4.
L’avventura Questa
disposizione ad errare senza meta è ciò che ricade dal romanzo cavalleresco su
tutti i generi permeati d’avventura. L'avventura potrebbe essere considerata
a buon diritto un genere formulaico in sé, e invece non si
cristallizza in modo specifico: mentre a livello
alto costituisce parte integrante del romance, e tra gli autori di avventure
si annoverano Walter Scott, Stevenson, Dumas, Kipling, Fenimore Cooper,
Giulio Verne, a livello basso si
diffonde tra gli altri generi, oppure rimane un'area indefinita in cui
ricadono da un lato tutte quelle storie che, se avessero avuto successo e una
conseguente successiva serializzazione, si sarebbero potute individuare come
generi formulaici autonomi, dall'altro tutte le storie passate di moda, come
le storie di pirati, i film di
cappa e spada, i film mitologici che ebbero fortuna in Italia tra la fine
degli Anni Cinquanta e la prima metà degli Anni Sessanta. Attualmente
l'avventura come genere a sé rinasce, con la serie dei film di Indiana Jones e dei suoi imitatori, mentre Batman, sebbene
anch'esso avventuroso, fa parte di un altro filone, che potremmo definire del
mascheramento, che inizia con Zorro come trattamento
avventuroso del tema del doppio, e confina con l'orrore attraverso Dracula e
i vampiri. Tra gli eroi mascherati, oltre a Batman abbiamo Superman, l'Uomo ragno, Capitan America e altri, attivi
soprattutto nei fumetti. Sebbene dotati di una doppia vita, la loro
apparizione tende a fissarsi sul momento mascherato, e il loro costume
spettacolare (mentre dimostra la ricerca di un pubblico prevalentemente
adolescenziale) è la divisa del desiderio di romance all'interno del
mondo borghese, quello appunto vestito con abiti borghesi. L'avventura
ha un suo specifico ambiente, che è il territorio in qualche misura ignoto,
dove l'eroe s’inoltra sapendo che vi si celano ostacoli e pericoli. Anche in
questo senso l'avventura si rivela mito dell'eroe giovane, cioè la storia
tipica in cui si raffigura il mondo come appare al giovane che si affaccia
alla vita: un territorio che egli non conosce, ma che è ben deciso a
conquistare. L'avventura è quindi il prodotto della disposizione
all'intrapresa dell'eroe, e del lettore, nella sua fase giovanile, e rimane
così il modello di vita di chi non vuole, o non sa, invecchiare, come accade
ai personaggi dei fumetti e delle serie di telefilm; e rimane il modello di
chi vuole rimanere il più a lungo possibile nella dimensione delle fantasie
giovanili. Questa
disposizione è implicitamente esaltata nelle imprese cavalleresche, ma è
raffigurata già come pericolosa illusione in quella mise en abyme di tutto
il romanzo cavalleresco che è, nell'Orlando furioso, l'episodio
in cui Ruggero rimane nel castello incantato di Alcina, prigioniero di
un'illusione di eterna primavera. Del
resto sappiamo che quando Conan Doyle fece morire Sherlock Holmes incontrò la
forte reazione dei lettori, che lo costrinsero a farne continuare le
avventure.
Questo succede ancora nelle serie televisive, dove far morire un personaggio
costituisce sempre un problema, e spesso occorre farlo risuscitare perché il
pubblico lo esige. I
detrattori dei generi formulaici sostengono che la ripetitività di queste
storie blocca nella staticità ideologica del romance l'evolversi
della coscienza dei lettori e degli spettatori. Invece i difensori del romance sostengono che il
distanziamento della realtà immediata, operata dal romance, è
solo un modo per esercitarsi a elaborare soluzioni simulate di problemi
reali. Ma se tale risposta può valere in linea generale per la narrativa come finzione, l’accusa specifica che si muove ai generi formulaici è che essi permettono al lettore solo innumerevoli variazioni all'interno di un significato generico predeterminato, per evadere da ogni problematicità formale e tematica, che viene demandata invece alla letteratura d’avanguardia. In seguito alla divisione cui prima si accennava, tra letteratura alta e letteratura di consumo, la produzione popolare rappresentata dai generi formulaici non sarebbe più il prodotto di un’elaborazione autonoma delle forze creative della comunità, ma il prodotto dell’industria culturale, e non avrebbe più la sua ragion d’essere in se stessa, cioè nella cultura, ma fuori di sé nel profitto economico. Il mercato, che in un primo tempo libera l’artista dal legame condizionante del mecenatismo aristocratico, muta la logica del lavoro artistico, e pone il fine dell’arte fuori dalla cultura, nel profitto, mentre lascerebbe alle avanguardie il privilegio e l’onere dell’originalità, perché lo sperimentalismo non produce profitto, e talvolta se ne vanta.
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