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Dignità e celebrità. (Leonardo Terzo, 20 febbraio 2003)
Nel
1926 Virginia Woolf scriveva che, quando si passa dalla letteratura al
cinema, i vecchi simboli fatti di parole non servono più, e occorre
inventarne altri, fatti di luci e di ombre.
La teoria dei media oggi ci
insegna che ogni nuovo mezzo di comunicazione ci costringe a riformulare
la nostra apprensione del mondo, attraverso un processo di "ri-mediazione".
Un recente libro del sociologo americano Richard Sennett (Respect: The Formation
of Character in an Age of Inequality, Allen Lane/Penguin, 288 pp.) ci suggerisce che anche i
valori, come per esempio la rispettabilità e la dignità della persona
umana, sono soggetti al mutamento dei mezzi con cui vengono
presentati, per esempio al pubblico televisivo.
Se, come sembra, uno dei valori contemporanei è la
democrazia del quarto d'ora di celebrità per tutti, coloro che vi
aspirano sono disposti a sacrificare ogni residuo della vecchia dignità
in cambio di cinque secondi di apparizione in video.
Dal punto di vista
retrogrado di chi rimane attaccato alla vecchia rispettabilità, la
celebrità appare perciò un male incurabile. Essa non si può prevenire,
e avvilisce qualsiasi persona si trovi più o meno improvvisamente
a farne l'esperienza, come dimostrano questi esempi tratti dalla cronaca.
Un giovane calciatore non ancora noto rivela ad un certo punto un suo
esaltante stile di gioco, fatto di raffinato tocco di palla, combattività,
intuizione tattica, insomma una quantità
di tratti ammirevoli che, per efficacia pratica e bellezza specifica,
conferiscono dignità alla sua personalità di campione.
Ed ecco che,
appena conquistata la ribalta dell'attenzione pubblica, viene trascinato
in televisione dove la celebrità raggiunta lo costringe ad entrare in un
programma, in un format, in uno schermo. Qui ora egli appare inevitabilmente goffo, sommamente ridicolo,
abbigliato alla moda così da sembrare un villano vestito a festa, incerto nell'espressione
verbale, un pesce fuor d'acqua costretto a perdere dignità e
rispettabilità umana per effetto della celebrità.
Ma questo non è solo il destino dell'ingenuo calciatore. Anche
l'intellettuale, capace di interessanti riflessioni su riviste e
pubblicazioni a stampa, è costretto a sintetizzare in slogan riduttivi un
pensiero sottile su una situazione complessa, così che ora, intervistato
sull'ultimo caso d'attualità, appare povero di pensiero, privo di
originalità, vanitoso e per lo più incomprensibile.
C'è poi l'uomo medio di buon senso, a prescindere dalla sua professione,
che, capendo al volo ciò che si vuole da lui, si presta convenientemente
alla metamorfosi teratologica, e diventa arrogante e offensivo con
qualunque interlocutore cerchi di contendergli i pochi secondi che l'occasione di un talk show mette a disposizione dei presenti.
C'è il professore che, non abituato a sentirsi apostrofare con
aggressività, passa alle vie di fatto, passando così (suppongono gli
ingenui) dalla parte del torto, che invece in televisione è la parte
della ragione, perché diventa immediatamente più celebre degli altri, e
di conseguenza è chiamato a deplorare quel momento di trascendimento
manesco in
nuove interviste, dove si spera peraltro che la scena feroce si ripeta.
Il passaggio dal privato al pubblico implica sempre il rischio di un
abbassamento di stile, di una perdita di dignità, perciò coloro che
operano sulla scena pubblica per mestiere elaborano appositi atteggiamenti
per neutralizzare la visibilità del degrado etico, la percezione del
venir meno della rispettabilità.
Le cariche pubbliche di solito scelgono fra la demagogia aggressiva,
quando sono ancora in lotta per mantenere la posizione, e la solennità
della retorica ufficializzata, quando la carica è al di sopra di ogni
rischio di deperibilità o non è più rinnovabile.
Gli attori, tipiche figure celebri, sono protetti dai ruoli che
recitano, e hanno il problema inverso, cioè come presentarsi quando sono
costretti ad essere solo se stessi. Alcuni hanno provveduto in tempo a
inventarsi una personalità fittizia, da recitare come ogni altro
personaggio, altri perdono inevitabilmente un po' dell'aura carismatica
che gli ammiratori hanno proiettato su di loro.
Ma,
come si è detto, è solo questione di "ri-mediazione", è solo
questione di fare l'abitudine al nuovo tipo di rispettabilità,
conquistabile a furia di urla e gomitate, metaforiche e no, ai concorrenti
presenti.
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