilizia, spesso in condizioni di semi servitù;

·       in Bangladesh i bambini che lavorano, sia nell’industria (tessile soprattutto) per l’esportazione sia nell’artigianato sono ¼ dell’intera popolazione infantile;

·       in Nepal il 60% dei bambini svolge lavori che impediscono il loro normale sviluppo e particolarmente grave è la situazione delle bambine, il cui carico di lavoro è in genere di 2-3 volte superiore di quello dei maschi;

·       in Perù 400.000 bambini (6-10 anni) non vanno a scuola, bensì a lavorare perché le loro famiglie sono povere;

·       in Bolivia circa mezzo milione di bambini lavora in campagna, nelle miniere, in città e molto spesso è occupato nel terziario povero delle città;

·       in Senegal i bambini devono lasciare le loro famiglie che, sono povere ed andare a lavorare soprattutto nelle città.

Un fatto è certo: a dispetto delle leggi nazionali e internazionali, il lavoro minorile si continua a praticare nel mondo e forse in certi paesi è anche aumentato. Se oggi molti ragazzi svolgono attività consentite e regolamentate dalla legislazione nazionale, molti di più lavorano nell’illegalità. Esistono ancora bambini minatori, sorvegliati, fatti lavorare come schiavi, e destinati a farlo per tutta la vita per ripagare i debiti dei loro genitori. E ancora: piccoli pastori “assunti” illegalmente che lavorano 15 ore al giorno; bambini servitori; operai stagionali in miniatura costretti al lavoro in campi impestati da pesticidi  con seri rischi per la salute; bambini impiegati in piccole fabbriche che manipolano minuscoli fili metallici, operazione assai pericolosa per la vista; bambini che lavorano nel commercio, nelle piccole attività industriali o che si guadagnano da vivere in strada con mestieri sempre diversi – legali e illegali.

 

A fronte di questa complessa ed estesa realtà si sta intervenendo con due tipi di azioni. Da un lato programmi di sostegno all’economia famigliare, che rendano meno necessario il ricorso al lavoro dei più piccoli, dall’altro con interventi a favore dei bambini lavoratori, per tutelarli (anche legalmente) e per garantire loro possibilità di scuola e istruzione personale. In tutti o quasi i paesi, infatti, c’è uno stretto rapporto tra abbandono della scuola e lavoro minorile e poter continuare in qualche modo la scuola è, per i bambini, l’unica speranza di riuscire a liberarsi delle catene dello sfruttamento.

 

Allo stesso tempo è necessario creare alternative per i ragazzi che già lavorano, che consentano di acquisire istruzione e qualificazione professionale ma garantiscano anche un reddito minimo, per evitare che il proibizionismo si traduca di fatto in un proliferare del lavoro nero. Spesso si è dovuto constatare che persino la minaccia di sanzioni commerciali può portare certe industrie e certi datori di lavoro a licenziare i loro giovani lavoratori: questo, in effetti è ciò che è accaduto due anni fa in Bangladesh, a seguito di alcune proposte per vietare l’importazione di  tessili prodotti con il lavoro minorile. Come poi si è scoperto molti di quei bambini licenziati si sono ritrovati in una situazione assai peggiore di quella in cui si trovavano in precedenza, perché sono stati costretti a lavorare in condizioni ancor peggiori, senza poter frequentare più la scuola. Si tratta di un risultato che nessuno certo vuole tenere.

 

Iniziative di promozione di marchi commerciali che garantiscono, con un meccanismi analogo a quello del “controllo di qualità”, il fatto che un determinato prodotto non sia stato fabbricato utilizzando lavoro minorile risultano particolarmente efficaci, soprattutto per i prodotti destinati all’esportazione: il marchio Rugmark, ad esempio, contrassegna i tappeti indiani prodotti senza impiego di lavoro minorile, senza che “i loro fili siano intrecciati con il sudore e le lacrime dei bambini”. Scuola, formazione professionale, assistenza alle famiglie povere  questo è l’impegno di numerose organizzazioni nella lunga e complicata battaglia contro lo sfruttamento del lavoro dei bambini.

 

 

 

 

Colonialismo

 

Nel XVI secolo, dopo la scoperta delle Americhe, iniziò la grande espansione degli europei nel mondo e la formazione degli imperi coloniali.    Furono dapprima gli Spagnoli, richiamati dalle enormi quantità di minerali preziosi del Sud America, a fondare delle basi coloniali.  Distrussero i grandi imperi Inca, Maya e Azteco e resero schiave le popolazioni locali impegnandole nell'estrazione di oro e argento di cui poi caricavano i loro galeoni diretti in Europa, o utilizzandole come manodopera nelle grandi piantagioni.  Olandesi, Portoghesi e Inglesi avevano invece stabilito le loro basi in Asia, ma inizialmente si limitarono a rapporti di tipo commerciale. L'America del Nord venne colonizzata prevalentemente da inglesi e francesi che qui si stabilirono coltivando le terre e sfruttando le miniere.    Dall'Africa arrivavano invece gli schiavi: le navi negriere approdavano sulle coste africane e caricavano decine e decine di persone che venivano vendute come schiave nelle grandi piantagioni americane.

 

Nel corso dell'800 e nei primi anni del 900 gli Stati europei si erano divisi il mondo: Inghilterra, Francia, Olanda, Spagna, Portogallo e in minor misura Belgio, Italia e Germania avevano occupato militarmente gran parte di quello che oggi noi chiamiamo Terzo Mondo.      Erano spinti da ambizioni di potenza, da una certa pressione demografica interna, ma soprattutto dalla volontà di sfruttare le risorse economiche delle colonie (minerali, prodotti agricoli, schiavi) e di trovare uno sbocco alla sovrapproduzione manifatturiera che nel frattempo si era creata in Europa.

 

Tutti i Paesi che subirono la colonizzazione furono profondamente condizionati nel loro sviluppo proprio perché la crescita economica rispondeva solo ai bisogni dei colonizzatori.    Vennero create piantagioni specializzate in prodotti come il caffè, il cacao e il the, che erano richiesti in Europa, mentre per le colture di sussistenza delle popolazioni locali vennero adibiti piccoli appezzamenti poco produttivi.    L'artigianato locale venne sottoposto alla dura concorrenza dei prodotti delle industrie europee e nel giro di poco tempo andò scomparendo.   Poco fu fatto per alleviare le pessime condizioni di vita della stragrande maggioranza della popolazione, che anzi spesso peggiorarono: in alcuni casi, come nell'America del Sud e del Nord, gran parte della popolazione fu sterminata militarmente, o morì a causa dei maltrattamenti e di malattie infettive come il morbillo e il vaiolo contro cui non aveva anticorpi.

 

Gli imperi coloniali incominciarono a sgretolarsi solo negli anni '20 di questo secolo, ma gli ultimi atti di indipendenza risalgono a un periodo ancora più recente, che va dagli anni '50 fino a oggi.    Attualmente le colonie sono quasi tutte scomparse, ma in molti di questi Paesi permane una forte dipendenza economica aggravata spesso dalle prepotenze della nuova classe dirigente locale.    Divenuti indipendenti si sono infatti trovati di fronte al compito di promuovere il proprio sviluppo economico e, non avendo a disposizione capitali e personale tecnico specializzato, sono stati costretti a chiedere aiuto al mondo sviluppato originando una nuova subordinazione economica, il cosiddetto "neocolonialismo".

 

 

 

 

Il neo-colonialismo

 

I paesi ex coloniali solitamente si trovano in condizioni di miseria estremi. Economie fragilissime, in genere senza industrie e con agricolture distorte.   Alla precarietà economica si aggiunge l'analfabetismo e a questi la fame e la sottoalimentazione, con la conseguenza di malattie endemiche e un alto tasso di mortalità. Eppure questa povertà diffusa non ha ragion d'essere. Quei paesi dispongono di immense ricchezze. I paesi arabi forniscono gran parte del petrolio con cui funziona l'industria occidentale, l'Indonesia fornisce il caucciù, l'Angola ha l'oro e i diamanti, il Brasile il caffè, lo Zambia il rame, il Ghana il cacao, e così via. Ebbene, per qual motivo queste ricchezze non si traducono in benessere per i popoli che le possiedono? Perché l'indipendenza politica non diventa la leva per migliorare le condizioni di vita dei popoli: costruire scuole e ospedali, impiantare industrie, produrre alimenti sufficienti?

Sono queste, le domande che i popoli cominciano a porsi, qualche anno dopo aver conquistato l'indipendenza. L'esperienza che si delinea tra il 1960 e il 1970 è infatti la seguente: non solo la liberazione dal colonialismo non ha migliorato il tenore di vita dei popoli fino a ieri oppressi, ma anzi in generale i paesi ex coloniali sono diventati più poveri, mentre quelli ricchi sono diventati più ricchi.    La "forbice" tra sviluppo e sottosviluppo si è allargata, le condizioni sono diventate più disperate.           

 

Il sottosviluppo ha una motivazione molto precisa e una logica facilmente individuabile: il Ghana è stato trasformato dal colonialismo in un'immensa piantagione di cacao, ma il cacao non serve ai ghanesi e quindi deve essere venduto sul mercato internazionale. I prezzi del cacao sono fissati dalle Borse di Londra, Parigi, New York, sulla base della domanda del mercato e quali che essi siano, il Ghana è obbligato a vendere quel cacao che non gli serve per nutrire i suoi abitanti. L'economia ghanese è così in balia di altre forze che rispondono ad altri interessi.        E questo è il primo aspetto del problema, l'altro aspetto è il seguente: il Ghana non ha industrie per trasformare il cacao in cioccolato, il cacao viene esportato, lavorato altrove, e quando un ghanese vuole comprare una tavoletta di cioccolato deve importarla dall'estero, pagandola naturalmente in valuta pregiata e al prezzo imposto dall'industria che produce il genere.

 

I movimenti nazionali di liberazione giungono all'indipendenza sulla base di una lotta unitaria, nazionale appunto. Ma tutte le forze che vi concorrono non hanno gli stessi interessi. Vi è, anche in questi paesi, una divergenza tra classi sociali e le scelte decisionali possono essere diverse. Dipendentemente dalla classe sociale che detiene il potere si deciderà se nazionalizzare le ricchezze nazionali oppure no, se rompere con la monocoltura o no, se fare o no quelle riforme agrarie che spezzano il legame tra monocoltura e proprietari feudali locali. Vi sono infatti in Asia, in Africa, in America Latina le borghesie locali che si inseriscono nel rapporto neocoloniale e facendone parte ne ricavano privilegi, divenendo a loro volta sfruttatori della maggioranza del loro popolo. E su questa base quindi diventano i sostenitori e difensori del meccanismo neocoloniale.
Dopo la conquista dell'indipendenza politica, insomma, si apre una seconda fase di lotta che questa volta non ha solo dei nemici esterni, ma anche nemici interni. Questione nazionale e questione sociale vengono cioè a intrecciarsi profondamente.
Questo tipo di scontro percorre tutto il periodo che va dal 1960 ai nostri giorni, con momenti esemplari che ne riassumono le caratteristiche, in un alternarsi continuo di vittorie e di sconfitte.

 

Uno dei grandi momenti di sconfitta è offerto dalla tragedia congolese del 1960. In quell'anno il Belgio concesse l'indipendenza alla sua grande colonia, confidando nel fatto che un movimento nazionale ancora debole avrebbe permesso con facilità il proseguimento della sua presenza imperiale in Africa. L'indipendenza in altri termini doveva essere, per usare le parole di Amilcar Cabral (un grande africano assassinato dai colonialisti portoghesi), "una bandiera, un finto parlamento, una guardia presidenziale e null'altro). Accadde invece che il Congo trovasse in Patrice Lumumba un leader molto fiero e attento ai contenuti reali dell'indipendenza, ossia attento al recupero delle ricchezze nazionali che si trovavano in mani straniere. Furono allora promossi movimenti scissionisti, Lumumba venne assassinato e si instaurò la dittatura militare del generale Mobutu che consentì agli stranieri, in particolare ai belgi, di proseguire indisturbati lo sfruttamento delle risorse congolesi. Una vicenda analoga, ma dalle proporzioni di sangue ben più drammatiche, è accaduta in Indonesia, dove il nazionalismo di Sukarno stava evolvendo verso forme sociali più avanzate come la ridistribuzione agraria.

 

Un colpo di Stato e un terribile massacro (si calcola che siano state uccise circa mezzo milione di persone, ma alcune fonti parlano di un milione) hanno posto, nel 1965, una battuta d'arresto a quella evoluzione, consentendo alle grandi compagnie multinazionali di continuare il loro saccheggio (il nuovo presidente, generale Suharto, restituisce subito le proprietà ai vecchi possessori stranieri e cerca appoggi politici ed economici in Occidente). In questo senso, non molto diversa risulta l'esperienza cilena, dove le forze di sinistra arrivano al potere il 24 ottobre 1970 con una vittoria elettorale, sulla base quindi di uno svolgimento democratico classico, la loro politica investe subito i problemi cruciali del sottosviluppo e dell'indipendenza economica con la nazionalizzazione di alcune miniere di ferro e di rame, ma un feroce colpo di Stato diretto dalla CIA e dalla multinazionale nordamericana ITT porta ad una dittatura sanguinaria l'11 settembre 1973 e che durerà per 17 anni, il tempo necessario per eliminare fisicamente le avanguardie popolari, distruggere la cultura rivoluzionaria e quindi, ritornare beffardamente al formalismo della democrazia borghese.

 

L'esempio cileno è certamente quello che mostra più chiaramente come l'imperialismo se ne infischia della democrazia quando i suoi interessi concreti sono colpiti e rimessi in discussione.   Tuttavia il fatto più emblematico del neocolonialismo resta l'intervento americano nel Vietnam. Qui si ritorna ad una guerra coloniale classica (l'invio di un corpo di spedizione) per impedire ad una rivoluzione nazionale di ispirazione socialista di giungere a compimento dimostrando ai popoli come i problemi del sottosviluppo possano essere risolti nello stretto intreccio tra questione nazionale e questione sociale. In realtà gli Stati Uniti avvertono consapevolmente le novità della situazione apertasi nei tre continenti ex colonizzati, tutti ormai in fermento. Il neocolonialismo infatti può sì frenare i movimenti di emancipazione, ma non può risolvere la contraddizione di fondo in cui i popoli vivono: indipendenza più sottosviluppo. E i popoli ne stanno prendendo coscienza.

 

In quegli anni la rivoluzione cubana si è trasformata in rivoluzione socialista. L'Algeria ha conquistato la sua indipendenza nel 1962 (il Fronte di liberazione nazionale aveva cominciato a combattere nel 1954) e ha proceduto alla nazionalizzazione delle sue ricchezze minerarie nel 1966. Il nasserismo egiziano procede sempre più sulla via dell'indipendenza economica con la "Carta nazionale dei princìpi socialisti" di Nasser, del 1962. In Siria e in Iraq sono stati abbattuti regimi neocoloniali e si tentano nuove strade (riforma agraria in Siria nel 1958, nazionalizzazioni nel 1963 e nel 1965; nazionalizzazione delle banche in Iraq nel 1964). Una guerra popolare divampa nelle colonie portoghesi e i movimenti di liberazione che ne sono alla testa (Fronte popolare di liberazione dell'Angola, Fronte di liberazione del Mozambico) non nascondono di non voler percorrere, al momento dell'indipendenza, il cammino neocoloniale di tanti altri regimi africani. A questo punto il Vietnam diventa, per l'imperialismo, un banco di prova decisivo, un esempio da dare per far intendere che se la fine degli imperi coloniali è stata tollerata, non lo sarà la lotta contro l'assetto neocoloniale. Ma è proprio questo significato dato alla guerra in Vietnam che si rovescia contro il neocolonialismo. I vietnamiti vincono infatti la loro seconda guerra di liberazione e la vincono contro la più grande e ricca potenza imperialista, gli Stati Uniti, i quali si ritirano sconfitti sul piano militare ma lasciando purtroppo un paese devastato, al quale non verrà mai corrisposto nessun indennizzo di guerra, impossibilitato così, malgrado tremendi sforzi, ad uscire da quella immane distruzione, sì che questo tremendo peso si ripercuoterà successivamente in modo determinante. Comunque come nel 1954, la vittoria del Vietnam dà un nuovo impulso allo scontro in atto per infrangere le forme di dominio neocoloniale: l'Africa, infatti, compie un nuovo scatto in avanti con l'accesso all'indipendenza dell'Angola, del Mozambico, della Guinea Bissau. Il Laos e la Cambogia vedono l'avvento di nuovi regimi più radicali sul terreno economico e sociale. Ma soprattutto esplode la prima grande rottura dell'ordine neocoloniale: nel 1973 i paesi produttori di petrolio decidono di essere loro a fissare i prezzi del prezioso prodotto, sulla base dei loro interessi e non di quelli dei paesi importatori.


Anche nel continente latino americano si susseguono le rivolte: in Messico, a Panama, nella Repubblica Dominicana, in Bolivia, Colombia, Venezuela; fioriscono i Movimenti di Liberazione Nazionale in molti paesi di tutto il continente, tra i quali spiccano i Tupamaru in Uruguay, il Farabundo Martí di Liberazione Nazionale in Salvador, ed altri come in Guatemala ed in Perù, nel '79 il Fronte Sandinista prende il potere in Nicaragua e da quel momento il popolo nicaraguense deve subire ogni sorta di boicottaggio economico, provocazioni belliche e attacchi mercenari finanziati e guidati direttamente dagli Stati Uniti d'America sì che dopo dieci anni di speranze, anche il sogno nicaraguense si infranse.


Ad una ad una tutte le speranze che hanno sollevato "i dannati della Terra" e che li hanno visti eroici protagonisti del loro riscatto, si sono spente. Poiché in una guerra non vince chi ha la ragione ma chi ne ha la forza; lo strapotere militare, tecnologico ed economico dei paesi imperialisti è riuscito, ancora una volta, a martirizzare la maggior parte dell'umanità e ad umiliare le masse dei cittadini dei propri paesi, assegnandogli il ruolo di supini consumatori, spogliati di ogni pur minima conoscenza delle infamie di cui sono inconsapevoli sostenitori, immemori che in quegli anni di grande speranza e dignità per il mondo intero, milioni di lavoratori e studenti in grandi manifestazioni politiche e di solidarietà, in Francia, in Italia, in Belgio e negli Usa, unendosi idealmente alla volontà di liberazione degli oppressi, dimostrarono che anche nel ventre dell'impero è possibile un risveglio.


Ma le condizioni che hanno generato le rivolte dei popoli oppressi non sono scomparse, e non è possibile soffocare gli ideali di libertà e dignità. La resistenza di Cuba, a 90 miglia dal colosso nordamericano che tenta in ogni modo di strangolarla, lo sta dimostrando concretamente a tutti. Continua ad essere un faro di speranza per tutti gli oppressi del mondo e una nuova possibilità di riscatto delle masse dei paesi capitalistici che decidessero di smettere la recita del ruolo di utili irresponsabili di false democrazie. Il compito minimale che ci compete è di riprendere l'iniziativa attraverso la solidarietà, nell'ottica più genuina e popolare, non vista attraverso gli occhiali deformanti della borghesia che, necessariamente, la manipolano e la trasformano in un nuovo strumento generatore di profitti e di divisione dei popoli.

 

 

 

 

Profonde disuguaglianze economiche

 

Una delle cause del sottosviluppo è: la disuguaglianza economica, infatti, tra una minoranza privilegiata, proprietaria di terre e capitali, c’è una massa di contadini poveri.   Proprio perché ricchezza e povertà non sono concetti assoluti, ma il frutto di un confronto, se in un paese tutte le famiglie avessero lo stesso standard di vita non esisterebbero ricchi e poveri.   Ecco che il concetto di povertà è strettamente legato a quello di giustizia.   Per capire qual è il grado di giustizia distributiva esiste in un paese, si possono usare due metodiche che si integrano fra loro

 

     IL PRIMO: consiste nello stabilire delle fasce di reddito e vedere quante famiglie si collocano all’interno di ciascuna di esse.In Italia il grosso della popolazione sta nella fascia medio-bassa;

 

     IL SECONDO: consiste nel dividere la popolazione in cinque gruppi omogenei in base al tenore di vita.Poi si verifica qual è la di ricchezza nazionale di cui si appropria ciascun gruppo definito “quintina”.   In Italia il 20% più ricco si appropria quasi della metà della ricchezza nazionale, mentre il 20%più povera deve accontentarsi del 5%.   Anche gli altri paesi del nord sono su valori simili.

 

 

 

 

 

Precarie condizioni naturali

 

L’arretratezza economica è il risultato di precarie condizioni naturali, come la mancanza di risorse energetiche odi materie prime, scarsa produttività dei suoli, difficili condizioni climatiche (es.: zone desertiche nell’africa, dove l’acqua non si trova per chilometri e chilometri). 

 

 

 

L'impresa multinazionale

 

L’enorme progresso tecnologico e la liberazione del commercio internazionale, realizzatasi nel secolo dopo guerra, hanno favorito l’affermazione delle

 

Imprese multinazionali che sono delle grandi aziende che svolgono la loro attività produttiva in diversi Stati del mondo, anche se è unica la strategia di gestione.

 

E’ opportuno distinguere fra:

-Imprese multinazionali in senso stretto, se è posseduta e diretta da soggetti residenti nel paese d’origine dell’impresa (è questo il caso più frequente).

-Imprese transnazionale, se la proprietà e la direzione sono multinazionali, e le imprese sono vere e proprie “cittadine del mondo”, svincolate da interessi nazionali.

 

Le multinazionali sono imprese oligopolistiche, dotate di ingenti capitali e di altre capacità tecniche: producono la maggior parte dei beni di largo consumo e di conseguenza è molto alta la loro partecipazione al commercio mondiale.   Alla casa madre sono riservate le decisioni più importanti (come la suddivisione delle fasi di lavorazione fra i diversi centri produttivi, la scelta delle fonti di finanziamento, o le politiche degli acquisti), mentre la produzione viene in gran parte effettuata nelle filiali situate all’estero, compresi alcuni paesi in via di sviluppo.

 

La costituzione di una multinazionale richiede il trasferimento di ingenti capitali in altri paesi e per questa ragione gli economisti misurano il fenomeno con la quantità degli investimenti diretti all’estero effettuati da un singolo paese.   Le multinazionali più importanti sono statunitensi, anche se numerose sono quelle europee e giapponesi (negli ultimi anni è molto aumentata l’importanza di queste ultime).

 

 

 

 

Ragioni di successo 

 

L’affermazione delle multinazionali è dovuta alle seguenti ragioni:

-         riduzione dei rischi, dato che le imprese possono compensare le perdite registrate in paesi in avversa congiuntura economica con i guadagni conseguiti in paesi con congiuntura favorevole;

-         L’allargamento dei mercati di vendita, poiché la produzione su larga scala consente l’utilizzazione di tecnologie avanzate, che comportano la diminuzione dei costi unitari;

-         Impiego di lavoro a basso costo, quando gli investimenti si dirigono in paesi in via di sviluppo (PVS) a bassi salari, per la presenza di alta disoccupazione e per la debolezza delle organizzazioni sindacali (in media, PVS i salari sono pari al 15% e gli orari di lavoro a 1,3 volte di quelli dei paesi sviluppati);

-         Vantaggi fiscali , che si possono realizzare quando i sistemi impositivi sono diversi nei vari paesi: l’impresa multinazionale può fissare i prezzi dei trasferimenti intra-azziendali, in modo da ridurre il carico fiscale complessivo.

 

 

 

Vantaggi e svantaggi 

 

Gli stati ospitanti possono trarre vantaggi dalla presenza delle multinazionali: le tecnologie in uso nella grande impresa possono diffondersi gradualmente all’interno del sistema economico, favorendone cosi la modernizzazione.   Ma per un paese dalla debole struttura economica la multinazionale può anche comportare gravi svantaggi: gli obiettivi dell’impresa potrebbero contrastare con quelli del paese ospitante, ciò sarebbe un pericolo, in quanto il potere di una multinazionale è tale da consentirle di eludere le norme giuridiche del paese (I bilanci delle multinazionali possono anche superare quelle di uno stato di media grandezza).

 

D’altre parte i PVS rappresentano per le multinazionali anche notevoli svantaggi e rischi, che non sempre sono compensati dai vantaggi: i paesi poveri sono spesso politicamente instabili, scarseggiano delle "esternalità" positive che riducono i costi generali, dispongono di forza lavoro poco costosa, ma scarsamente qualificata, non dispongono di mercati in grado assorbire la produzione, ecc…   In sintesi, le multinazionali potrebbero avvantaggiare una economia in via di sviluppo anche se la storia insegna che non di rado si è verificato uno sfruttamento a danno dei paesi poveri.

 

 

 

 Sviluppo e Sottosviluppo

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