In ritardo/Late on the Event-Scene
Nell'universo senza memoria
dell'accelerazione mediatica
arrivare in ritardo sull'attualità è
l'ultimo
modo per ricordare
27. Marketing, "warketing" e
verità. Profeticamente qualcuno
aveva già mutato marketing in "warketing", parola che interpretava il
marketing come guerra. Ora va bene per chi interpreta la guerra come
marketing. Ma andiamo in ordine. Tra
i cliché autoincensatori della corporazione giornalistica c'è lo slogan:
"la prima vittima di una guerra è la verità". Esso è usato per lamentare
veri o presunti impedimenti alla stampa di seguire da vicino i
combattimenti o di accedere a luoghi, documenti, personaggi, coinvolti più
o meno direttamente con le operazioni belliche. È curioso che l'idea di
verità venga fatta sopravvivere in questi casi, quando in filosofia, in
politica, in economia e forse persino nella religione, essa non ha più
senso e, nel migliore dei casi, come dice il pragmatista Rorty, è
sostituibile con il proseguimento della conversazione. E in effetti è questo che
i giornalisti intendono, quando usano la parola verità: la possibilità di
continuare le loro corrispondenze, fatte al 99,99 per cento di "sentito
dire" inventati, inverificati e inverificabili, per riempire le colonne di
fogli stampati da vendere, per far soldi, come in qualsiasi altra impresa
più cosciente di produrre merce e non verità. La verità era sapienziale,
l'informazione voleva essere razionale, la comunicazione è commerciale, la
realtà si prefigura virtuale. Si discute ad esempio se
il filmato in cui Osama bin Laden si rallegra degli effetti catastrofici,
ben oltre le sue aspettative, degli attentati, sia efficace come prova
veritiera della sua colpevolezza e come strumento di convincimento e
propaganda presso le masse islamiche. L'alternativa è tra l'idea che le
masse islamiche hanno i loro convincimenti, non modificabili dalla
propaganda americana, e a dire il vero nemmeno raggiungibili dalle
trasmissioni televisive occidentali, e l'idea che il sistema pubblicitario
sia uno strumento globale, transculturale e quindi efficace con gli stessi
criteri semiotici ed effetti ideologici nell'universo mondo. Non è sorprendente che le
autorità della Casa Bianca, accanto alla guerra militare, vogliano
condurre una guerra di pubbliche relazioni per convincere "the hearts and
minds" di miliardi di mussulmani. È demoralizzante che la concepiscano
come una campagna pubblicitaria, che la "undersecretary for public
diplomacy" Charlotte Beers sia un "advertising executive" e dunque
consideri la democrazia la marca (brand) di un prodotto da vendere
all'estero. Se come pare le masse
arabe non sono raggiungibili dalla tecnologia su cui si fa viaggiare
questa propaganda, viene il sospetto che in realtà il vero "target" sotto
mira siano le masse dell'occidente stesso. E tuttavia è proprio un
sospetto infondato, la realtà è che l'etnocentrismo filo-tecnologico
dell'attuale presidente americano non riesca ad uscire dal feticismo delle merci. È infatti tipico della
falsa coscienza dell'informazione dei monopoli tardocapitalistici negare
la funzione della pubblicità come strumento di coercizione ideologica, e
poi, oltre al fatto di argomentare di strategia geopolitica in termini di
"audience, target, focus" e tutto il lessico dell' "advertising", rivelare
l'intima e preoccupata convinzione che la semplice esposizione
dell'audience all'apparire del nemico sugli schermi sia pericolosa, non
per fantasticati messaggi in codice ai complici, ma per l'effetto di
persistenza subliminale nell'immaginario consumistico creato da anni di
assuefazione all'indifferenza dei contenuti. Non è solo, come dice
Asher Price su The New Republic, che "convincere i mussulmani a non
ammazzare gli americani non è come convincerli a comperare la Pepsi", è
che il metodo di convincimento pubblicitario è intrinsecamente
contraddittorio al contradditorio democratico. |