In ritardo/Late on the Event-Scene
Nell'universo senza memoria
dell'accelerazione mediatica,
arrivare in ritardo sull'attualità è
l'ultimo modo per ricordare
31. Intellettuali, artisti, cittadini. (T.T.Waring, 13 maggio 2002) La romanziera
indiana Arundhati Roy pubblica in volume due raccolte di saggi politici:
Power Politics (South End Press, 132 pp.) e The Algebra of
Infinite Justice (Penguin Books India, 299 pp.)
L'autrice è molto critica sulla politica estera americana e sugli effetti della globalizzazione, ma al di là delle questioni di merito, i commentatori inglesi e americani assumono due atteggiamenti che ripropongono il tema dell'impegno politico degli intellettuali. Mentre sembrano accettare l'uso della fama letteraria come strumento pubblicitario, per attirare l'attenzione di un più vasto pubblico su specifiche questioni politiche, rimproverano all'autrice l'uso di strumenti propriamente letterari, per affrontare argomenti che, a loro parere, esigerebbero invece un trattamento più specificamente professionale. Questa critica è
effetto dell'annoso pregiudizio sul diritto degli intellettuali a
immischiarsi di cose pratiche. È possibile,
anzi è ovvio e necessario, che la Roy proponga idee non condivisibili da
tutti, o soluzioni insufficienti ai problemi affrontati, tuttavia ciò che
ora interessa è il modo in cui l'intervento politico del cosiddetto
intellettuale viene considerato. Occorre ricordare che questo tipo di problemi ha acquisito un senso solo da quando l'intellettuale si è "specializzato", riducendo drasticamente il suo ambito di competenza o ad un'arte o ad una particolare disciplina umanistica (filosofia, sociologia, psicologia, economia, giurisprudenza, ecc.) o scienza naturale (fisica, medicina, biologia, ecc). Secondo alcuni
storici della cultura questa riduzione inizia verso la metà dell'800,
quando le classi medie, portata a termine la loro rivoluzione economica e
culturale, non hanno più bisogno degli intellettuali, (fino ad allora
senza distinzioni di competenze scientifiche o umanistiche), come
portavoci dell'ideologia borghese.
Gli intellettuali a quel punto si rendono conto del proprio isolamento sociale, ed elaborano una loro identità come ceto autonomo: o come artisti dediti solo alla loro arte (la "bohème", l'art pour l'art, il cosmopolitismo delle avanguardie) o come critici idealisticamente indipendenti, ma privi di potere reale. Gli scienziati,
a loro volta, sono già sospinti nello specialismo, cieco alle
considerazioni generali, dall'articolarsi sempre più frammentato delle
loro ricerche, mentre le competenze tecniche perdono una funzione
propriamente intellettuale per scadere ad impiego "proletarizzato" nella
cosiddetta industria culturale (vedi già New Grub Street di George
Gissing del 1892). I tentativi
degli intellettuali di trovare nuovi compiti come ideologi di complemento
della classe operaia (vedi i surrealisti nel partito comunista in Francia)
si rivelano presto impraticabili, per il distacco tra la sofisticatezza
delle poetiche moderniste e i bisogni reali delle masse.
La loro funzione
viene invece riduttivamente recuperata dalla politica nel Novecento, in
una posizione paragonabile a ciò che in pubblicità si definisce
"testimonial". Lo scrittore, l'artista o lo scienziato, celebre nel suo
campo, testimonia il suo appoggio ad una causa o ad un partito, come oggi
si fa con un prodotto commerciale, ma non deve, né può impiegare le sue
competenze intellettuali specifiche nell'attività politica stessa, dove
l'unica competenza richiesta è quella, generalista e professionale ad un
tempo, acquisita nella trafila burocratica delle organizzazioni
partitiche. Questa è infatti
la prima accusa ad Arundhati Ray dei recensori del giornalismo politico
anglo-americano. Essi riconoscono, accettano, si congratulano persino, per
l'efficacia della sua funzione di "testimonial" nell'attirare l'attenzione
del mondo sui danni ecologici che provocherebbero le dighe che si progetta
di costruire in India, ma rifiutano di prendere sul serio la scrittrice
quando si solleva dai problemi contingenti, e strettamente indiani, per
sconfinare in considerazioni di natura economica e
politica su scala mondiale. L'incompetenza
imputata attiene sia al tentativo di trascendere il proprio settore
specialistico, in senso geografico e tecnico, per recuperare una visione
generale dei problemi, sia, al contrario, perché trasporta nell'analisi
politca gli strumenti delle sue competenze settoriali, propriamente
letterarie. Le si rimprovera così di usare un linguaggio che ricorre a
figure retoriche. Con effetti "irritanti": per esempio la sineddoche
(parte per il tutto) "Mickey Mouse" per indicare la cultura americana in
generale. O le iperboli, ma cosa c'è di più adatto dell'amplificazione per
attirare l'attenzione degli interlocutori? E in generale le si imputa
un'enfasi passionale che, non si capisce perché, viene ritenuta incongrua
all'analisi politica. Invece Roy capovolge quest'argomento, sostenendo che proprio l'artista è talvolta capace di quella "visione" che i politici non sono in grado di avere. Anzi lo scrittore sarebbe più adatto a tradurre problemi complessi, e come tali apparentemente insolubili, o incomprensibili alla gente comune, in questioni alla portata di un'opinione pubblica più estesa e democratica, con una discorsività incisiva che non si riduca alla sloganistica pubblicitaria. Per esempio come
si fa a spiegare le origini e gli effetti del fallimento Enron, se si
rimane chiusi nella prospettiva di semplici imbrogli societari, e non si
discute il fatto che le logiche del profitto non si fermano di fronte al
sacrificio, non solo economico, ma addirittura fisico, di decine di
migliaia di vittime, come proprio gli indiani hanno sperimentato sulla
loro pelle con i disastri provocati dalla Enron stessa e dalla Union
Carbide. Si accetta a denti stretti che un intellettuale sia un comune cittadino, e quindi come tutti abbia diritto di esprimere una posizione politica. Ma sembra invece inaccettabile, non solo che i cittadini discutano di politica sottraendone l'esclusività agli esperti, ma, come è accaduto del resto anche in Italia con Nanni Moretti, che gli intellettuali invadano il campo dei politici di professione. Si sottende che
i cittadini sarebbero incompetenti, ma l'avversione maggiore riguarda
l'applicazione di strumenti d'analisi "impropri", è cioè il rifiuto di
quella strategia, più o meno consapevolmente interdisciplinare, fondata
sulla contaminazione epistemica, che è ormai luogo comune negli studi
culturali contemporanei. Vi sono poi aspetti peculiari della polemica, non generalizzabili. Con atteggiamento pregiudiziale, le etichette sostituiscono le ragioni: per esempio si usa come argomento squalificante l'influenza sulla Roy delle idee di una cosiddetta "sinistra britannica", senza discuterle in quanto idee. La London School of Economics viene bollata come marxista, e questo basta per eliminarla dalla considerazione. Si deplorano infine: "the intellectual roots of anti-Americanism", accusa che rivela il tradizionale anti-intellettualismo, che è componente non minore della cultura americana. Al contrario, e prescindendo ora dal caso di Arundhati Roy, la cultura europea si esercita in direzione opposta: si accanisce nella ricerca di presunte radici teoriche e intellettualistiche per ogni fenomeno emergente sulla scena politica contingente. È il caso dell'affermazione elettorale di Le Pen in Francia, che scatena la discussione sulle "basi ideologiche" della nuova destra europea, con un frettoloso affannarsi a porre etichette e a trovare "maestri di pensiero" di tutti i tipi: antigiacobinismo, neopaganesimo, bonapartismo, nazionalpopulismo. Quando forse le motivazioni dell'affermarsi della demagogia stanno proprio nell'incapacità della razionalità sociale di percepire i disagi elementari del cittadino comune. |