LEONARDO TERZO

INTROSPEZIONE PURITANA E VOYEURISMO CRITICO NEL "WAKEFIELD" DI NATHANIEL HAWTHORNE

"Wakefield" è certamente fra i racconti più famosi di Hawthorne. Fra le ragioni di questa fama è anche il fatto che esso offre un'esca, per così dire, metodologica all'interesse dei critici impegnati a decifrare il segreto della creatività così affascinante di un autore che appare sovente egli stesso intento a riflettere sulla natura della propria attività creatrice, in termini che di volta in volta sembrano rispecchiare una concezione ora meccanica, ora organica, ora platonico-idealistica del lavoro dell'artista.


Una peculiarità di questo racconto che infatti attira immediatamente l'attenzione del critico è che la vicenda del protagonista viene narrata tre volte, dapprima  “abstractedly stated”[i] come fatto di cronaca, poi sempre più dettagliatamente, come in una serie di cerchi concentrici che si allargano in proporzione geometrica. Le tre versioni stanno fra loro in un rapporto almeno in parte assimilabile a quello che la narratologia istituisce fra story, plot e discourse,[ii] e questa è la ragione tecnica per cui "Wakefield" è stato considerato esemplare dalla critica per illustrare il metodo compositivo di Hawthorne[iii], e infatti il rapporto fra aneddoto cronachistico con pretese di verità storica e la sua rielaborazione fictional da parte dell'autore è apertamente discusso dal narratore stesso all'interno del racconto.


Questo modo di procedere, sebbene appaia affascinante al critico moderno, o meglio ancora modernista, ha spesso invece suscitato reazioni negative, a partire da quella di Emerson, che paragonava Hawthorne all'ormai proverbiale pasticciere che, invece di dare al cliente la torta già fatta, gli dice: facciamola insieme. Un residuo di tale atteggiamento negativo è ancora presente sotto altra forma in quei giudizi che degradano "Wakefield" da racconto a sketch, e in genere in tutte le discussioni sulla sua classificazione in termini di genere letterario indecise fra tale, sketch, fable, illustrated  idea, ecc., dove comunque si allude a un'incompiutezza o a un'insoddisfacente eterogeneità formale.[iv] Una spia di questo atteggiamento è la tendenza a cadere nel tranello, del resto ben teso, di identificare il narratore con l'autore, e quindi di sottovalutare la cornice della storia, come se non fosse anch'essa fiction, come se non fosse a sua volta elemento di una trama narrativa più ampia, dove la storia interna, che ha come protagonista Wakefield, acquista significato e rilievo solo in confronto e complementarmente all'atteggiamento e diciamo pure all'azione, anch'essi genuinamente fictional del narratore, che infatti non è narratore onnisciente, bensì agisce piuttosto in funzione di histor, cioè di colui che, come lo storico, cerca di chiarire le circostanze più plausibili di un evento, discriminando fra gli elementi a disposizione e fra le possibili versioni e interpretazioni di esso.


Il narratore non va quindi identificato con Hawthorne, né in quanto persona storica e nemmeno come implied author, poiché, rispetto all'opera, l'autore è anch'egli un osservatore esterno, collocabile quindi in una posizione più vicina a quella del lettore. E questa struttura più ampia non è nemmeno soltanto, come pure è stato giustamente detto[v], il racconto di come si scrive un racconto, ma anche la storia di un conflitto fra i personaggi, fra i quali va incluso il narratore, che, pur operanti su piani diversi di realtà, essendo ciascuno la creazione immaginativa del rispettivo osservatore e interprete, come vedremo si disporranno alla fine, nella visione onnicomprensiva del lettore, come sequenza di posizioni di una realtà ideologica in evoluzione.


Ciò che abbiamo chiamato story, ma è più preciso definire modello narrativo -come del resto l'espressione “abstractedly stated”, già citata, mirabilmente suggerisce - è esposto immediatamente nel primo periodo del racconto, nella proposizione: “a man who absented himself for a long time from his wife”[vi]; ma nello stesso paragrafo questo modello viene subito ampliato in una seconda versione, e vengono indicate le differenze essenziali fra queste due ricostruzioni sintetiche della vicenda: dal modello narrativo si giunge al plot mediante un elemento trasformativo che consiste in “a proper distinction of circumstances”, e ciò che nell'esposizione astratta del modello è “not very uncommon” può diventare allora nelle versioni successive qualcosa “to be condemned... as naughty or nonsensical” (p. 80).

 

Come si vede, secondo il narratore il chiarimento delle circostanze che permette il passaggio dalla fabula all'intreccio già anticipa anche la formulazione di quel giudizio etico che anima la pretesa morale che il narratore promette di dare “neatly and condensed”, bell'e pronta e condensata, nell'ultimo periodo del suo racconto. La morale della favola da lui proposta, come si sa, è una morale punitiva e conformistica: è un avvertimento minaccioso a non abbandonare il proprio ruolo sociale, il proprio posto nel mondo, e impone agli avvenimenti un'interpretazione che si può definire e riassumere nello schema del cacciatore cacciato, o dell’“arroseur arrosé”, per usare un titolo archetipico.


Ma come si perviene a questa morale? E perché si rende necessaria la terza e definitiva versione della storia? Da un lato i limiti stessi dello schema narrativo impongono che per acquisire profondità e spessore la vicenda sia specificata in tutti i suoi dettagli, che il lettore può percepire soltanto nella fruizione completa del discorso. La stessa morale conclusiva ad esempio si arricchirà allora di significato, concretizzandosi in quella teoria dell'ordine universale, rigidamente organizzato in sistema di sistemi, perfettamente combacianti e interconnessi, che estende a meccanismo metafisico il modello socio-culturale della famiglia.


Ma la causa, per così dire, efficiente del racconto è una ricerca di verità, perché ciò che si presenta come tale sul giornale resta in realtà opaco alla comprensione. Wakefield si confina nel suo esilio volontario senza l'ombra di una ragione: “without a shadow of a reason for such self-banishment”. Ecco allora che l'invenzione e la finzione soccorrono a integrare il documento storico, in quella funzione che Fink ha chiamato “testimone dell'immaginario”[vii], e che per Hawthorne è passione meditativa, con quali risultati chiarificatori tuttavia in questo caso non è facile dire, perché proprio qui si vede come per Hawthorne l'interesse tipicamente romantico per ciò che è strano e oscuro non può autodistruggersi nella razionalizzazione, né sa autoesaltarsi nella self- reliance trascendentalista, perciò la passione meditativa, mentre reagisce come un sismografo sensibile a quegli impulsi che sommuovono le profondità del cuore umano, ne interpreta la traccia con l'atavica diffidenza dei puritani per la natura umana, che nel caso specifico si manifesta in spietata derisione della convulsa e confusa ribellione di Wakefield.


Di fronte alla notizia di cronaca l'animo del narratore è infatti diviso fra simpatia e condanna: un cauto scetticismo trapela nell'enunciazione della pretesa veridicità del fatto che viene riferito come vero, “told as truth” (p. 80); successivamente invece si convince che la storia deve essere vera: “it has often recurred... with a sense that the story must be true” (p. 80). Questo convincimento è il prodotto del desiderio, che gli concede e si concede di rivivere con l'immaginazione questo atto di “delinquenza coniugale”, garantito dalla possibilità di attribuirlo a un altro, mentre riserva per sé il ruolo di moralizzatore: “We know, each for himself, that none of us would perpetrate such a folly, yet feel as if some other might (p. 80).


Si ammette insomma che ciascuno di noi, leggendo la storia di Wakefield, desidererebbe fare ciò che egli ha fatto, senza averne però il coraggio; perciò questa possibilità suscita una simpatia che viene qualificata con l'aggettivo “generoso”. “Generous sympathies” è l'espressione usata anche da Coverdale, in The Blithedale Romance, per descrivere l'impulso che lo spinge a vivere nella vita altrui[viii], ma è la generosità inattendibile della parte repressiva di noi verso la fantasia e il desiderio. Questa è la motivazione che spinge il narratore a desiderare che la storia di Wakefield sia vera, fino a volersi identificare con lui. Ma se e come questa identificazione avvenga è problematico, perché l'io diviso, non solo paralizza Wakefield in una irresolutezza inspiegata, nodo non sciolto ma reciso alla fine dal colpo di spada di una spiegazione metafisica, ma ne neutralizza sin dall'inizio ogni velleità, inserendolo nel “ferreo tessuto”, non solo come dice il narratore, “della necessità”, ma anche di quella catena voyeuristica che è un'altra peculiarità strutturale, decisiva per la decifrazione del racconto.


Nel racconto abbiamo infatti tre personaggi: la moglie di Wakefield, Wakefield stesso e il narratore. Fra di essi vi è una gerarchia articolata in termini di ironia drammatica, perché Wakefield osserva non visto la moglie, mentre è a sua volta osservato dal narratore; quest'ultimo si trova peraltro nella medesima posizione di inferiorità ironica rispetto al lettore che osserva la sua strategia narrativa.

Lettore
                  
¯                  

Narratore
¯

 Wakefield
¯

Moglie

 

Il fine di tale strategia narrativa è l'indagine dell'animo umano, nel caso concreto dell'animo di Wakefield, per decifrare le motivazioni della sua bizzarria, ed è questione gravida di sensi, che in modo più o meno esplicito si fanno materia dell'organismo narrativo. In primo luogo l'indagine della propria anima ha valore come processo di autocomprensione e autoanalisi nella teologia e nella pratica puritana, quando mira a raggiungere la coscienza della propria elezione, e tende a essere istituzionalizzata in una sorta di casistica, che fissa le tappe del percorso verso la conversione, nelle opere di William Perkins e Thomas Hooker[ix].


Sebbene il significato della storia di Wakefield si possa far rientrare perfettamente nello schema della teologia calvinista, secondo il quale la natura umana irrimediabilmente depravata tende inevitabilmente al male, mentre la salvezza, come appunto  il ritorno di Wakefield, è opera di una grazia divina elargita del tutto immeritatamente, resta tuttavia preciso dovere dell'uomo l'esercizio delle sue facoltà, e segnatamente della ragione, per preparare la conversione con una costante autoanalisi introspettiva, della cui esperienza il santo deve testimoniare nella comunità.


L'incapacità di compiere questo tipo di indagine introspettiva è precisamente ciò che viene imputato a Wakefield, la cui disavventura dipende dall'insufficiente concentrazione di energia volitiva, per mancanza di comprensione delle proprie propensioni pratiche e spirituali. In lui la debolezza del mind si ripercuote in mancanza di will, e quindi in una situazione di disordine e incoerenza interiore che allude alla confusione che, nell'epoca di Hawthorne, regna fra i dati dell'antropologia puritana, almeno nel pensiero di chi, come l'autore, si rende con to delle trasformazioni subite da questo modello antropologico.


Al contrario il narratore, nella sua rielaborazione del dato cronachistico, si sostituisce a Wakefield per fornire quella capacità introspettiva che questi non possiede, chinandosi egli stesso sull'abisso dell'animo umano. Ma sull'abisso dell'animo di chi, nella fattispecie? Giacché egli non può che proiettare nel personaggio motivazioni psicologiche e morali che sono sue proprie: “We are free to shape out our own idea, and call it by his name” (p. 81); e infatti la sua presenza interpretativa non viene mai meno per tutto il racconto, e ogni fase della vicenda viene introdotta da espressioni come: “Let us now imagine...” (p. 81), “I conceive, also, that...” (p. 87) e simili.


Nel far ciò egli mette in luce una problematica complessa che, come vedremo, annovera fra le sue componenti l'alienazione atomizzante della vita nella metropoli - che è una delle forme del sublime romantico (vedi l'identica situazione nel Prelude di Wordsworth) - una forte connotazione vampiristica che contamina più o meno esplicitamente il rapporto voyeuristico fra Wakefield e la moglie e, come si è già accennato, una metafisica del fato come ordine delle connessioni universali, dai cui ingranaggi scaturisce la punizione di Wakefield e anche la sua inattesa redenzione.


Sebbene osservazione e simpatia, come si è visto, siano spesso associate nelle dichiarazioni dei personaggi di Hawthorne, e Hawthorne stesso nella prefazione a The Snow-Image and Other Twice-Told Tales (1851) scriverà che egli vuole esplorare le regioni oscure della natura umana “as well by the tact of sympathy as by the light of observation”[x], non è detto che l'osservazione sia permeata di simpatia. E infatti la catena di ironie che lega qui i personaggi è una catena di antipatia e incomprensione, che naturalmente è l'artifizio strutturale più adeguato ad esprimere la morale del cacciatore cacciato, e determina anche l'atmosfera del racconto.


La superiorità di ciascun osservatore impedisce infatti ogni reale partecipazione al dramma delle rispettive vittime: Wakefield contempla le fasi dell'avvizzimento fisico e spirituale della moglie con morbosa deliberazione; il narratore a sua volta, alla fine di una volenterosa e forse tormentosa meditazione, lascia indirettamente trapelare la sua impotenza “to trace out the effect of such circumstances on [Wakefield's] heart and intellect, separately, and in unison” (p. 87). In un certo senso possiamo dire che egli ha perso la sfida introspettiva che il fatto di cronaca gli proponeva come oggetto di meditazione.


Di passaggio diremo allora che questa è anche la ragione per cui, secondo noi, non è appropriato richiamarsi a Kafka, come ha fatto Borges[xi], per descrivere la condizione di Wakefield, almeno nel modo in cui è narrata. Perché Hawthorne sa bene, e lo scrive al direttore del Sargent's Monthly Magazine nel 1842, che ciò che conta in un racconto non è il fatto, la situazione, ma il modo in cui il fatto è narrato[xii]. E qui il racconto è costruito in modo tale che il lettore non vive angosciosamente dall'interno una di quelle situazioni allucinanti dette appunto kafkiane, poiché per quanto si sforzi di penetrare nell’animo di Wakefield, il narratore vi rimane emotivamente estraneo ed ostile, e invece dell’angoscia ci comunica infatti il suo scherno e la sua derisione. È come se la vicenda del Castello non fosse vissuta dalla parte dell’agrimensore K., ma fosse narrata, con continui interventi derisori ai danni di K., da uno dei signori del castello.

 

Ciononostante, tuttavia il lettore si trova a capo di una catena telescopica, ogni stadio della quale offre un esempio di osservazione, sia pure scettica e ostile, o moralmente insana, ma comunque significativa. La posizione di Wakefield è il ritiro colpevole in una vita dimidiata e segreta, tema ricorrente e, come sappiamo, non privo di riferimenti biografici nell’opera di Hawthorne, essa stessa incerto tentativo di stabilire un rapporto non irreale e meramente voyeuristico col mondo.

 

Quello di Wakefield è un ritiro peccaminoso, mondanamente definibile tra le coordinate della follia e dell’immoralità: è un atto di “marital delinquency”, che sottrae l’individuo ai doveri verso la comunità, intesa principalmente come matrimonio e famiglia, cui si contrappone la vita metropolitana, che promuove quell’anonimato in cui Wakefield precipita allorché esce dal proprio ruolo. Allontanandosi dalla moglie, Wakefield corre verso l’annullamento della propria individualità, e ne è salvato in un certo senso proprio dal narratore, che lo rincorre per non perderlo di vista prima che sparisca nella grande massa della vita londinese: “We must hurry after him along the street, ere he lose his individuality and melt into the great mass of London life” (p.82).

 

Il matrimonio si presenta perciò come il modello di rapporto significativo dell’individuo col mondo, una difesa contro il caos incomprensibile della città, dove Wakefield, pur essendo il vicino di sua moglie, diventa, come dice Wordsworth sconcertato di fronte alle stesse masse londinesi, un prossimo che non è più prossimo: " Above all, one thought/ Baffled my understanding: how men lived/ Even next-door neighbours, as we say, yet still/ Strangers, not knowing each the other's name". (Prelude, 7.115-18). È la scoperta dell'alienazione moderna fatta dai romantici ed espressa attraverso il sublime. L 'alienazione è sempre conseguenza del crollo di strutture significative, e il sublime, come ha dimostrato Thomas Weiskel in un ottimo libro sul sublime romantico[xiii], scaturisce quando una realtà diventa incomprensibile. Esso si frappone allora come qualcosa che media fra l'uomo e la realtà non più immediatamente comprensibile.

 

Questa incomprensibilità del mondo moderno si riflette nel comportamento di Wakefield, le cui incertezze non sono più definibili con le categorie tradizionali e puritane delle facoltà umane sviate dal peccato ma, più simili a quei sentimenti filosofici più moderni e secolari che sono la noia e l'ansia, sono il correlativo affettivo di una discontinuità semiotica e ideologica. Più direttamente Melville dirà che ci sono “linked analogies”[xiv]  fra l'animo dell'uomo e le strutture significative dell'universo. Di qui l'assurdo di un'osservazione del mondo che è introversione spirituale, una sorta di anemia affettiva che, senza spezzare definitivamente la partecipazione di Wakefield all'esistenza altrui, riduce il rapporto col mondo a un paralizzante sadismo voyeuristico che si compiace di osservare gli effetti distruttivi della sua assenza.

 

Potremmo cominciare ad anticipare la conclusione dicendo che la meditazione di Hawthorne sembra pervenire qui alla scoperta di una specie di lacaniano "complesso di intrusione", che pone l'aggressività narcisistica a fondamento ontologico del rapporto sociale, e soprattutto, come vedremo, dell'identificazione dell'Io. Ma appare intanto chiara anche la componente vampiristica del rapporto di Wakefield con la moglie. Perché quel personaggio sentimentalmente anemico che identifica se stesso specchiandosi nell'immagine della sua assenza è un vampiro. Ed è un vampiro nel modo più classico perché è un morto vivente. Ci viene infatti detto che egli ha perso il suo posto fra i vivi senza essere stato ammesso fra i morti: "he had happened... to give up his place and privileges with living men, without being admitted among the dead " (p. 87). La sua vera dimora è la tomba: " Stay Wakefield! Would you go to the sole home that it left you? Then step into your grave! " (p. 88).

 

Si sa che il vampiro non deve essere necessariamente rappresentato con gli incisivi ipersviluppati grondanti di sangue, ma è semplicemente chi sfrutta in qualche modo sinistro un trasferimento di energia vitale che consuma la vitalità della vittima a vantaggio della propria.[xv] E infatti Wakefield è colui che rimane fermo nel tempo e soggettivamente immutato: "He would... deem himself the same man as ever", mentre il suo sguardo consuma la salute, il tempo e la vita della moglie. Dal momento della sua partenza egli si ritira infatti in un mondo parallelo, che insieme al narratore possiamo chiamare follia, ove vige però una specie di teoria della relatività; si ritira cioè in un tempo soggettivo dove vent'anni non sono più lunghi di una settimana, poiché egli vive perennemente ad un sol giorno dal suo ritorno: "he would keep saying, 'I shall soon go back!' - nor reflect that he had been saying so for twenty years" (p. 87).


Attraverso un legame spettrale e aggressivo egli continua così a trarre dal rapporto matrimoniale una ragione d'esistere che gli permette di non svanire definitivamente nell'alienazione cittadina, e di rimanere a portata del braccio secolare di quel meccanismo metafisico che lo reintegrerà benignamente al suo posto, seppure dopo un'esclusione di vent'anni.

 

Peraltro se Wakefield identifica se stesso specchiandosi nell'immagine della sua assenza, il narratore identifica se stesso nella derisione-negazione dell'immagine di Wakefield, in un racconto da cui emerge tutta la doppiezza della sua posizione. Poiché egli osserva, con un atteggiamento misto di scherno e commiserazione moralistica, la follia del suo personaggio, ma di fatto è colui che riempie la struttura vuota della fabula. E la colma di una morale che ha come fondamento l'idea che l'uomo è in balìa di un destino il cui significato gli sfugge, un destino che il narratore tende a interpretare come provvidenziale custode di un ordine metafisico, ma che invece, come il comportamento alla fine ancora inspiegato di Wakefield testimonia, è una necessità misteriosa che fra matrimonio e alienazione metropolitana, vale adire fra noia e ansia, comincia a essere vissuta come assurda.

Nel tentativo di imporre un ordine all'apparente confusione di quello che resta peraltro un mondo misterioso: "the seeming confusion of our mysterious world" (p. 88), matrimonio e alienazione metropolitana vengono presentati come facce della stessa medaglia, zone inter- dipendenti di una cosmologia etica come paradiso e inferno, giardino edenico il matrimonio, come Hawthorne suggerisce nella prefazione a Mosses from an Old Manse, wilderness, terra desolata la vita moderna nella città.


Questa configurazione dimostra come la derisione tenda a demonizzare il sublime e a capovolgerlo in bathos sull'asse verticale di una assiologia retorica. La ridicolizzazione di Wakefield è una strategia difensiva contro l'ansia del nulla, cioè di quell'assenza, di quel vuoto che Wakefield ha provocato con la sua fuga e che il narratore si affretta a richiudere: "It is perilous to make a chasm in human affections; not that they gape so long and wide - but so quickly close again! " (p. 83).


E quell'ambiguità che in altri racconti Hawthorne crea lasciando sapientemente aperta una spiegazione sia naturale che sovrannaturale dei fatti[xvi], è qui raggiunta per altra via incentrandosi sulle vere motivazioni che paralizzano la volontà di Wakefield e il vero significato della sua avventura. È una punizione subita, un esilio purgatoriale? O una ventennale resistenza a un destino conformistico che tramite il braccio secolare dell'abitudine e del turbamento meteorologico lo riafferra infine per relegarlo definitivamente nella sua prigione?


Il narratore non ha dubbi, egli inventa le ragioni della bizzarria di Wakefield adeguandole a un intento pedagogico. Per lui quella di Wakefield è una caduta verso l'esclusione, è l'isolamento dell'anticonformista che ha osato sottrarsi al ruolo di buon marito fissato per lui, e il temporale che lo riporta a casa è uno scossone naturale impresso alla città, alla situazione, allo stato dell'universo, così che la piccola rotellina smarrita in un angolo che è Wakefield rotoli di nuovo al suo posto, nella sua nicchia, nella sua casa accanto alla moglie e al caminetto.

 

Tuttavia all'osservazione del lettore che si dispone ad accogliere questa interpretazione egli interventi derisori con un distacco altrettanto sarcastico, è evidente la possibilità di giudicare la morale della favola non come esortazione a non sottrarsi alle proprie responsabilità comunitarie, a non rompere un modello di vita minacciato dalla massificazione, bensì come esorcismo del narratore che nega quelle aspirazioni liberatorie, inarticolate dalla debolezza della personalità di Wakefield, che la lettura del fatto di cronaca ha risvegliato nell'abisso del suo animo.

 

Se dunque il narratore che deride la follia di Wakefield si pone ideologicamente accanto alla moglie, rivendicando l'eticità della vita accanto a lei, il lettore può utilizzare a sua volta il vantaggio ironico della sua posizione onnicomprensiva e simpatizzare con la fuga di Wakefield. Questa fuga apparirà allora come desiderio fantasticato e deplorato dal narratore stesso che rifiuta di vedere in Wakefield lo specchio rivelatore in cui si proietta la parte inaccettabile di sé.

 

In questo modo si riproduce, se vogliamo, quella scena di identificazione primaria, che Lacan chiama appunto "fase dello specchio", che conferisce all'io una struttura per cui esso entra in rivalità con se stesso.[xvii]  L 'introspezione, già puritana, si scopre così autoriconoscimento del soggetto nell'antagonismo voyeuristico con l'altro se stesso. In questo modo si svela e si realizza la funzione dell'immaginario, e adesso sappiamo perché è stata scritta la terza versione della storia: perché solo nel rapporto erotico con un'immagine alienante di sé si costituisce la personalità, e solo nella divisione si apprende la forma totale dell'io.

 

Questo apprendimento percorre itinerari introspettivi non più lineari; infatti se dividiamo lo spazio ideologico in due parti, e poniamo da un lato la moglie e dall'altro Wakefield, il narratore si pone dalla parte della moglie e il lettore dalla parte di Wakefield; e se si tiene conto che ciascun osservatore è ironicamente superiore agli altri e ha una visione più ampia e comprensiva, invece di una catena lineare avremo il disegno di una spirale:

 

 



Nel gioco di rimandi ironici fra punti di vista di ampiezza progressivamente maggiore, paralleli al complicarsi degli itinerari introspettivi e all'ampliarsi della narrazione in versioni progressivamente più dettagliate, si svela così un diagramma evolutivo che è il luogo dei punti che sono fermenti di una visione del mondo che sta trasformando e rifiutando i contenuti della teologia e della morale puritana, ma ne adegua e riutilizza i meccanismi culturali profondi per percepire e manifestare i sintomi dell'alienazione moderna e il disagio di una nuova civiltà.

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Note

[i]  N. Hawthorne, Selected Tales & Sketches, Introduction by H.H. Waggoner, Holt, Rinehart & Winston, New York, 1964 p.80. D'ora in poi le citazioni si intendono riferite a questa edizione. Per una storia della critica a "Wakefield", vedi Lea Bertani Vozar Newman, A Reader's Guide to the Short Stories of N.H., G.K. Hall, Boston,1979.


[ii] Cfr. Cesare Segre, " Analisi del racconto. Logica narrativa e tempo", in Le strutture e il tempo, Torino, Einaudi, 1974.

[iii] H.H. Waggoner, Hawthorne, Harvard U.P., Cambridge, Mass., (1955) 1971. p. 75.


[iv] T. Walsh "'Wakefield' and Hawthorne's Illustrated Ideas: A Study in Form." Emerson Society Quarterly, 25, 1961, pp. 29-36. Gardner & Dunlap, The Forms of Fiction, New York 1962. Martin Green, "The Hawthorne Myth: A Protest" in Re-appraisals, London 1963, pp.61-86. K. Dauber, Rediscovering Hawthorne, Princeton, 1977.


[v] J Donald Crowley, Nathaniel Hawthorne, London, 1971, p. 52.


[vi]Sulla possibilità di considerare una proposizione di questo tipo almeno una sequenza elementare di racconto vedi Gerald Prince, A Grammar of Stories, The Hague, 1973; Claude Bremond, Logica del racconto (1973), Milano, 1977; Ian Reid, The Short Story, London, 1977.

[vii] G. Fink, I testimoni dell'immaginario: tecniche narrative dell'Ottocento americano. Roma. 1978.

[viii] The Centenary Edition of the Works of N.H., III eds. W. Charvat, R.H. Pearce, C. Simpson, Columbus. p. 160.

 

[ix] Cfr. Norman Petitt, The Heart Prepared: Grace and Conversion in Puritan Spiritual Life, New Haven, 1966.

 

[x]  In N. Hawthorne, Selected Tales and Sketches, op. cit., p.408.


[xi] J.L. Borges, Otras Inquisiciones, Buenos Aires, Emece, 1960, tr. it. di Francesco Tentori Montalto, Milano. Feltrinelli, 1963.

 

[xii] Citato in Waggoner, op. cit., p. 30.

[xiii] Thomas Weiskel, The Romantic Sublime: Studies in the Structure and Psychology of Transcendence, Johns Hopkins U.P., Baltimore, 1976.

 

[xiv] Moby-Dick, L.S. Mansfield and H.P. Vincent eds., New York, 1962, cap. 70, "The Sphynx", p. 310.

 

[xv] J. B. Twitchell, The Living Dead: A Study of the Vampire in Romantic Literature, Durham, N.C., 1981. Vedi anche P. Penzoldt, The Supernatural in Fiction, New York (1952), 1965, pp. 37-40.

[xvi] Cfr. M. Pagnini, "Struttura semantica del grande simbolismo americano", Critica della funzionalità, Torino, 1970.  

 

[xvii] J. Lacan, "L'aggressività in psicoanalisi" (1948); "Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell'io" (1949), in Scritti, a cura di Giacomo Contri, Torino, Einaudi, 1974.