In ritardo/Late on the Event-Scene

 

Nell'universo senza memoria dell'accelerazione mediatica
arrivare in ritardo sull'attualità è
l'ultimo modo per ricordare

       

27. Marketing, "warketing" e verità. 
(Leonardo Terzo, 22 dicembre 2001)

Profeticamente qualcuno aveva già mutato marketing in "warketing", parola che interpretava il marketing come guerra. Ora va bene per chi interpreta la guerra come marketing.

 

Ma andiamo in ordine. Tra i cliché autoincensatori della corporazione giornalistica c'è lo slogan: "la prima vittima di una guerra è la verità". Esso è usato per lamentare veri o presunti impedimenti alla stampa di seguire da vicino i combattimenti o di accedere a luoghi, documenti, personaggi, coinvolti più o meno direttamente con le operazioni belliche. È curioso che l'idea di verità venga fatta sopravvivere in questi casi, quando in filosofia, in politica, in economia e forse persino nella religione, essa non ha più senso e, nel migliore dei casi, come dice il pragmatista Rorty, è sostituibile con il proseguimento della conversazione. 
 

E in effetti è questo che i giornalisti intendono, quando usano la parola verità: la possibilità di continuare le loro corrispondenze, fatte al 99,99 per cento di "sentito dire" inventati, inverificati e inverificabili, per riempire le colonne di fogli stampati da vendere, per far soldi, come in qualsiasi altra impresa più cosciente di produrre merce e non verità. La verità era sapienziale, l'informazione voleva essere razionale, la comunicazione è commerciale, la realtà si prefigura virtuale.

 

Si discute ad esempio se il filmato in cui Osama bin Laden si rallegra degli effetti catastrofici, ben oltre le sue aspettative, degli attentati, sia efficace come prova veritiera della sua colpevolezza e come strumento di convincimento e propaganda presso le masse islamiche. L'alternativa è tra l'idea che le masse islamiche hanno i loro convincimenti, non modificabili dalla propaganda americana, e a dire il vero nemmeno raggiungibili dalle trasmissioni televisive occidentali, e l'idea che il sistema pubblicitario sia uno strumento globale, transculturale e quindi efficace con gli stessi criteri semiotici ed effetti ideologici nell'universo mondo.

 

Non è sorprendente che le autorità della Casa Bianca, accanto alla guerra militare, vogliano condurre una guerra di pubbliche relazioni per convincere "the hearts and minds" di miliardi di mussulmani. È demoralizzante che la concepiscano come una campagna pubblicitaria, che la "undersecretary for public diplomacy" Charlotte Beers sia un "advertising executive" e dunque consideri la democrazia la marca (brand) di un prodotto da vendere all'estero.

 

Se come pare le masse arabe non sono raggiungibili dalla tecnologia su cui si fa viaggiare questa propaganda, viene il sospetto che in realtà il vero "target" sotto mira siano le masse dell'occidente stesso. E tuttavia è proprio un sospetto infondato, la realtà è che l'etnocentrismo filo-tecnologico dell'attuale presidente americano non riesca ad uscire dal feticismo delle merci.

 

È infatti tipico della falsa coscienza dell'informazione dei monopoli tardocapitalistici negare la funzione della pubblicità come strumento di coercizione ideologica, e poi, oltre al fatto di argomentare di strategia geopolitica in termini di "audience, target, focus" e tutto il lessico dell' "advertising", rivelare l'intima e preoccupata convinzione che la semplice esposizione dell'audience all'apparire del nemico sugli schermi sia pericolosa, non per fantasticati messaggi in codice ai complici, ma per l'effetto di persistenza subliminale nell'immaginario consumistico creato da anni di assuefazione all'indifferenza dei contenuti.

 

Non è solo, come dice Asher Price su The New Republic, che "convincere i mussulmani a non ammazzare gli americani non è come convincerli a comperare la Pepsi", è che il metodo di convincimento pubblicitario è intrinsecamente contraddittorio al contradditorio democratico.

 

 

 

 

 

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