Tra leggenda e romanzo: Manchay Puytu, el amor que quiso ocultar dios

Alessandro Finzi - Luisa Selvaggini

 

Il Manchay Puytu è il romanzo che segna la maturità letteraria del boliviano Néstor Taboada Terán. L'opera è stata pubblicata per la prima volta a Buenos Aires nel 1977, quando l'autore si trovava nella capitale argentina dopo essere stato espulso dalla Bolivia dall'allora presidente, il generale Hugo Bánzer Suárez. Il Manchay Puytu ottenne immediato riconoscimento ufficiale con l'attribuzione della Faja de Honor, conferita dalla Sociedad Argentina de Escritores nel 1978 ed il fatto che, ad oltre vent'anni di distanza, continui ad essere dato alle stampe (nel 1998 si è arrivati alla quinta edizione) testimonia il favore del pubblico e la validità dell'opera.

Un significativo successo internazionale, anche se limitato al campo specialistico degli studiosi di letteratura ispanoamericana, ha fatto seguito al premio argentino. Nel 1989 il romanzo è stato tradotto in tedesco e recentemente Keith Richards ha pubblicato un consistente saggio sull'opera di Taboada Terán, dedicando due capitoli al Manchay Puytu. Alberto Villalpando, a sua volta, ha trasformato il testo in una opera musicale.

Il romanzo, che ruota attorno alla tragica storia d'amore tra il sacerdote indio Fray Antonio de la Asunción e la semplice ed istintiva María Cusilimay, anch'essa india e sua inserviente, presenta una difficile lettura, principalmente per due ordini di fattori: la lingua e la struttura. L'autore utilizza infatti un linguaggio fortemente marcato dalla presenza di vocaboli, sintagmi e, a volte, intere frasi in quechua, che tuttavia sono quasi sempre precedute o seguite, nel corpo del testo, dalla corrispondente espressione in spagnolo.

L'uso del quechua, o di altre lingue autoctone, è carattere comune ai romanzi dell'area andina e risponde all'esigenza di rappresentare, quanto più verosimilmente possibile, realtà che sono fortemente legate alla cultura e all'organizzazione economica e sociale di questa regione. Si tratta di romanzi di varia natura che costituiscono per lo più vicende di invenzione calate in una ambientazione decisamente realistica del mondo rurale o minerario. Néstor Taboada Terán, che è solidamente radicato nel proprio contesto culturale, trova invece prevalente motivo di ispirazione nella tradizione e nel patrimonio storico-letterario del Paese.

Nel testo, al quechua, lingua ancestrale, e allo spagnolo, lingua della vita pratica quotidiana, si affianca il latino, lingua della vita spirituale e comunque registro familiare per il protagonista. Infatti, quando Padre Antonio prende coscienza della perdita della donna amata utilizza l'invocazione in latino O dulcis Virgo Maria!. Ciņ ancor prima di chiamarla nella lingua nativa Sumaj (bondadosa) María e successivamente María bonita.

L'uso alternato delle tre lingue appare come un artificio per sottolineare la compresenza delle diverse forme espressive. Tale ricorso si rileva anche in caso di flusso di coscienza interiore:

me resisto a decir Dominus dedit, Dominus abstulit; sit nomen Domini benedictum, [...]. Dondequieras que te encuentres, mujer, amada mía, te buscaré y encontraré para amarte y mimarte.

Nell'epigrafe del terzo capitolo compare però del tutto inatteso, almeno per uno scrittore boliviano, e straordinariamente appropriato, il calco "alma pequeña, errante y cariñosa", dall'incipit dell'epitaffio di ritmo giambico attribuito all'imperatore Adriano morente. Il verso č in seguito riportato nella sua forma latina: Animula, vagula, blandula.

Strutturalmente, nel Manchay Puytu cronaca e leggenda si intrecciano, creando un articolato ed originale tessuto narrativo nel quale si sovrappongono vari livelli temporali ed avvenimenti apparentemente dissociati tra loro. Ciò contribuisce a creare un aggrovigliato gioco di risonanze che arricchisce l'asse centrale del romanzo.

Il preambolo è già un chiarimento della genesi del racconto:

A los extraños sucesos y desgracias de una leyenda de amor que, pese a los siglos de difusión prohibida, la mano del tiempo no ha enterrado en la sepultura del olvido.

Il Manchay Puytu nasce infatti da una leggenda dell'epoca della colonia, con verosimile base storica, di cui esistono una versione peruviana e un'altra boliviana. Jesús Lara, eminente filologo e letterato boliviano, autorevolissimo studioso della cultura autoctona, riporta nella raccolta intitolata Leyendas quechuas le due versioni, nonché il poema quechua settecentesco a cui entrambe si rapportano. Tuttavia, Taboada Terán apprese per la prima volta la versione boliviana della leggenda direttamente in forma orale dalla madre india.

Il poema in lingua quechua, a cui il romanzo si riallaccia fin dall'epigrafe, è ricco di forza e drammaticità, e questo potrebbe giustificare come abbia potuto sopravvivere clandestinamente al rigorosissimo bando dell'Inquisizione. Data la natura del contenuto, ne fu vietata non solo la pubblicazione (a ciò appunto fa riferimento il preambolo del romanzo), ma perfino di cantarne il motivo musicale (yaraví) che lo accompagnava.

Al carattere leggendario dell'intreccio si somma l'aspetto storico (o storiografico) che conferisce al romanzo una dimensione cronachistica. Alcuni capitoli sono infatti interpolazioni dalla antica Historia de la Villa Imperial de Potosí di Bartolomé Arzáns de Orsúa y Vela.

Tornando al testo, la vicenda si svolge nel XVIII secolo nella Villa Imperial de Potosí. Antonio è un indio che, come molti altri, ha seguito la via religiosa per sottrarsi alla servitù feudale del repartamiento o alla schiavitù del yanaconaje. Ma è anche uomo di cultura, musicista e poeta, infatti:

componía sus versos en quechua y en su música palpitaba el sentimiento puro de su raza.

Nonostante l'atteggiamento, soprattutto iniziale, da buon prete cattolico, egli rivela progressivamente di aver mantenuto un profondo legame con la cultura e la tradizione magica indigena. Tale forma di adesione ancestrale è caratteristica piuttosto costante della letteratura boliviana e, per quanto sia ispanizzato l'autore, il mondo magico viene presentato invariabilmente come un valore che trascende e misteriosamente domina non solo la dottrina religiosa, ma perfino la cultura scientifica del mondo moderno. La sfera del magico si configura con l'evidenza di una realtà, così come è comunemente accettato nel sentire popolare, anche da parte di chi ha aderito al cristianesimo o ad altre religioni esogene.

L'intreccio diventa però più interessante nelle parti successive, quando, per soffocare lo scandalo dell'illecito amore nato fra i due protagonisti, il vescovo decide di inviare Padre Antonio a Lima, allontanandolo da Potosí con la scusa di ottemperare ad alcune incombenze della curia. Al suo ritorno il sacerdote apprenderà la notizia che María, straziata dalla sua improvvisa partenza e incapace di comprendere il prolungarsi della separazione, si è lasciata morire d'inedia. La sua morte è dunque morte per amore.

Successivamente, Antonio vivrà nel costante incubo della presenza-assenza della giovane, perché convinto che, durante la notte, la sua anima si aggiri per la casa parrocchiale nella quale avevano felicemente vissuto. María, infatti, vaga ancora nei sentieri del Wakayñán o País de los Espíritus. Il sacerdote, in uno stato di semi-coscienza, riesce a vederla e a parlarle. È a questo punto che la sua fede scivola irrimediabilmente verso un inconsapevole sincretismo religioso tra il cattolicesimo, che professa l'immortalità dell'anima, e le credenze indigene, che ritengono possibile la dissociazione dell'anima dal corpo e, di conseguenza, una verosimile riunificazione:

Creyente apasionado de la doctrina de la inmortalidad del alma, que coincidía con la sublime concepción de sus antepasados, había llegado al convencimiento que retornando el alma al cuerpo se recobra la vida. El principio absoluto. Para la voluntad todopoderosa del amor no hay obstáculos, tengo que liberarla del Ukhupacha y el resto será sencillo. [...] No estaba definitivamente muerta porque su muerte era incompleta. El cuerpo bajo tierra y el alma rodando por la casa.

Antonio si propone dunque di ricongiungere l'anima "errante" di María con il corpo ormai corrotto dalla morte. Una notte si dirige nel luogo dove la donna è sepolta con l'intenzione di dissotterrarne le spoglie. È a questo punto che Taboada Terán inserisce uno dei passi più intensi del romanzo. Antonio è davanti alla tomba di María ed esclama "Dios mío, yo no he perdido la Fe!". Nel suo delirio, infatti, egli ricorda come anche Gesù resuscitò Lazzaro e mentre con le mani scava il corpo dell'amata, nella mente si affollano vertiginosamente le parole del Vangelo:

Dice Jesús: Quitad la piedra. Marta, la hermana del que había muerto, le dice: Señor, hiede ya, que es de cuatro días. Jesús le dice: ¿No te he dicho que, si creyeres, verás la gloria de Dios? Entonces quitaron la piedra de donde el muerto había sido puesto.

Freneticamente, Antonio continua nel suo macabro lavoro fino a raggiungere il corpo di María per rinnovare, come verrà reso esplicito molto più tardi, il miracolo della resurrezione della carne. Si tratta di un momento chiave del romanzo e Taboada Terán, con una efficace scelta stilistica, plasma la sua prosa riuscendo a dar forma verbale all'eccitazione delirante del sacerdote; alla rievocazione del ritorno alla vita di Lazzaro si associano sia la voce di Antonio che quella del narratore. Il risultato è la raccapricciante descrizione della profanazione tombale:

Lázaro ven fuera! Con denuedo limpió la tierra humedecida para descubrirle todo el cuerpo. Ay, cubierta a puros jergones e impregnada de fetidez a flores descompuestas parecía una antorcha apagada que de pronto se enciende. [...] No era una Chullpa marchita, momia consumida. Emocionado la abrazó y besó en las mejillas amoratadas. [...] Y el que había estado muerto, salió, atadas las manos y los pies con vendas; y su rostro envuelto en un sudario. Díceles Jesús desatadle y dejadle ir. Tienes los labios fríos, pobre compañera mía, la boca inerte. El feliz encuentro. °Mi palomita, urpilay, llegaste temprano a una muerte que no era la tuya!

Una volta trasportato il cadavere a casa, il sacerdote lo lava accuratamente e lo cosparge di unguenti. Vinto infine dalla passione, adagia María sul letto e giace nuovamente con lei. Dopo l'estremo atto di mistica necrofilia le toglie una tibia con cui costruisce una quena.

Nella cultura andina questo tipo di flauto, straordinariamente melodioso, appare come l'equivalente della voce umana ed infatti non assume mai funzioni di accompagnamento ma si alterna sempre con il canto. Attualmente la quena è costruita con il legno di una pianta simile alla canna e può essere prodotta semi-industrialmente in maniera relativamente uniforme. In origine però ogni suonatore fabbricava la sua, cosicché egli era identificabile dalla voce del proprio strumento (in particolare la donna riconosceva il suo uomo). In passato, per la realizzazione di questi flauti venivano usate anche ossa di animali o umane.

La quena costruita da Antonio è pertanto in grado di emettere un suono inconfondibile, capace di oltrepassare le frontiere del mondo terreno per giungere nel Wakayñán ed essere riconosciuto da María. Lo yaraví, cioè il poema accompagnato dalla musica, è dunque un modo per comunicare con l'anima della india fino a quando il suo amante non riuscirà ad inviarle un messaggero. La melodia composta e suonata dall'innamorato sacerdote, e di cui Taboada Terán riporta nel testo anche la trascrizione su pentagramma, è però così inquietante e straziante che si rivela insopportabile all'udito dei vivi, ma non lo è certo per Antonio. Infatti, mentre María è un'anima che "vive nella morte", il sacerdote è un "morto in vita" in procinto di abbandonare il mondo terreno per raggiungere l'amata. Per attenuare l'effetto acustico, Antonio viene obbligato a suonare il flauto introducendo testa e mani all'interno di una grande anfora di terracotta, assumendo così una posizione grottesca. Questo ripiego però non farà altro che trasformare il lamento in un suono ancora più sinistro:

En ella tocaba el cura uno de los muchos yaravíes que había compuesto para la amada, el más triste, el más espresivo, el más bello. Para tocarlo introducía la quena en un puitu, cantarillo hecho de una arcilla especial, con lo que la música parecía un lamento lúgubre, casi pavoroso y traducía mejor la magnitud de su infortúnio.

Da qui l'origine del titolo del poema, delle leggende e del romanzo: Manchay Puytu significa infatti "anfora del terrore".

Nel romanzo di Taboada l'amore, il desiderio, la passione e l'eros sono sempre relazionati con la morte e non solo nel rapporto Antonio/María, ma anche nella vicenda di un altro personaggio, il Bigardo, l'hidalgo spagnolo "depredador de doncellas" condannato alla pena capitale dal Santo Uffizio per aver violato 360 indigene. Queste ultime, una volta eseguita la sentenza, si immoleranno con un sacrificio collettivo per non abbandonare l'anima dell'amante e per raggiungerla nel Wakayñán. Ancora una volta, dunque, Taboada Terán mette il lettore di fronte ad una nuova ed eclatante scena di morte per amore.

La vicenda del Bigardo si inserisce come storia parallela a quella dei due amanti, ma acquisisce una sua fondamentale valenza proprio perché è un ulteriore esempio di eros legato alla morte, che raggiunge il suo culmine nella notte precedente all'esecuzione, quando il Bigardo esprime l'ultimo desiderio terreno, ovvero di giacere ancora con una india. Taboada Terán orchestra in questo punto un esemplare raccordo tra la vicenda dello spagnolo e quella di Antonio: la india che viene concessa al Bigardo ha le sembianze di María, facendo così intendere al lettore che quest'ultima altri non è se non la personificazione della morte.

Un altro parallelismo Antonio/Bigardo è costituito dalla condanna emanata dal Santo Uffizio. Come nota L. H. Antezana, il romanzo inizia con la sentenza promulgata nei confronti dello spagnolo e termina con la scomunica post mortem formulata contro l'indio "por convivir con el cadáver descompuesto de una mujer que en verdad era el demonio concupiscente". Il Bigardo è condannato all'impiccagione ed i cadaveri di Antonio e María a bruciare sul rogo:

Este indio taimado e hipócrita, infiltrado en la Iglesia para desacreditarla, aborto de los abismos, Satanás en carne mortal, no sólo merece la Excomunión post mortem sino la inmediata quema de sus restos en la pira funeraria [...]. Y también debe ir a la hoguera el cadáver insepulto y pútrido de la india. Se comunicaría después por bando a la población de la Villa que serían sancionadas por la Iglesia con el rigor de la Excomunión todas aquellas personas que recitaren o cantaren los versos y composiciones del terrible pecador. En especial el yaraví llamado Manchay Puytu.

Entrambi i giudizi emanati dal Tribunale del Santo Uffizio condannano l'amore e la sessualità spinti fino all'esagerazione, alla smoderatezza, all'eccesso.

In conclusione, il significato profondo del Manchay Puytu è da ricercarsi nello scontro tra la cultura cattolica spagnola e quella magica indigena, originando un sincretismo che trova la sua personificazione nella figura di Antonio, in cui la componente culturale autoctona alla fine prevale su quella cristiana. Il dramma incarnato dalla tragica storia d'amore è il frutto dell'incomprensione tra due mondi retti su valori e credenze totalmente diversi, dalla cui fusione nasce la cultura mestiza, che ancora oggi costituisce l'identità culturale boliviana e, in senso lato, dei paesi andini. Secondo quanto afferma Taboada Terán, questo contrasto è simboleggiato dai personaggi Ñauparruna, el Hombre Antiguo, coscienza storica del popolo indigeno, e il Bigardo, lo spagnolo conquistatore, che "come tesi ed antitesi" rappresentano rispettivamente il popolo indio e quello ispanico, dai quali nascerà come sintesi el Hombre Americano, di cui l'autore stesso si sente fortunata e vitale espressione.

La vicenda del Manchay Puytu costituisce però anche l'espressione dell'amore legato alla morte e lo yaraví è la melodia che simbolizza el culto del amor-dolor. Ciò risulta chiaro dalle parole che Ñauparruna rivolge ad Antonio poco prima di spingerlo al suicidio per raggiungere direttamente María: "Pues, hermano tatacura, ¿no comprendes que un pacto de amor no es más que un pacto de muerte?". In questo frangente il sacerdote comprende che

el amor es la más terrible y placentera forma de morir.

La breve analisi fin qui condotta, che tende a mettere in luce i numerosi ed eterogenei elementi che colorano il tessuto formale del romanzo, assume necessariamente un aspetto di frammentarietà. Ciò non deve tuttavia far dimenticare che è dall'armonica fusione di tutte queste peculiarità che si genera e sviluppa l'unitario e ricco complesso di un'opera straordinaria che può certamente annoverarsi fra le più significative ed originali della letteratura andina.


NOTE

  1. Néstor Taboada Terán, Manchay Puytu. El amor que quiso ocultar Dios, El Pájaro de Fuego, Cochabamba-La Paz, 1998, (5ª ed.). Le citazioni introdotte nel lavoro fanno riferimento a questa edizione.

  2. Diccionario Enciclopédico de las Letras de América Latina, Biblioteca Ayacucho - Monte Ávila Editores, Venezuela, 1995, p. 4610. Per ulteriori informazioni bio-bibliografiche sull'autore cfr. la voce Néstor Taboada Terán, a c. di K. Richards, in Verity Smith (ed.), Enciclopedia of Latin American Literature, London-Chicago, Fitzroy Dearborn Publishers, 1997, pp. 779-781.

  3. Néstor Taboada Terán, Die Liebe, die Gott nicht wollte, trad. di R. Klein, Berlin und Weimar, Aufbau-Verlag, 1989.

  4. Keith L. Richards, Lo imaginario mestizo. Aislamiento y dislocación de la visión de Bolivia de Néstor Taboada Terán, La Paz, Plural Editores, 1999.

  5. Cfr. Blanca Wiethüchter, La opera boliviana Manchay Puytu, in Néstor Taboada Terán (coord.), Oficio de Coraje, Cochabamba-La Paz, Los Amigos del Libro, 2000, pp. 84-86. La trascrizione del poema quechua realizzata da Jesús Lara è stata anche musicata in Argentina da Manuel Gómez Garrillo. Cfr. Vera Jarach, Manchay Puytu l'amore che volle occultare Dio, in "Letras Bolivianas" (Universidad Mayor de San Simón de Cochabamba), 11 (dicembre 1979), pp. 34-35.

  6. In altri romanzi boliviani il significato delle parole in quechua o in aymara viene rimandato, quando c'è, ad un glossario in appendice.

  7. Néstor Taboada Terán, Manchay Puytu. El amor que quiso ocultar Dios, p. 23.

  8. Ibidem, p. 24.

  9. Ibidem, p. 35.

  10. Ibidem, p. 32.

  11. Il testo è costituito da un preambolo e tre parti, o libri, suddivisi in capitoli. Ciascun libro porta un sottotitolo e, come è possibile notare, il quechua si delinea ancora come un elemento rilevante:

    Libro 1 - Ukhupacha: el mundo subterráneo
    Libro 2 - Aymarqay killa: el culto de los muertos
    Libro 3 - Wakayñán: el sendero del llanto

  12. Cfr. A. Paredes Candia, Las mejores tradiciones y leyendas de Bolivia, La Paz, Ed. Puerta del Sol, 1975, pp. 155-159.

  13. Jesús Lara, Leyendas quechuas, Buenos Aires, Librería Juventud, 1960, pp. 126 e segg. La versione peruviana è ripresa dalla raccolta di Ricardo Palma (cfr. R. Palma, Tradiciones Peruanas, ed. crit. di J. Ortega, España, Colección Archivos, CSIC, 1993, pp. 200-203). I nomi dei protagonisti della versione peruviana sono: don Gaspar de Angulo y Valdivieso e Anita Sielles. A proposito della versione boliviana, Lara specifica, riferendosi ai personaggi principali: cuyo nombre no recuerda la leyenda (cfr. J. Lara, Op. cit., p. 126 e 131). Nel romanzo di Taboada Terán i nomi sono dunque di invenzione dell'autore. La tesi è confermata dallo stesso Taboada, il quale, comunque, precisa esplicitamente che R. Palma non conosceva il quechua (¡Qué Dios le perdone!) e quindi utilizzò per la india un nome da gringa. A. Finzi, corrispondenza privata con l'autore (6 febbraio 2001).

  14. Voce Néstor Taboada Terán, a c. di K. Richards, in V. Smith (ed.), Op. cit., pp. 780-781. Cfr. anche V. Jarach, Op. cit., p. 34.

  15. Lo yaraví è un canto di tono malinconico.

  16. Secondo la versione di R. Palma, il Manchay Puytu contiene versos nacidos de una alma desesperada hasta la impiedad, versos que estremecen por los arrebatos de la pasión y que escandalizan por la desnudez de las imágenes [...]. La Iglesia fulminó excomunión mayor contra los que cantasen el Manchay-Puito o tocasen quena dentro de un cántaro. Cfr. R. Palma, Op. cit., p. 203 e J. Lara, Op. cit., p. 130.

  17. Bartolomé Arzáns de Orsúa y Vela, Historia de la Villa Imperial de Potosí, L. Hanke e G. Mendoza (eds.), Brown University Press, 1965, 2 voll. In ognuna delle tre parti in cui è suddiviso il romanzo di Taboada Terán viene introdotto un capitolo tratto dalla cronaca di Arzáns de Orsúa y Vela e questo conferisce un aspetto cadenzato alla struttura.

  18. I. Quiroga, alla voce Néstor Taboada Terán del Diccionario Enciclopédico de las Letras de América Latina, precisa che la Villa Imperial de Potosí era all'epoca uno de los destinos de España en América. Cfr. Op. cit., p. 4610.

  19. J. Lara, Op. cit., p. 131.

  20. Ibidem, p. 132.

  21. Cfr. ad esempio H. Condarco Antezana, El gran Yatiri, La Paz, 1986 e A. Balderrama Maldonado, Oro dormido: Choquecamata, Buenos Aires, Libros de Hispanoamérica, 1989.

  22. Néstor Taboada Terán, Manchay Puytu. El amor que quiso ocultar Dios, p. 60. Per Ukhupacha vedi nota 11.

  23. Ibidem, p. 61.

  24. Ibidem, p. 62.

  25. Ibidem, p. 208.

  26. Ibidem, pp. 62-63. Chullpa è la mummia disposta in cavità sotterranee o dentro appositi recipienti di terracotta, fasciata ed in posizione fetale. Urpilay significa "colomba mia". È opportuno notare che María è stata sepolta cristianamente, quindi in posizione orizzontale, ma Antonio, nel suo vaneggiamento, ricorre ancora al sincretismo religioso e descrive il cadavere di María come se fosse stato preparato per la cerimonia funebre secondo il culto indigeno.

  27. "Instrumento misterioso al que mi amigo el poeta Manuel Castillo llamaba:

    Flauta sublime de una voz extraña
    que llena el corazón de amarga pena"

  28. Cfr. R. Palma, Op. cit., p. 202.

  29. Cfr. Garcilaso de la Vega, The Royal Commentaries of the Inca, trad. di M. Jolas, Lima, Librerías ABC, 1986, p. 79.

  30. La costumbre de utilizar huesos es común en culturas andinas, por ejemplo en la Nazca, en que también se encuentran diversas flautas fabricadas con huesos de llama y aún con fémures humanos. Cfr. J. Diaz Gainza, Historia musical de Bolivia, La Paz, Ed. Puerta del Sol, 1988, p. 59.

  31. Néstor Taboada Terán, Manchay Puytu. El amor que quiso ocultar Dios, p. 179.

  32. J. Lara, Op.cit., pp. 135-136.

  33. Manchay significa, come sostantivo, susto, sobresalto, e come verbo temer, tener miedo (cfr. J. Lara, Diccionario Queshwa-Castellano, La Paz-Cochabamba, Ed. Los Amigos del Libro, 1991, p. 138). Puytu o Puitu o Puito, equivale a "rotonda, especie de ánfora de arcilla" (Ibidem, p. 169). In un altro caso, Lara riporta come significato di Puytu "aríbalo, pequeño cántaro de arcilla" (cfr. J. Lara, Leyendas quechuas, p. 150). R. Palma traduce invece Manchay-Puito con "infierno aterrador", senza alcuna corrispondenza semantica con l'originale (cfr. R. Palma, Op. cit., p. 202). Ciò è imputabile, come già accennato, al fatto che lo scrittore peruviano non conosceva il quechua.

  34. Néstor Taboada Terán, Manchay Puytu. El amor que quiso ocultar Dios, p. 217.

  35. Ibidem, p. 214.

  36. L. H. Antezana, Manchay Puytu de Néstor Taboada Terán, in L. H. Antezana, Ensayos y lecturas, La Paz, Ed. Altiplano, 1986, pp. 121-127.

  37. Per I. Quiroga la storia d'amore tra María e Antonio "simboliza el choque cultural entre la cosmovisión occidental y la del indígena andino". Cfr. Diccionario Enciclopédico de las Letras de América Latina, Op. cit., p. 4610.

  38. A. Finzi, corrispondenza privata con l'autore (6 febbraio 2001). Per ulteriori considerazioni sull'opposizione storica Ñauparruna/Bigardo si veda L. García Pabón, Deseo, muerte, historia en Manchay Puytu, in L. García Pabón (ed.), El paseo de los sentidos. Estudios de Literatura Boliviana Contemporánea, La Paz, Instituto Boliviano de Cultura, 1983, pp. 277-286.

  39. Néstor Taboada Terán, Manchay Puytu. El amor que quiso ocultar Dios, p. 219.

  40. Ibidem, p. 196.

  41. Ibidem, pp. 209-210.


Atti del Convegno Aispi, La penna di Venere, Scritture dell'amore nelle culture iberiche. Firenze, 14-17 marzo 2001