Taccuino Accademico                                           

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delle idee ricevute   

 

     

6. Kamikaze, martiri e probabilità. (18 novembre 2003)

Che cos'è un kamikaze? È qualcuno che va incontro a morte certa allo scopo di arrecare un danno ai suoi nemici? È certamente un suicida, ma è anche un martire? È anche necessariamente un terrorista? Sansone che decide di morire con tutti i filistei è forse il primo kamikaze di cui si ha notizia? Come si vede la questione presenta molti aspetti più o meno intricati, attinenti alla morte, al suicidio, al sacrificio, alla guerra, al rapporto tra individuo e comunità, tra fede e disperazione.

Sulla natura del terrorismo si è già detto: possiamo considerare terrorista chiunque uccida dei civili non in armi. In questo senso sono terroristi non solo coloro che mettono bombe in Piazza Fontana a Milano, o alla stazione di Bologna, o a Gerusalemme, ma anche i comandi militari che bombardano le popolazioni inermi a Hiroshima come a Dresda, in Palestina come in Irak. A meno di considerare tutti i cittadini di una nazione il cui governo intraprende una guerra come corresponsabili da sterminare.

Cominciamo invece dal suicidio. Il kamikaze scandalizza in primo luogo perché sceglie la propria morte, ma il suicidio del kamikaze ha uno scopo che il suicida stesso ritiene sublime. Ci sono infatti altri suicidi che implicano uno scopo sublime: per esempio qualche anno fa in Giappone, a seguito di un guasto pericoloso ad una centrale nucleare, alcuni tecnici hanno accettato di penetrare nella zona contaminata per porvi rimedio, pienamente coscienti che sarebbero morti a seguito delle radiazioni. Sono da considerare kamikaze o solo martiri? 

Il discrimine qui sembra derivare dall'intento del suicidio stesso: se il suicidio ha lo scopo di uccidere altre persone abbiamo un kamikaze, se ha lo scopo di salvare altre persone abbiamo un martire. Ma la questione non è così semplice, perché il suicidio resta un suicidio, e anche il suicida con intento immediatamente distruttivo invoca la legittima difesa, e ritiene che il suo fine ultimo sia di contribuire alla salvezza della sua parte, proteggendola dai nemici. 

In comune questi due tipi di suicidio hanno comunque uno scopo trascendente, nel senso che trascende la salvezza del suicida a vantaggio di un bene che egli ritiene superiore e appunto trascendente: la sopravvivenza della patria, della comunità, dei figli. Questa trascendenza è infatti talvolta istituzionalizzata da una religione: in tal caso il suicida sacrifica se stesso solo relativamente alla sfera mondana, ma ritiene che sopravviverà con merito nella sfera ultramondana, in un edenico al di là. 

Tutte le fedi, laiche o religiose, favoriscono perciò il sacrificio nell'immediato, anche fino alla morte, in vista di un  bene maggiore in un futuro migliore. Qui però possiamo cominciare a distinguere un sacrificio laico più altruista, che non si aspetta ricompense nell'al di là, ma solo il bene altrui. Il suo al di là è il perpetuarsi della società umana. 

Opposto al kamikaze spinto da una fede vi è il kamikaze per disperazione: di fronte alla prospettiva di una morte certa comunque, i rinchiusi nel ghetto di Varsavia, come i rinchiusi nei campi profughi palestinesi, invece di aspettare inermi di essere uccisi, preferiscono ribellarsi e morire combattendo, senza poter scegliere le modalità del combattimento. La responsabilità di questo esito, come per esempio nel caso della missione suicida dei ceceni nel teatro di Mosca, ricade sempre su tutta la comunità internazionale, anche oltre le parti in causa. 

Se il kamikaze pone la sua missione (distruttiva per i nemici e protettiva per gli amici) al di sopra della sua vita, questa condizione e questo atteggiamento sono condivisi da altre categorie di operatori sociali, come i pompieri (l'esempio di New York), o i medici (a rischio di Aids o di Sars), ma soprattutto dai soldati, il cui mestiere è quello di uccidere, nella piena consapevolezza di poter essere a loro volta uccisi. Per quanto sotto etichette umanitarie e fatta salva la benevolenza personale, un soldato non è una crocerossina.

Naturalmente vi è una differenza fondamentale tra la certezza suicida del kamikaze e la mera probabilità di morte del soldato. Tuttavia questa differenza fondamentale è appunto solo una probabilità, talvolta minima. Nelle guerre moderne di massa, a partire dalla Guerra di Secessione Americana fino alle due Guerre Mondiali, il numero effettivo dei soldati morti è stato ed è spaventosamente enorme, e le probabilità di non sopravvivere altissime. Il soldato che inizia una missione bellica sa che, se non lui stesso,  una grande quantità dei suoi compagni morirà in quella circostanza. Il soldato moderno sa che, tolta una minima probabilità, egli è percentualmente un kamikaze. 

In quel piccolo divario, naturalmente, vi è tutta la speranza del mondo, ma paradossalmente questa speranza di sopravvivere non è nobile, perché implica di necessità che a morire siano altri, i compagni. A fronte di questo crudele paradosso il kamikaze non delega ad altri il compito di morire, ma se lo assume pienamente.

Inoltre nelle ultime guerre, come quella del golfo e in Irak, il divario di potenza fra i contendenti comporta uno squilibrio fra le perdite di vite umane, per cui i soldati della potenza dominante muoiono a centinaia, mentre quelli della potenza dominata muoiono a decine di migliaia, e non se ne può nemmeno tenere il conto. L'effetto è un diverso peso specifico dei morti sulla bilancia dell'interesse mondiale. 

Il peso dei morti è stato spesso, se non sempre, usato dai governi per un cinico (o solo oggettivo?) calcolo politico. Prima ancora che Mussolini esprimesse la stessa idea, per giustificare l'entrata in guerra dell'Italia fascista, sembra sia stato Cavour a calcolare un certo numero di morti italiani nella Guerra di Crimea, da gettare sul tavolo dei negoziati di pace. Lo stesso calcolo è stato fatto dal governo italiano attuale, non in termini di morti, incoscientemente, ma in termini di probabilità di perdite, e non per sedere con pretese al tavolo dei negoziati di pace, ma per farsi vedere in giubottino di camoscio a darsi pacche sulle spalle con George Dabliu Bush.

 

 

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