1. Aura
L’era della riproducibilità
tecnica, come sappiamo, toglie l’aura all’opera d’arte,
trasferendola piuttosto su oggetti di culto, dotati di un feticismo
tribale: la moto, gli occhiali, la tintura dei
capelli.
Ma un diverso tipo di aura, non più derivante
dal logo, bensì da un'autentica originalità materiale e storica,
viene alla ribalta, quando Stefan Sagmeister, famoso graphic
designer americano (ha fatto le copertine per i Rolling Stones),
propone di utilizzare l'acciaio delle macerie delle Twin Towers per
fare dei distintivi (pin) con l'incisione di un cuore e la scritta:
“Heart (Unbreakable)”.
Altri commentano che, in tempi di confusione, è
importante costruire immagini di chiarezza e di semplicità, e in
effetti l’idea di Sagmeister sembra semplificare, o tagliare come un
nodo gordiano, tutta la complessa elaborazione semiotica che
presiede al mistero del successo, sia dei prodotti dell’arte, sia
dei prodotti di culto delle mode consumistiche.
Questa semplificazione consiste nel ritorno
all’autenticità storica, in questo caso quella del pezzo d’acciaio
delle torri, così come è già accaduto per esempio con i pezzi di
macerie del Muro di Berlino.
D’altra parte, questo tipo di “successo”,
l’esperienza insegna, non ha uno sbocco commerciale rilevante, forse
per la limitatezza dei pezzi a disposizione, ma soprattutto perché
l’affettività prevale rispetto al profitto, e questo fa sì che la
ricerca dei pezzi sia di breve durata.
Né si può escludere addirittura che non venga
considerato accettabile farne mercato, e quindi non si sappia come
"collocare" con profitto qualcosa che non è soggetto al normale
rapporto tra domanda e offerta.
Nel caso del muro, il valore del pezzo
materiale non dipendeva solo dal fatto di essere autentico, ma dal
fatto di essere prova e pegno di una partecipazione reale e
personale allo smantellamento del muro stesso nel 1989, per poter
dire con orgoglio: io c’ero.
In questo caso purtroppo l'orgoglio è fuori
luogo, o per lo meno si proietta nel futuro, come volontà di
reagire, di cui l'esibizione del distintivo sarebbe un'anticipazione
che occupa un tempo intermedio rispetto all'esibizione immediata
delle bandiere.
Neanche le zolle di campo vendute dopo lo
smantellamento di famosi impianti sportivi o dopo l’esecuzione di
finali di campionati del mondo di calcio ha funzionato
commercialmente. Lungi dall'essere un altro segno del venir meno del
senso storico, è forse la prova che gli interessi di massa, come i
prodotti dell’arte di massa, hanno una validità limitata nel
tempo.
E questo proprio perché sono radicati
nell’attualità e non in quella eternizzazione a cui invece l’arte
d’élite aspira, appunto sottraendosi a connessioni
cronologiche specifiche, con quell’elaborazione che l’idealismo
chiamava intuizione estetica, e la semiotica proiezione dell’asse
paradigmatico sull’asse sintagmatico, che è solo un modo più
sofisticato di coniugare forma e contenuto, sensibile e
intelligibile.
2. Lutto
In questo "pin" ora abbiamo solo un legame
affettivo, un pezzo di qualcosa che inoltre, a differenza del Muro,
costruito dagli altri (them!) e distrutto idealmente da tutti noi
nella gioia e nel furore, era nostro ed è stato distrutto da "loro".
È dunque un residuo di un mondo perduto nel dolore e nel rimpianto,
che si conserva anche per ciò che non è più.
La trasformazione in segno di resistenza
(unbreakable) è quindi un grado di elaborazione che forse supplisce
ad ogni altra trasfigurazione simbolica. Questa funzione è
accresciuta dalla portabilità, vale a dire dalla sua natura di
"divisa", come un cuore, esteriorizzato in materia, di qualità e
forza indistruttibile.
Ciò che è stato distrutto è la vita di un
grande numero di persone, ma questo distintivo vuole affermare che
ciò che non muore è una forma di vita, un modello, che si rinnova
nel cuore degli americani come vitalità dei valori.
E poiché il distintivo è anche un monumento
commemorativo personale, (personal memorial), è anche una mediazione
fra affettività personale ed elaborazione del lutto, che è sempre
una "messa in pubblico" della perdita, per non esserne davvero
sconfitti.
3. Design
Le cose materiali hanno sempre una forma, e la
loro fonte di simbolicità dipende anche da essa, ovvero è
percepibile in essa anche quando è prodotta sostanzialmente dal suo
contenuto di significato o dal suo contesto.
Così inteso il design, che inventa la forma
delle cose, diventa mezzo di comunicazione universale come la
lingua: ha il compito di dare forma a tutto, di spiegare all’utente
l’uso dell’oggetto, e magari di rendere gradevole l’ambiente. Per
questo, il design, che condivide caratteri dell’arte e
dell’industria, prima dell’arte pura sarà forse capace di indicare
le conseguenze formali di un fatto materiale che si è abbattuto
traumaticamente sull'emotività e sull'economia del mondo
globalizzato.
4. Web-design
Dal punto di vista del designer tutto il mondo
ruota narcisisticamente intorno al suo lavoro e alla sua
funzione. Quando questa funzione si estende all’informazione stessa,
essa passa dalla forma dell’oggetto alla forma del messaggio
linguistico, superando la distinzione tra immagine e
parola.
Questo avviene, in modo più evidente che
altrove, nel lavoro del web-designer. Egli infatti organizza, nel
sito, il rapporto tra immagine, o strutturazione dello spazio dello
schermo, e posizionamento dei caratteri scritti. La posizione delle
parole diventa immagine, come è in nuce nella poesia. Inoltre la
disposizione spaziale è anche una disposizione gerarchica, in
rapporto alle finalità della comunicazione, e quindi il designer,
come un retore, mette la sua abilità a disposizione di tutti i
compiti informativi, che inevitabilmente finiscono in rivoli della
politica.
In ogni modo, dopo l'11 settembre 2001, si
coglie, anche negli artisti, il bisogno di sentirsi utili e di
contribuire ad alleviare o risolvere la precarietà della situazione
in atto. In generale, per far ciò si prendono due vie: si ripetono
banalità sull’universalità salvifica del design (come i modernisti
facevano a proposito dell’arte), fino ad alludere spregiativamente
ad una società dei consumi di cui improvvisamente il designer non si
sente più parte; oppure si offre la disponibilità a cambiare, per
andare incontro all’incertezza del futuro, di fronte al quale però
non si sa come operare.
In entrambi i casi l’afflato partecipativo alla
vita della comunità si manifesta nel tentativo di inserire concetti
di tipo umanistico in un contesto tecnico-industriale finora
dominato solo da un intento pratico e funzionale. Ciò provoca un
salto di qualità deontologico.
La spettacolarità del terrorismo, infatti, ha
esibito un carico simbolico, che ha sopraffatto temporaneamente
tutte le invenzioni degli artisti e dei designer. Questi ultimi
cercano ora di contrastarla rivelando le tecniche del simbolismo
stesso. E, "à la guerre comme à la guerre", combattono contro un
simbolo nemico, divulgando le tecniche della configurazione e della
formazione del simbolo.
Poiché l'avversario ha messo a segno un colpo
sensazionale, lo si vuol combattere cercando di svelarne i trucchi.
È come svelare i trucchi del prestigiatore perché questi sta
usando la sua magia per
nuocere. Non è comunque un’infrazione alla deontologia della
prestidigitazione? |