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7. L'arte che si mangia
(Leonardo Terzo, 28 novembre 2001)  


Il linguaggio e i segni sono sempre un distanziamento dalla realtà dell'esperienza. Ma, staccandosene, il linguaggio reintegra poi la realtà nella comunicazione, per ridiventare esperienza condivisa e personale. Così funziona la cultura. 

In questo processo di distacco e ritorno tra cultura e materia, l'arte ha sempre tentato di cogliere un'essenza capace di trascendere l'effimero e il fenomenico, evidenziando il momento di uscita dal tempo reale e di immissione nel tempo inventato e metaforico detto "eternizzazione", senza preoccuparsi (nonostante il realismo) di un immediato reimpiego del suo linguaggio nell'esperienza, bensì fidando nella capacità di influire più a fondo e subliminalmente attraverso un affinamento "per exempla" della sensibilità e dell'intelletto.

Più recentemente invece l'arte contemporanea ha esplorato anche un sempre maggiore assottigliamento della distanza tra sè e la realtà, qualsiasi cosa "realtà" volesse significare. Ciò è avvenuto tramite importazione diretta degli oggetti dentro la cornice materiale o ideale dell'artisticità, oppure, dando preminenza alla dimensione performativa su quella rappresentativa, o ancora operando su materiali deperibili: maionese, miele, insalata. 

Poiché in arte nulla è casuale, oppure anche il caso è una scelta, si può intravvedere una poetica. Essa consiste nell'irresistibile confluire in un sentimento di partecipazione alla precarietà e fluidità della vita contemporanea, dove la percezione e il senso del presente ci colgono quando esso è già avvenuto e inutilizzabile.

Talvolta la performance artistica consiste nel cucinare e poi mangiare o dar da mangiare il tutto agli spettatori, come fanno artisti quali Janine Antoni o Rikrit Tiravanija. Così arriviamo alla "Eat Art" ("arte da mangiare" o "mangia l'arte"?), di Sonija Alhäuser, ora in mostra, (insieme a Joseph Beuys e a Dieter Roth), al Busch-Reisinger Museum, Harvard University Art Museum. 

Le sue opere di materia commestibile: cioccolato, marzapane, o altro, trovano compimento quando vengono mangiate dai fruitori. Tra gastronomia, cannibalismo ed eucarestia, emergono tutte le connotazioni e l'intertestualità che tali concetti sono in grado di accumulare. 

Dunque, mentre le mele di Cezanne si "gustano" con un senso estetico che, strumentalizzando la vista, trascende i sensi materiali, le forme e le figure di cioccolata di Alhäuser si gustano effettivamente col palato e lo stomaco, sterilizzando il più possibile la dimensione simbolica della metafora evangelica: "Io sono il pane della vita".

Qualcuno, come Miles Unger sul New York Times del 26 novembre 2001, vi legge la satira della pretesa alla durata, equivalente moderno dell'iconologia religiosa secentesca, fatta di candele in esaurimento, scheletri della passata bellezza e altre immagini allusive alla transitorietà degli appetiti terreni rispetto all'eternità dell'anima. 

Ma l'effetto più evidente, a mio parere, è invece l'abolizione tendenziale della distanza necessaria alla semiosi, una svogliatezza ad uscire dalla ferinità per entrare nella significazione, una contrazione dell'universo comunicativo che ha esaurito e invertito l'impulso ad espandersi e ripiega ormai verso il "buco nero" d'un'imminente viscerale invisibilità.

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