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  5. Post-black art
 
(Leonardo Terzo, 5 settembre 2001)

 

La mostra “Freestyle”, che la curatrice Thelma Golden definisce di post-black art, (primavera 2001 allo Studio Museum di Harlem, e in autunno al Santa Monica Museum of Art in California), si presta a una riflessione sul culturalismo dell’arte.  

Si tratta infatti di 28 artisti afroamericani che sembra vogliano liberarsi dell’identità razziale che ha connotato la loro presenza nel circuito dell’arte fino ad ora. Il fatto stesso che la loro opera, sebbene “post”, non riesca a liberarsi dell’aggettivo “black”, mostra la difficoltà teorica e politica, se non pratica, di questa operazione.

Gli artisti afroamericani, dopo aver sfruttato negli anni ‘90 il connotato etnico sotto le insegne politiche del “multiculturalismo” per emergere all’attenzione nazionale, sentono ormai limitante questa identità e desiderano essere semplicemente artisti, senza alcuna collocazione etnica, ora considerata ghettizzante.

Da una posizione di multiculturalismo militante, si potrebbe obiettare che la razza non è una moda, e sentire di appartenere al dominio universale dell’arte non significa dover rinunciare ai connotati etnici. Se appartenere ad una corrente o ad una poetica qualsiasi, per esempio il surrealismo, non è limitante rispetto all’essere artisti in assoluto, perché mai appartenere alla black art dovrebbe esserlo?

Secondo Holland Cotter (NYTimes del 29 luglio 2001), perché ora molti cambiamenti sono intervenuti, e il legame dell’arte con l’identità etnica (o sessuale o politica), invece di attrarre l'attenzione, ottiene solo di far rifluire chi lo adotta nella confusa marea di Black Shows, Latino Shows, Asian-American Shows ecc.

Sennonché essere surrealisti è una scelta, essere afroamericani no. Essere afroamericani non è una poetica e, se la si è usata come tale, o non ci si può ritirare da essa (nonostante i cambi di pelle alla Michael Jackson) con un semplice mutamento di stile, o bisognerebbe avere il coraggio di ricominciare da capo una carriera, “rinascendo” a nuova identità artistica da una condizione di notorietà zero. 

Tuttavia, se si va più addentro alle cose, i rapporti tra etnia e poetica non sono così facilmente districabili. I più noti casi di abiura culturale, come Cassius Clay che diventa Muhammad Alì, o LeRoi Jones che diventa  Amiri Baraka, sono controversi per quanto riguarda il bilancio di vantaggi o svantaggi in termini di danaro e carriera, mentre sembra che il multiculturalismo degli anni ’90 sia stata un’operazione produttiva sul mercato.

D'altra parte, quando è diventato Alì, Cassius Clay non ha cambiato modo di tirare pugni sul ring.  Ha solo cambiato la sua politica di cittadino fuori dal ring, o al massimo in prossimità del ring. Invece l'adozione di un nome mussulmano da parte di LeRoi Jones era la scelta di un'etichetta che significava una presa di coscienza politica, ma anche, e di conseguenza, un mutamento di poetica. 

Occorrerebbe perciò chiedersi se e in che modo la "post-black art" ha una poetica diversa dall'arte etnicamente connotata. La risposta potrebbe essere: no, se si suppone che vi sia una continuità stilistica nel lavoro di un artista; oppure sì, perché nella carriera di un artista vi possono essere periodi e stili molto differenti. Ma la probabilità elevata che la risposta sia positiva deriva proprio dal fatto che le poetiche dell'arte contemporanea sono costituite sostanzialmente da enunciati programmatici di carattere ermeneutico, dove le parole che pretendono di intepretarle contano come e più della morfologia delle opere.

Entrare nel ghetto della "black art", per quanto vantaggioso a suo tempo, era una scelta di autoriduzione politica dell'arte, che sottolineava incisivamente una volontà di presenza razziale minoritaria come oggetto di indagine, eventualmente anche di carattere formale, mentre la perdita di tale identità etnica, presumibilmente vantaggiosa a sua volta, immette nell'oceano indifferenziato dell'arte mondiale senza ancoraggi di protezione non artistici. Essa dunque potrebbe essere una scelta a sua volta coraggiosa, ma getta un'ombra sull'atteggiamento precedente.

Insomma gli effetti dell'intrusione dell'etnicità nell'ambito di una poetica vanno verificati caso per caso, e sebbene in linea di principio il fenomeno dovrebbe essere irrilevante, di fatto può invece significare un reale mutamento della prassi poetica. Del resto il ruolo dell'etnicità era un tempo tenuto dalla nazionalità. Storia e arte si sono spesso incrociate per sostenersi a vicenda, e ancora oggi le scuole nazionali sono settori praticati della categorizzazione critica nelle storie dell’arte. 

Se gli artisti afroamericani sentono la necessità di liberarsi della loro connotazione etnica, ciò può essere visto come un opportuno cambiamento di stile, oppure come un opportunistico cambio di pelle allorché l’etnia non è più redditizia come qualità negoziabile sul mercato. Poiché ogni artista ha comunque una storia e un'origine culturale, l'etnicità non dovrebbe avere la coda di paglia, e quindi non dovrebbe sentirsi un ghetto. Ma se l'etnia afroamericana non apparisse ora riduttiva rispetto all'arte internazionale, gli artisti in questione non sentirebbero il bisogno di rifiutarla. Che cosa stanno dunque rifiutando? La loro cultura o un indebito profitto ormai spento?

Infine, passare dall’arte etnica all’arte senza aggettivi, oltre che l'abbandono di un modo di intendere la propria espressività in quanto radicata nella propria cultura, potrebbe essere l'aspirazione a entrare in una particolare condizione cosmopolita, a-etnica o "internazionale", propria della contemporaneità. 

È una condizione che ricorda la cosiddetta cucina internazionale, omologata ad una cultura dominante, occidentale e tardo-capitalistica, che ha perso ogni sapore specifico ed è consumabile dovunque allo stesso modo.

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