3.
Per una teoria della giustizia sensibile. (Leonardo
Terzo 29 luglio 2001)
Gran
parte del pensiero filosofico moderno lamenta, o per lo meno
discute, la separazione dell’astrattezza della vita
intellettualizzata dall’esperienza concreta e sensibile della vita
vera. Uno degli ambiti in cui questa separatezza impera
indisturbata, e anzi favorita dalla teoria dominante, è la
concezione e l’amministrazione della giustizia.
Prendo
spunto da un episodio minore, come riportato dai giornali, ma perciò
stesso più significativo, proprio perché l’apparente insignificanza
della cosa, quando viene trasferita in termini intellettuali e più
propriamente giuridici, contrasta con la pesantezza fisica e
psicologica dell’esperienza reale.
Una
signora viene multata per un’infrazione di sosta vietata. E fin qui
la persona in questione riconosce i suoi torti e accetta la
sanzione. Ma in eccesso a ciò, la signora viene costretta ad
attendere oltre due ore in piedi sul marciapiede sotto il sole di
luglio, mentre la pattuglia di vigili urbani (ironia del linguaggio)
aspetta tranquillamente in auto con l’aria condizionata, non si sa
perché, in attesa di altri colleghi. Le vengono ritirati i
documenti; viene tenuta fisicamente a distanza da uno del gruppo
(che nel frattempo è ingrossato con i nuovi arrivi), quando tenta di
avere spiegazioni; viene minacciata di arresto perché insiste e
viene insultata.
Ipotizziamo
che tutto ciò sia accaduto veramente come viene raccontato nella
cronaca milanese della Repubblica del 28 luglio 2001, e che la
vittima, attraverso le denunce e il lavoro dei suoi avvocati, riesca
a ottenere una qualche sanzione per i suoi “carnefici”. La parola
carnefici può apparire eccessiva, ma qualsiasi persona che non sia
un delinquente che abbia già dimestichezza coi maltrattamenti in uso
nelle galere, non può che recepire come inutile sadismo i
comportamenti descritti.
Nella
più rosea delle previsioni, i colpevoli, se riconosciuti tali,
riceveranno qualche avvertimento scritto nel dettaglio del loro
stato di servizio. La domanda inevitabile è: che rapporto di equità
intercorre tra l’esperienza subita dalla vittima e quella subita dai
rei? Perché le norme in vigore puniscono con delle parole, cioè una
pena intellettualizzata, il danno sensibile di un’esperienza
concreta?
La
teoria della giustizia dominante mira in primo luogo ad accertarsi
che il reo abbia capito il senso e la portata negativa del suo
crimine e sia quindi in grado di introiettare il dovere morale che
gli dovrebbe impedire di ripetere il delitto. Questo è giustappunto
il luogo logico in cui interviene la differenza tra intelletto ed
esperienza.
Come
può introiettare il dovere morale chi ha potuto, perché la giustizia
stessa lo prevede, avere una comprensione soltanto intellettuale
degli eventi? La gravità dei maltrattamenti della vittima può essere
veramente compresa nella sua concretezza sensibile soltanto se il
reo ripete la stessa esperienza di caldo soffocante, mal di gambe,
insulti umilianti e minacce d’arresto da parte di un gruppo di
complici anonimi, sicuri di rimanere impuniti.
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