La pagina letteraria di Salvatore Talia

Legge del mercato” o benessere sociale?
La questione dell’accesso all’università in un testo degli anni ‘60

Quali princìpi devono governare l'accesso all'università in una società moderna?

La risposta data dall'attuale senso comune (soprattutto a livello giornalistico) suona: l'accesso all'università deve essere regolato dalla legge del mercato. Se si prevede che fra cinque o sei anni il mercato del lavoro su scala nazionale richiederà, ad es., mille ingegneri, sarebbe un inutile spreco di risorse se l'università "producesse" per allora cinquemila laureati in ingegneria. Perciò l'accesso alle facoltà d'ingegneria dev'essere limitato quest’anno a mille immatricolazioni.

Un vecchio testo del movimento studentesco in Germania (W. Nitsch, U. Gerhardt, C. Offe e U. K. Preuss, La situazione sociale degli studenti, in AA. VV., Per la critica dell’università, a cura di Carlo Donolo, Einaudi, Torino 1971: non lo troverete nelle librerie perché è fuori catalogo) propone un punto di vista ugualmente basato su princìpi di razionalità economica (in senso lato), ma radicalmente differente nell’impostazione e negli esiti. Qui seguiremo il ragionamento dei nostri quattro autori, integrandolo con alcune considerazioni sull’attuale realtà italiana.

Nitsch e compagni considerano l'istruzione universitaria sotto due aspetti: come investimento e come consumo.

a) L’università come investimento. L'istruzione universitaria può essere vista sia come investimento della società intera nella ricerca scientifica (ciò configura l'interesse oggettivo all'investimento), sia come investimento dei singoli studenti, i quali fruiscono dell'università per i propri fini di promozione sociale e di benessere economico personale (interesse soggettivo all'investimento).

Già sotto l'aspetto dell'interesse oggettivo, può accadere che "parziali interessi di dominio" e di profitto, connaturati all'economia capitalistica, entrino in contrasto con gli "interessi vitali" dell'intera comunità. Non è detto, cioè, che la ricerca scientifica subordinata al profitto produca necessariamente il maggiore benessere della società.

L'interesse soggettivo all'investimento consiste poi nella "prospettiva dell'ascesa sociale individuale" degli studenti. Qui l'opinione dei nostri autori è drastica: "l'università, se si apre incondizionatamente a questo tipo d'interessi, diviene strumento, e forse anche monopolio, di quegli strati sociali presso i quali tali interessi esistono in modo tipico, e che hanno a loro disposizione i mezzi materiali con cui poterli soddisfare." In altre parole l'istruzione universitaria tenderebbe a diventare appannaggio esclusivo dei ceti medio-alti.

b) L’università come consumo. L'istruzione universitaria, oltre che investimento nella ricerca, è anche una forma di consumo. Col crescere della ricchezza della società, infatti, "cresce anche la richiesta di istruzione in generale (...). In questo senso pertanto gli studi, accanto ai due momenti già indicati, ne conoscono un terzo, cioè quello del consumo individuale. Questa liberazione dalla necessità di svolgere un'attività lavorativa proficua rende possibile allo studente di perseguire, nel corso dei suoi studi, interessi culturali che non si lasciano inserire nel rapporto investimento-sfruttamento. (...) Un tale atteggiamento si manifesta nell'interesse puramente scientifico od oggettivo, che non si preoccupa gran che della funzionalità degli studi rispetto agli esami ed alla professione (...)."

Questo aspetto dell'istruzione universitaria, legato al "consumo" individuale di cultura, trova una giustificazione sul piano dell'utilità sociale?

Per gli autori sì. Difatti, nelle nostre società complesse vi è una crescente necessità di controllo democratico dei processi sociali, necessità che può essere soddisfatta solo con un corrispondente incremento dell'istruzione diffusa. "Se la società ha un interesse oggettivo al mantenimento del controllo democratico dei processi di dominio, allora è necessario mantenere ed ampliare la possibilità, offerta all'università, di non sottoporre la conoscenza e gli studi unicamente al principio della produttività economica."

Tutte queste considerazioni inducono i nostri autori ad enunciare tre principi che dovrebbero regolare l'accesso all'università.

1. Eguaglianza delle opportunità. Sulla base di questo principio "non è (...) possibile considerare come base per l'accesso agli studi unicamente la richiesta precalcolata (...) di personale con preparazione universitaria da parte dei datori di lavoro. (...) L'obbligo che ha lo stato, di garantire l'uguaglianza delle possibilità, è pertanto fondato tanto mediante diritti pubblici soggettivi, come quello al dispiegamento della personalità, quanto mediante l'interesse pubblico all'accrescimento delle conoscenze abilitanti al controllo." (Si può aggiungere che, in Italia, i diritti pubblici soggettivi e gli interessi pubblici sopra menzionati sono tutelati dalla Costituzione, in particolare agli articoli 2, 3, 9, 33, 34).

2. Esaurimento della riserva dei talenti. "Il fabbisogno di forze lavorative scientificamente qualificate è in linea di principio illimitato", poiché sono illimitate le prospettive di progresso della società. "I grandi compiti tecnico-civilizzatori che in tutto il mondo attendono la loro soluzione (...) rendono legittimo l'aspetto dell'interesse oggettivo alla formazione dei talenti, anche allorquando al suo pieno soddisfacimento si opponesse la tendenza alla crisi immanente ai mercati del lavoro." Vale a dire che, in ultima analisi, è assurdo subordinare le esigenze di sviluppo scientifico, tecnico, culturale della società ai capricci della congiuntura economica. Questa concezione si contrappone nel modo più radicale al senso comune oggi dominante, che, come abbiamo detto sopra, eleva le “leggi del mercato” a giudici assoluti della legittimità delle esigenze formative degli individui. Ciò sia detto senza pregiudicare l’ulteriore critica, secondo la quale in Italia sono spesso gli ordini professionali ad arrogarsi il ruolo di unici interpreti autorizzati delle “leggi del mercato” per quanto riguarda la formazione universitaria; interpreti tutt’altro che imparziali, com’è ovvio, ma anzi interessati a restringere l’offerta di forza-lavoro qualificata, allo scopo di conservare le proprie rendite economiche di monopolio.

3. Principio della prestazione razionale. La selezione che deriva dalla limitazione degli accessi all'università finisce per privilegiare quegli studenti dotati di particolari attitudini alla competizione e al successo individuale. Ma queste qualità caratteriali non hanno nulla a che vedere con le effettive capacità scientifiche e con la bravura degli studenti (cioè con l’effettiva razionalità sociale delle loro prestazioni di ricercatori). Già oggi nelle università italiane si può vedere come non sempre, nella carriera accademica, siano favoriti i più bravi e i più preparati, bensì spesso i più abili ad autopromuoversi e i più determinati a sfruttare a proprio vantaggio i meccanismi della selezione clientelare del personale di ricerca. Con la selezione all'ingresso, secondo i nostri quattro autori, si finirebbe ulteriormente per "escludere dalla prestazione scientifica e dalle posizioni di dominio che attraverso di essa divengono accessibili, quei ceti sociali per i quali queste qualità (individualismo, carrierismo, competitività ecc., ndr) non sono tipiche", vale a dire, ancora una volta, i ceti subalterni. Il “principio di prestazione” basato sulla perpetuazione delle logiche di potere si sostituirebbe così al principio della prestazione socialmente razionale, basato sull’effettivo valore scientifico dell’attività di ricerca.

Da un rapido confronto con questo ricco e complesso testo di più di trent'anni fa (al quale rimando per i necessari approfondimenti: segnalo come particolarmente interessante, e per certi versi ancora attuale, l’introduzione del curatore del volume) emerge, a mio parere, tutta la grettezza delle attuali posizioni che vorrebbero subordinare anche l'accesso alla cultura universitaria alle "leggi del mercato": leggi che si riducono poi sempre agli interessi di classe di un ristretto ceto di privilegiati.

Compito degli studenti di oggi dovrebbe essere quello di salvaguardare il principio della libertà d'accesso all'università e di lottare affinché questo diritto divenga effettivo per tutti. In vista di questo obiettivo, ritengo che non sarebbe male se gli studenti recuperassero almeno una parte di quella radicalità teorica e anche di quella carica utopistica che costituirono in gran parte la forza dei movimenti degli anni ’60 e ’70.

Sono convinto della necessità di assumere un punto di vista completamente differente rispetto all’attuale ideologia dell’università-azienda e del primato del mercato: se non si tornerà in qualche modo ad argomentare efficacemente il concetto che la cultura e la ricerca non possono essere una variabile dipendente del capitale, credo che sarà molto difficile sconfiggere l’egemonia ideologica di coloro che oggi vorrebbero asservire l’università al potere economico.

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