Il
concetto di sviluppo non ha avuto e non ha tutt’ora un significato univoco.
Nel corso del tempo è stato in fatti interpretato in modo diverso e di volta in
volta identificato con il progresso, con la crescita, con la modernizzazione e
anche, se pure impropriamente con l’industrializzazione.
Nell’antichità
classica si parlava, anziché di sviluppo, di PROGRESSO, inteso come progresso
spirituale. Essi non facevano, quindi, alcun riferimento esplicito al
miglioramento alle condizioni materiali della società; queste costituivano una
diretta conseguenza della saggezza e dell’elevazione spirituale di un popolo.
Con l’avvento del mercantilismo, e ancor prima in epoca rinascimentale
si matura la convinzione che la crescita (intesa come progresso materiale)
determini l’elevazione dell’uomo tanto il senso economico quanto spirituale.
Lo sviluppo diviene così, l’obbiettivo primario dell’uomo per vincere la
sua secolare battaglia sulle forze della natura. La dottrina degli stati
nazionali conferì una valenza “istituzionale” allo sviluppo: esso venne
infatti concepito essenzialmente come fine per l’affermazione della potenza
militare di uno stato e quindi della sua egemonia territoriale. Di qui la
notevole spinta a cui si assistette, in questa fase storica, verso la
colonizzazione, intasa come controlli esercitato da una potenza su nazioni
militarmente o economicamente più deboli, dei territori oltre oceano.
Diversamente
dal passato, la scienza viene intesa, in quest’epoca, qual mezzo per favorire
lo sviluppo, cioè come “motore” della crescita. Il secondo fattore
determinante fu la nuova etica protestante, e in particolare quella propugnata
da Giovanni Calvino, improntata ad un’intima assonanza tra fede,
produzione, accumulazione e ricchezza. Con l’etica calvinista la crescita
economica viene considerata il “seguo” del volere divino. Un terzo fattore
fu poi rappresentato nel XVIII secolo dall’affermazione della cultura
illuminista. Esaltando il ruolo, le capacità, le possibilità dell’uomo, essa
contribuì a consolidare quella visione antropocentrica che costituiva il
necessario supporto filosofico della concezione dello sviluppo inteso come
modernizzazione, cioè come evoluzione delle attività umane. L’idea
contemporanea dello sviluppo risente fortemente della precedente concezione.
Ancora
all’inizio degli anni ’50 lo sviluppo economico era inscindibilmente
associato al progresso umano inteso come dominio della natura. Solo negli anni
più recenti si è fatta strada una nuova concezione dello sviluppo, non più
centrato sulle sole condizioni materiali, ma anche aspetti qualitativi della
vita di relazione. Sulla base di più recenti orientamenti si può così
tracciare la seguente definizione dello sviluppo economico: lo sviluppo
economico è rappresentato da una crescita elevata e prolungata del prodotto
pro-capite innescata dal progresso economico, accompagnata da importanti
trasformazioni culturali, sociali, e strutturali e associata a un miglioramento
nella distribuzione della ricchezza, nelle condizioni lavorative, nelle
condizioni sanitarie e assistenziali della popolazioni.
Non
esiste un unico indice che misuri il grado di sviluppo economico di un paese, ma
un complesso di indicatori:
-
PIL calcolato con riferimento all’intera economia;
-
PIL pro-capite inteso come dato medio per abitante;
-
il tasso di crescita della popolazione;
-
il tasso di disoccupazione lavorativa;
-
il tasso di utilizzazione degli impianti;
-
la variazione percentuale degli investimenti;
-
il tasso della concentrazione della ricchezza e altri indici ancora.
Il
più importante valore a livello di sviluppo economico è considerato, dalla
maggior parte degli economisti, il PIL. Esso presenta però notevoli limiti. Ciò
ha indotto diversi studiosi a rifiutarlo drasticamente. In effetti il PIL può
essere considerato un indicatore valido per misurare la capacità produttiva in
un’economia, (costituisce u indice tecnico ma non socio-economico) ma è assai
meno significativo nel valutare il grado di benessere di una data popolazione.
Proprio
dall’insoddisfazione della dottrina nei riguardi di indicatori come il PIL è
sorta l’esigenza di costruire un indicatore composito, al quale è stato dato
il nome di indice di sviluppo umano. L’esplicito riferimento a una
situazione dello sviluppo di ciascun paese non sotto il profilo “economico”
ma “umano” cioè un rapporto al “benessere” dell’uomo. Tale indicatore
elaborato dal programma per lo sviluppo dell’organizzazione delle Nazioni
Unite a partire dal 1990, tiene conto di tre soli fattori, che a loro volta si
basano su ulteriori indicatori:
-
il livello di
sanità, rappresentato dalla speranza di vita alla nascita;
-
il livello di istruzione, rappresentato dall’indice di alfabetismo
della popolazione adulta e della media
del numero di anni di studi;
-
il reddito, rappresentato dal PIL pro-capite dopo una doppia
trasformazione che tiene conto del reale potere di acquisto del paese.
La
teoria dello sviluppo economico fu al centro dell’attenzione degli economisti
classici e di Marx per poi cadere nel disinteresse per tutta la seconda metà
dell’800 e i primi decenni dei secolo successivo (con l’unico illustre
eccezione dell’economista Schumpeter. A partire dagli anni 50 del ‘900 si
ebbe una nuova fioritura di analisi dello sviluppo, anche per l’urgenza di
trovare adeguate soluzioni al problema della disoccupazione e accettare, quindi,
quale percorso di crescita dovesse seguire un sistema altamente industrializzato
proiettato a raggiungere e a mantenere la piena utilizzazione delle risorse
disponibili.
Schumpeter
è l’unico economista di rilievo di ispirazione neoclassica che si è occupato
ampiamente delle problematiche dello sviluppo. Punto di partenza della sua
analisi è il progresso tecnico. Per questo autore, infatti, l’innovazione
tecnologica rappresenta il motore dello sviluppo. Egli ritiene che il sistema si
sviluppi sotto la spinta dell’iniziativa degli imprenditori più capaci e
innovatori, che sanno rischiare introducendo nuovi procedimenti di produzione.
Essi lucrano inizialmente profitti elevati che reinvestono per espandere la
produzione e favorire l’ulteriore ricerca tecnica. L’economista austriaco
non è però ottimista circa il destino del capitalismo, essendo convinto
che la classe imprenditrice è sempre meno propensa al rischio, anche per
l’intervento dello stato il quale, sostituendosi all’iniziativa privata
contribuisce a impigrire lo spirito innovatore dell’imprenditore.
La
modellistica dello sviluppo ha condotto, nella sostanza, a risultati
insoddisfacenti. Gran parte dei modelli elaborati dagli economisti, infatti,
hanno posto in evidenza la presenza di incertezze nelle scelte degli operatori,
e dunque l’elevata possibilità di perturbazioni, difficilmente prevedibili,
nel ritmo di crescita del sistema. Nella realtà i problemi di sviluppo si
presentano diversamente a seconda della struttura produttiva di ciascun sistema,
e i tentativi di formulare delle teorie di sviluppo rappresentative del sistema
di sviluppo preso nella sua generalità sono state in gran parte accantonati
dagli studiosi della materia. Per questo sono prevalsi, più di recente, gli
studi orientati a analizzare specifici contesti socio-economici, cioè le
particolari condizioni in cui si trovano le diverse economie, al fine di
accertare il loro andamento di sviluppo. In tale ottica si è operata, per
esempio, una distinzione tra i paesi di intensa industrializzazione e quelli che
manifestano ancora condizioni di arretratezza sul piano dell’assetto
produttivo e dell’uso di tecnologie. L’obiettivo fondamentale, in questi
contesti, non sarebbe perciò quello di raggiungere l’ottimale utilizzazione
di tutte le risorse disponibili, ma di mantenersi su una crescita di quasi
“piena occupazione” senza incorrere in tensioni inflazionistiche. Nei paesi
più arretrati, invece, il sistema economico tenderebbe a svilupparsi verso una
crescita piuttosto distante dal pieno impiego. L’obiettivo fondamentale quindi
dovrebbe essere quello di pervenire a una crescita soddisfacente in ordine
all’utilizzazione delle risorse.
Termine con cui si vuole indicare la politica di espansione e di sviluppo economico intrapresa della grandi monarchie europee. Costituisce un insieme di norme pratiche di politica economica, che, affermatesi verso la seconda metà del XVII sec. a opera soprattutto di scrittori inglese, si diffusero successivamente in tutti i grandi Stati del continente europeo. Il mercantilismo sostiene in primo luogo una politica commerciale intesa a creare una bilancia degli scambi favorevole attraverso forme di protezione del mercato e della produzione nazionali e l’accumulazione di metalli preziosi, fonte di autonomia anche politica dello Stato, che in questo modo non dipende da autorità esterne o terze.
Teologo
e riformatore religioso francese. Fece i primi studi di filosofia e
giurisprudenza a Parigi, Orléans e Bourges. Nel 1533 abbracciò la fede
riformata. Cardini della sua dottrina erano: la doppia predestinazione (alcuni
sono eletti alla salvezza, altri uomini destinati alla dannazione), la funzione
determinante della grazia divina rispetto alle opere umane, la Bibbia come
autorità unica in materia di morale e di fede, la riduzione dei Sacramenti al
Battesimo e alla Cena, il cui significato è però solo simbolico.
Sigla
di prodotto interno lordo, che rappresenta il risultato finale dell’attività
produttiva (di imprese e amministrazioni pubbliche) svolta nel territorio del
Paese. Corrisponde al valore della produzione totale di beni e sevizi
dell’economia, diminuito del valore dei beni intermedi consumati e aumentato
dalle imposte indirette sulle importazioni.
Secondo Marx i cambiamenti più importanti verificatisi in età moderna sono associati allo sviluppo del capitalismo. Con questo termine egli intende un sistema di produzione del tutto diverso dai precedenti, in quanto basato sulla produzione in serie e con il supporto di macchinari, di beni e di servizi venduti ad un’ampia fascia di consumatori. I protagonisti di questo sistema di produzione sono da lui identificati in due classi sociali. Da una parte vi sono i capitalisti, ovvero coloro che possiedono il capitale (fabbriche, macchinari e ingenti somme di denaro), dall’altra vi sono i proletari, ovvero coloro che, non possedendo mezzi per la sussistenza, sono costretti a vendere la loro forza lavoro ai proprietari di capitale. Dal punto di vista numerico i capitalisti costituiscono una ristretta minoranza, mentre i proletari formano la grande massa dei lavoratori salariati. Nonostante la disparità numerica, la maggior parte del potere si concentra nelle mani dell’èlite capitalista giacché essa possieda gli strumenti concreti per imporsi. Per Marx capitalisti e proletariato non sono semplicemente due gruppi ma due classi sociali. I membri di ciascuna sono cioè legati da comuni interessi e obiettivi e possono, se necessario, agire insieme. Così, per esempio, i capitalisti si coalizzano per diminuire il salario dei lavoratori e, allo stesso modo, i lavoratori si uniscono per fare pressione sui capitalisti al fine di ottenere un miglioramento delle condizioni igieniche di lavoro oppure orari più brevi.
Sviluppo e Sottosviluppo