7. Linguaggio e
terrorismo
(Academicus, 16 aprile 2002)
Un
articolo di Peter Beinart, direttore di The New
Republic, "Word Play", dell'11 aprile 2002, induce qualche
riflessione sull'idea diffusa, o che si cerca di diffondere, di terrorismo. È
di nuovo il tema della
titolarità ad amministrare la violenza.
Sembra
infatti che la natura terroristica di un atto di violenza non
dipenda dalla qualità delle vittime, cioè i civili, ma piuttosto
dall'identità dell'agente della violenza. Se ad uccidere i civili
sono militari su ordine dei governi, come a Hiroshima, a Dresda, e
ora a
Jenin, non si tratta di terrorismo, ma di danni collaterali. Se
invece ad uccidere i civili sono individui o gruppi non governativi,
allora la parola terrorismo è appropriata, a prescindere dalle
cause.
La
parola guerra invece si riferisce ad un ampio sforzo militare,
condotto da nazioni nemiche ben identificate, con o senza
dichiarazione preventiva sull'inizio delle operazioni belliche.
Perciò quando gli Stati Uniti risposero all'attacco terroristico di
New York, ci fu incertezza se definire propriamente "guerra"
quell'intervento, poiché solo uno dei belligeranti era un agente
governativo. La questione si risolse linguisticamente
coniugando i due termini nell'espressione "guerra al
terrorismo".
L'espressione
ha avuto un inatteso successo e, da quel momento, è stata adottata e applicata in
tutto il mondo: i russi reclamano la loro guerra al terrorismo in
Cecenia, gli indiani la loro nel Kashmir, i filippini la loro a
Basilan Island, i cinesi la loro nella regione del Xianjing, lo Sri
Lanka reclama la sua guerra al terrorismo nelle regioni del nord
dominate dai Tamil, e naturalmente Israele in Palestina.
Questo
aggiustamento linguistico ha portato anche un aggiustamento della
politica estera americana. Gli Stati Uniti ora appoggiano la Russia,
mentre prima sostenevano i Ceceni, e i presidenti
americani non rifiutavano di incontrare i capi dell'IRA, nonstante
l'attività terroristica di quella organizzazione. Anche l'appoggio
a Israele è diventato più forte ed esplicito.
Rimane
tuttavia una differenza fondamentale tra queste guerre al terrorismo
e quella reclamata e condotta dagli Stati Uniti, e riguarda la
natura del nemico e le cause del terrorismo stesso che, cacciate
dalla porta della definizione linguistica, rientrano dalla finestra
geopolitica.
Si
tratta del fatto che, guerra o terrorismo che sia, gli scontri
localizzati in Cecenia, in Palestina, nel Kashmir o altrove, giusti
o senza giustificazione che siano, sono guerre di liberazione per la
costituzione locale di stati indipendenti. Quindi gli attuali
terroristi mirano ad ottenere un riconoscimento come entità
politiche dotate a loro volta di governi. Il che li rende atti ad
uscire dal terrorismo (secondo i termini della definizione data
all'inizio), e infatti si ritiene che questi conflitti siano
risolvibili politicamente, nonostante la fase terroristica in corso.
Quello
di cui sono stati vittime gli americani è invece un terrorismo
globale, con cause diverse, più confuse e difficili da maneggiare.
Perciò gli Stati Uniti si sono affrettati a trovare in Afganistan
una localizzazione. Ma sconfitto il terrorismo "afgano",
sembra evidente a tutti che quella localizzazione non era
sufficiente, proprio perché le cause di quello specifico terrorismo
non sono, come per gli altri terrorismi, la costituzione di uno
stato indipendente per una determinata popolazione. Questo induce
gli Stati Uniti a cercare sempre nuove località al terrorismo che
li riguarda, per esempio l'Iraq.
Purtroppo
nel frattempo lo sviluppo di una "guerra al terrorismo"
del tipo, per così dire ordinario, quella tra Israele e la
Palestina, inatteso, a quanto pare, solo per l'amministrazione Bush,
interferendo con la ricerca americana di sempre nuove localizzazioni
al terrorismo globale, ha suggerito un possibile legame tra i due
tipi.
Questo
legame sta nel diritto e nelle modalità di amministrazione della
violenza. Abbiamo visto che "linguisticamente" si entra o
si esce dal terrorismo a seconda che l'uso della violenza stessa sia
esercitato o meno da chi ne ha il diritto per riconoscimento
internazionale. Al Quaeda non è un agente della violenza
internazionalmente riconosciuto e quindi giustificato, ma ciò che
Al Quaeda esplicitamente e implicitamente chiede sono due cose.
Esplicitamente e lucidamente chiede la messa in questione degli
Stati Uniti come unico agente autoinvestitosi del potere di
giustificare l'uso della violenza. Implicitamente e confusamente
chiede la deterritorializzazione dei diritti e dei doveri
internazionali: di fatto le risoluzioni dell'Onu si applicano in
Iraq e nel Kossovo, ma non si applicano in Israele.
Questo
legame non sta solo nelle cause da realizzare, cioè nelle pretese
più o meno realistiche o utopiche delle richieste dei terroristi,
bensì è anche più semplicemente una necessità concreta: è la
condizione di mancanza di alternative che, quale che sia il suo
fine, il terrorista ha davanti. Al carattere "empio" del
gesto terroristico che uccide gli "innocenti", si aggiunge
ora il carattere scandaloso del martire terrorista, che uccide anche
se stesso. Tale scandalo sta nell'assolutezza del suo gesto suicida.
Scambiata per fondamentalismo religioso, è invece un'assolutezza
procurata dalla prospettiva di non avere altre prospettive.
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