Sulla ovvietà della tecnica
"...tecnicamente abita l'uomo..."
1. Per criticare ciò che, in modo totalizzante, viene indicato come “età della tecnica”, a partire probabilmente da Heidegger, si fantastica di un presunto “uomo pre-tecnologico”, che avrebbe agito in un orizzonte di senso, con idee e sentimenti propri, che ora invece non avrebbe più. L’età della tecnica sarebbe una situazione assolutamente nuova, in cui l’umanità sta facendo l’esperienza del suo “oltrepassamento”, per il fatto che abita in un mondo tecnicamente organizzato in ogni sua parte. In tale mondo la tecnica determinerebbe ogni scopo, idea, azione e passione, persino i sogni e i desideri, sottraendoli alla libertà.
2. Se questo è vero, è però sempre stato così, perché ciò che Ernesto De Martino (La fine del mondo, Torino, Einaudi, 1977) nel suo “contributo all’analisi delle apocalissi culturali”, definiva “l’ethos del trascendimento” è proprio ciò che distingue l’uomo e non ciò che lo disumanizza. Perciò la tecnica è semplicemente un modo funzionalista di definire la cultura umana, ovvero la creazione delle condizioni più agevoli per lo svolgimento di una vita consapevole. La parola “tecnica”, rispetto alla parola “scienza” connota la dimensione applicativa del sapere presente nella vita quotidiana di tutti. Non esiste perciò umanità senza tecnica, la quale è appunto il modo di esplicarsi dell’attività umana, materiale e concettuale, dal punto di vista della fattibilità e dell’efficacia, in ogni tempo.
3.
Del resto non è chiaro quando esattamente comincerebbe questo stato di nuovo
condizionamento: se dalla rivoluzione industriale, prima, seconda o ennesima; se
a partire dall’invenzione della macchina a vapore o della radio o del
computer. Credo invece che, per esempio, invenzioni come il fuoco o la ruota,
assolutamente tecniche e tecnologiche, siano state molto più determinanti nel
modificare i valori, i fini, i sogni degli uomini. Credere che ci sia stato un
universo tecnico dei mezzi, separato dagli scopi e strumentale alla razionalità
e ai valori, è puro e pretestuoso autoinganno. I valori e i fini sarebbero poi
elaborati in non si sa quale empireo, rispetto ai bisogni e alle possibilità
che lo sviluppo tecnico e scientifico prospetta alla vita.
4.
Né è la perdita delle pulsioni istintuali ferine che avrebbe spinto l’uomo
ad inventare le tecniche, per rimediare alle sue insufficienze biologiche, ma,
al contrario, sono gli istinti che si atrofizzano, perché la tecnica li rende
sempre più inutili, trasformandoli però in sensibilità culturale (razzismo e
carità cristiana compresi). L’invenzione della scrittura, si sa, indebolisce
la memoria personale, ma accresce
quella della specie, come la macchina da scrivere abolisce l’insegnamento
della calligrafia, ma rende più leggibili i documenti.
5.
Né la natura è mai stata esperibile dall’uomo, per quanto primitivo, se non
attraverso tecniche di distanziamento, che lo proteggono da essa, o di
sfruttamento, che gli permettono di utilizzarla e controllarla. Ma sempre entro
certi limiti disegnati dalla tecnica stessa, così che il rapporto con la natura
è sempre stato mediato e problematico. La tecnica è sempre stata il nostro
ambiente protetto, e la vulnerabilità umana non deriva da un eccesso di
organizzazione tecnica, ma dalla sua insufficienza. Leopardi poteva fare
dell’ironia su “quanto è il gener nostro in cura all’amante natura”,
riferendosi all’eruzione del Vesuvio, non più di quanto noi si possa pensare
la stessa cosa riferendoci, in piena età della tecnica, alle vittime
dell’aids.
6.
Né vale solo per l’età attuale l’idea che la quantità si trasforma in
qualità, perché non ci sono bisogni originari: persino gli animali devono
adattarsi all’evoluzione dell’ambiente, e il criterio di ricerca della loro
intelligenza si fonda sulla loro capacità di costruire strumenti. A maggior
ragione per l’uomo, da sempre lo sviluppo crea nuovi bisogni, e le scoperte
stimolano l’immaginazione a cercare nuove gratificazioni e nuovi poteri. Se
mezzi e fini sono intercambiabili, anche questo è parte del motore delle civiltà.
L’istinto di sopravvivenza, per quell’animale culturale che è l’uomo,
diventa necessità di conoscenza. Perciò il fine della ricerca pura è proprio
la pura strumentalità, ovvero l’accessibilità alle mediazioni tecniche,
prima di finalizzarle a scopi imprevedibili.
7.
Nel 1923, ancora sotto lo shock della Prima Guerra Mondiale, Husserl vedeva la
speranza dell’umanità nel fatto che “i successi della tecnica… fondano
una fede… nella cultura della ragion pratica, in un’umanità che modella
razionalmente e attivamente se stessa insieme con il mondo che la circonda.”
(“La cultura moderna in quanto cultura fondata sulla ragion pratica”, in L’idea
d’Europa, Milano, Cortina 1999). Del resto anche Heidegger dice che
“…se ci apriamo autenticamente all’essenza (corsivo dell’autore)
della tecnica, ci troviamo insperatamente richiamati da un appello liberatore.”
(“La questione della tecnica”, in Saggi e discorsi, Milano, Mursia
1976)
8.
Proprio la convertibilità dei fini nei mezzi libera i bisogni dalla loro
rigidità e i beni atti a soddisfarli dalla loro indisponibilità costitutiva.
Per esempio la convertibilità dei beni in danaro moltiplica e fluidifica la
loro utilizzabilità per il soddisfacimento dei bisogni. C’è una
mercificazione buona, che svolge la stessa funzione igienica o terapeutica
dell’acqua, in grado di raggiungere spazi altrimenti inaccessibili, come
veicolo di qualsiasi sostanza in essa solubile. O ancora la convertibilità
dell’esperienza in linguaggio libera l’esperienza stessa da una misura di
ineffabilità, e ne permette una relativa condivisione attraverso la
comunicazione. Non c’è esperienza propriamente umana senza tecnica che la
permetta e la renda comunicabile.
9.
Né è mai esistito un ordine immutabile del cosmo in cui la mitologia o la
scienza cercavano di riflettersi, perché il cosmo è costantemente mutato
proprio dalla vita umana e dalla sua esplicazione tecnica, che ne ridisegna
sempre di nuovo l’orizzonte. Trasformare le fedi e poi le ideologie in ipotesi
di lavoro è semplicemente la presa di coscienza di ciò che si è sempre
verificato.
10.
Né è vero che la tecnica abbia sopraffatto la politica, perché la politica
interagisce con la tecnica e interviene su di essa in modo partigiano, cercando
di limitarne l’applicazione, quando è conservatrice, o di diffonderla il più
possibile quando è democratica. La tecnica non discrimina, è la sua
applicazione che viene sequestrata dai poteri dominanti, per scopi non tecnici,
ma appunto di cattiva o buona politica.
11.
È vero invece che i processi collettivi, per loro natura, sfuggono sempre ad
una comprensione totale, vanificando il più delle volte il tentativo di
controllarli e dirigerli. E questo vale sia per il controllo dell’economia,
sia della politica e quindi anche della tecnica. Si vuole invece che solo la
tecnica si muova in base alla norma secondo cui “se una cosa si può fare si
farà”, inesorabilmente! Ma chi sa dire che cosa si può fare? E come si
perviene al poter fare? Se la tecnica è così inesorabile, perché manca
l’acqua in Sicilia?
12.
Non è la tecnica che impedisce di sfamare i popoli della terra. Nella storia
umana non è la tecnica che produce la guerra, ma al contrario è la guerra che,
paradossalmente, fa avanzare la tecnica. La misura variabile delle risorse che i
governi mondiali dedicano alla ricerca dimostra
quanto poco inesorabile sia di fatto il potere della tecnica, subordinato
per miopi egoismi a interessi di conservazione dei privilegi.
13.
I limiti al controllo dei processi collettivi, tipici delle scienze umane, ci
hanno insegnato che non esiste, come non è mai esistita, una morale naturale.
La morale è sempre artificiale e modellata sugli interessi sociali, ma anche
sulla portata tecnica delle responsabilità. Si sostiene che solo nell’età
della tecnica si può fare molto di più di quanto non si possa prevedere, e
quindi il tecnico è, di necessità, uno scienziato folle, perché obbligato da
tale nuova condizione ad agire ciecamente. Ma basta riflettere sulle conseguenze
impreviste della scoperta dell’America per rendersi conto di quanto poco nuova
sia questa condizione.
14.
Il cosiddetto “senso” della Storia non è mai stato dato a priori, e quando
vari tipi di storicismo l’hanno ipotizzato, hanno concepito ideologie,
mitologie e religioni, dannose e smentite dai fatti. Ora sappiamo che il senso
della storia è sempre attribuito a posteriori per fini pratici e contingenti.
Il senso procedurale della tecnica resta invece aperto alla verifica, perché è
sempre subordinato ai risultati, che fungono da fini parziali, perpetuamente
modificabili, mai definitivi, e perciò mai veramente superabili.
15.
Questa apertura è il paradigma che garantisce che non può esserci una fine
della Storia. La fine della Storia è infatti concepibile in un itinerario che
vede un inizio, un mezzo e una fine, ovvero un’origine, uno svolgimento e una
conclusione. Ma questo è il senso delle finzioni, come insegna la Poetica
di Aristotele. Nella realtà invece non sappiamo dove collocare l’origine
dell’uomo, né quale sarà il suo futuro, tantomeno la sua fine. La differenza
tra realtà e finzione sta proprio nel fatto che la memoria dell’origine,
nella realtà, manca e la fine è di là da venire. E dunque resta solo il
mezzo, nel doppio significato di dato intermedio e strumentale. Pensare che
debba esserci un’autonomia dei fini in sé significa cadere nell’errore che
ci sia un senso originario e immodificabile dell’umanità e del suo divenire,
laddove invece esso si fa giorno per giorno, come può, ma mai una volta per
tutte. E perciò esiste solo l’immanenza del “ mezzo” e i mezzi per vivere.
16.
È vero che l’identità dell’uomo si manifesta nella sua funzionalità, ma
è un’identità che si concretizza nell’essere funzionale a qualcosa. E
precisamente (o imprecisamente) a scopi sempre diversi nel tempo e nelle
circostanze, mitologiche, umanistiche o post-umane che siano. Perciò è il
paradosso dell’identità forte accettarsi e trovarsi “finalmente” nella
sua mutabilità e instabilità strumentale. L’identità è quindi sempre
singolare, proprio perché funzionale a situazioni irripetibili. Sia il sé sia
l’altro, sia l’uomo sia la tecnica, sono sempre stati rapporti nodali,
intrecciati e costituiti dalle tecnologie del sé e dalle politiche
dell’identità.
17.
L’apparato tecnico non è dunque il soggetto assoluto, ma sempre lo scenario
culturale di tutte le identificazioni. Demonizzarlo e rifiutarlo in effigie
equivale al rifiuto di crescere, per non rinunciare all’esilarante
irresponsabilità dell’egotismo narcisista.
18.
È vero invece che l’assimilazione indistinta di pubblico e privato tende ora
ad abolire quest’ultima dimensione della coscienza e della persona. La cattiva
episteme della postmodernità si modella sul paradigma pornografico; sembra cioè
manifestarsi in una dilagante spudoratezza, che è la neutralizzazione
neocapitalista dell’intuizione rivoluzionaria per cui “il privato è
politico”. La forma dell’alienazione contemporanea è quella di chi è
indotto a credere, dai poteri che aspirano a monopolizzare il capitale
della rappresentazione mediatica, di partecipare alla vita della comunità solo
attraverso l’esibizionismo delle proprie malformazioni caratteriali, oltre che
dei risultati di costosi rifacimenti di chirurgia plastica.
19.
È sciocco invece piangersi addosso per una presunta perdita di libertà del
soggetto decisionale, che sarebbe ormai determinato e reso prevedibile dalle
prescrizioni dell’apparato tecnico, come se le nozioni di onore o onestà,
solo per fare degli esempi ovvi, non siano state sempre anch’esse prescrizioni
determinanti di un apparato etico o civico di qualsiasi contesto feudale,
umanistico, borghese o proletario. E la solidarietà, nuovo nome della vecchia e
trascurata “fraternité” della Rivoluzione Francese, non si riaffaccia forse
come nuovo prescrittivo collante politico di un apparato movimentista, libero in
tutto e da tutto, meno che dalle tecniche spettacolari della comunicazione
globale?
20.
Se la tecnica media il modo di fare esperienza, questo non è una condizione
inaugurata dalla cosiddetta età della tecnica. Altre tecniche hanno avuto da
sempre questa funzione di modulare e interpretare per noi la realtà, dal
racconto mitico alle formule dell’epica orale, all’invenzione della stampa.
Il 99% delle nostre conoscenze si basa sulla fede cieca in nozioni che la scuola,
i libri, le riviste scientifiche, prima che i mezzi di comunicazione di massa,
con il condizionamento degli
interessi politici, mettono in circolazione, senza possibilità di una effettiva
verifica dell’esperienza diretta e personale.
21.
Il bombardamento mediatico è effettivamente una nuova modalità
dell’esperienza e della formazione personale. E tuttavia non bisogna scambiare
la quantità per saturazione. La novità consiste solo nella potenza nei mezzi
impiegati, adeguata alla nuova capacità umana di ricevere e vagliare, o non
vagliare, gli stimoli, non nella pervasività dei modelli culturali che, in
società come per esempio quella feudale, erano molto più integrati e omologati.
La soluzione non è restare nel natio borgo, impedendosi di varcare un giorno
quel lontano mar, quei monti azzurri, “arcani mondi, arcana felicità fingendo
al viver mio”.
22.
Nell’età della tecnica una più ampia gamma di interessi si rende disponibile
all’umanità, esposta però in questo modo all’intrusività schizoide di
troppa realtà o alla deformazione riduttiva dello specialismo professionale. Ma
il pericolo reale non è la tecnica, bensì la concentrazione del potere, così
come il rimedio non è il rifiuto della tecnica, ma la distribuzione del potere
di usarla.
23.
La barbarie nazista, che applicava la razionalità della tecnica al genocidio,
non scaturiva dalla mancanza di finalità della tecnica stessa, al contrario era
l’effetto della concentrazione del potere e di una finalità forte e chiara:
la purezza della razza ariana. Questo scopo, non la tecnica, dava senso allo
sterminio, così come un eguale eccesso di finalità etnico-religiosa continua a
dare senso da oltre mezzo secolo ai massacri tra israeliani e palestinesi e a
tutti gli infiniti massacri che si perpetuano nel mondo.
24.
Spostare sulla pervasività inevitabile della tecnica il fardello di
inconvenienti che tortura in modi innumerevoli l’umanità contemporanea
significa svuotare e assolvere ogni responsabilità politica, e rinunciare a
priori ad un agire comune per incidere in modo razionale sulle forme sociali.