La pagina letteraria di Salvatore Talia

Bruno Trentin, La città del lavoro. Sinistra e crisi del fordismo.

Riassunto e contributi alla critica.

Avvertenza - Ho scritto l'articolo seguente circa cinque anni fa, in un clima politico e culturale diverso dall'attuale, sia in Italia che nel mondo. In quel periodo, vasti settori della sinistra coltivavano l'illusione di poter conciliare una politica economica neo-liberista con una politica sociale di stampo progressista. Il libro di Trentin che recensisco in questo articolo è, sotto molti punti di vista, un'espressione di tale clima ideologico oggi completamente superato: ciò rende abbastanza inattuale anche il presente articolo. Poiché attualmente mi manca la possibilità di aggiornarlo, lo mantengo così com'è stato scritto, limitandomi ad aggiungere questa nota introduttiva e ad apportare qualche modifica puramente formale. (28 agosto 2005).

Il libro che recensisco è stato pubblicato nel settembre 1997 dall’editore Feltrinelli di Milano (270 pagine, £ 32.000).

L’autore, uno dei più importanti dirigenti sindacali italiani del dopoguerra, è stato segretario generale della Fiom e poi della Flm dal 1962 al 1978; segretario generale della Cgil dal 1988 al 1994; attualmente dirige la Commissione di programma della Cgil. Nell’ambito della sua attività di studioso ha pubblicato fra l’altro Da sfruttati a produttori (Bari 1977) e Il sindacato dei consigli (Roma 1980).

Qui di seguito cercherò dapprima di esporre succintamente i contenuti del libro di Bruno Trentin, dopo di che tenterò di abbozzarne una prima critica. Le citazioni dall’opera saranno segnalate con il numero di pagina, posto tra parentesi;  i corsivi sono di Trentin, a meno che non sia segnalato altrimenti.

1. Riassunto.

La città del lavoro si compone di due saggi tematicamente collegati, il primo intitolato La sinistra e la crisi del fordismo (da p. 5 a p. 124) ed il secondo Gramsci e la sinistra europea di fronte al “fordismo” nel primo dopoguerra (pp. 125 sgg.).

Il presupposto da cui muove la riflessione dell’autore è il seguente: la crisi storica in cui si dibatte la sinistra europea in questi anni deriva (più che dalla fine del cosiddetto “socialismo reale”) dalla fine dell’assetto sociale collegato con il sistema produttivo “taylorista-fordista”, che aveva caratterizzato le società industrializzate durante quasi tutto il ‘900. Le categorie politiche e culturali che avevano orientato l’agire della sinistra derivavano dalla assunzione acritica di alcuni postulati del modello produttivo taylorista-fordista. Oggi, quando tale modello è in crisi in tutto il mondo e sta per cedere il posto ad un altro paradigma (che viene comunemente detto “postfordista”), la sinistra si scopre incapace a comprendere il mutamento di fase e non riesce ad adeguare efficacemente la propria strategia politica e sindacale alla nuova situazione storica.

Trentin cerca dunque di ricostruire criticamente il processo che ha condotto la sinistra dell’Europa occidentale, nelle sue componenti maggioritarie, ad una subalternità culturale nei confronti dell’ideologia taylorista; contemporaneamente, Trentin tenta di dimostrare che tale esito non era obbligato, ma che era possibile imboccare “altre strade”. Trentin rintraccia tale possibilità, che secondo lui è ancora attuale, nelle elaborazioni teoriche di alcuni autori storici della sinistra del ‘900 i quali proposero modelli teorici e pratici alternativi alla egemonia delle teorie tayloriste e fordiste.

Il taylorismo, secondo la definizione di Trentin, è un metodo di organizzazione del lavoro basato su due princìpi fondamentali: 1° “la rigida divisione tecnica delle mansioni e delle funzioni costruita sulla loro estrema parcellizzazione”, e 2° “la rigida divisione gerarchica del lavoro, con la requisizione di saperi e di autonomia decisionale ad opera dei vertici manageriali” (p. 17).

Questi due principi hanno trovato la loro applicazione più sistematica e conseguente nella grande fabbrica fordista, caratterizzata dalla produzione centralizzata e su grande scala di prodotti identici, secondo il metodo della catena di montaggio.

Ma i princìpi del taylorismo sono oggi messi in crisi dalla fine della produzione di massa standardizzata: oggi la “competizione fra le imprese si sposta sempre più (...) verso l’assolvimento del requisito primario della qualità del prodotto, della qualità del lavoro in esso contenuto e della qualità dei servizi che ne facilitano l’uso” (ibid.)

Questo nuovo imperativo della qualità del prodotto richiede un nuovo modo di lavorare, incompatibile con le rigidità del taylorismo, “un lavoro dotato di capacità polivalente, capace di esprimere liberamente e di arricchire un proprio ‘saper fare’ (e un suo ‘come fare’), capace di adattarsi ai mutamenti e agli imprevisti, e soprattutto di ‘risolvere problemi’. Non solo una merce che pensa, ma una merce che deve pensare” (ibid.).

Il processo di superamento dell’organizzazione del lavoro accentrata e autoritaria taylorista, e la necessaria acquisizione di nuovi spazi di creatività e di autonomia decisionale da parte dei lavoratori,   si scontrano però con le resistenze del vecchio management taylorista, che non vuole cedere ai lavoratori parte del proprio potere decisionale. Questo ceto di managers, inoltre, non vuole abbandonare il “dogma taylorista dell’assoluta fungibilità delle diverse prestazioni lavorative” (p. 19), dogma che tra l’altro è alla base della pretesa manageriale della completa libertà di licenziamento.

Tali resistenze, tali residuati di cultura taylorista, sono additati da Trentin come il principale ostacolo al progresso sociale e al miglioramento generale della condizione dei lavoratori; perciò come il nemico da battere da parte della sinistra. “Prima di autoaffondarsi, il ‘scientific management’ venderà cara la pelle” (p. 21).

Dopo aver delineato in questo modo la fase attuale e i compiti in essa della sinistra, Trentin prosegue con la denuncia delle debolezze teoriche che, secondo lui,   rendono la sinistra medesima attualmente impreparata allo svolgimento del compito storico che le spetta.

Secondo Trentin, la sinistra del XX secolo ha assunto come principale problema da risolvere quello della ineguaglianza nella distribuzione della ricchezza fra le classi sociali. Per risolvere questo problema, l’ideologia dominante della sinistra ha individuato come principale strumento lo Stato. Nella variante comunista, la creazione dello Stato proletario doveva condurre alla espropriazione dei capitalisti e alla statalizzazione dei mezzi di produzione; nella variante socialdemocratica, il partito socialista al governo doveva correggere le diseguaglianze mediante l’intervento pubblico negli investimenti, la politica fiscale e la creazione di un sistema completo di welfare state. In ambedue i casi, tuttavia, la sinistra non si proponeva, secondo Trentin, d’intervenire politicamente nel momento della produzione della ricchezza, bensì nel momento della sua distribuzione.

Il momento della produzione era visto come non modificabile: le sue regole erano le regole del modello fordista-taylorista. Secondo lo storicismo dogmatico, egemone nella cultura della sinistra novecentesca (sia comunista che socialdemocratica), l’emancipazione del lavoro doveva infatti percorrere   “tappe obbligate, il cui ordine è iscritto nella storia ed è quindi immutabile” (p. 26) ed il taylorismo era una di queste tappe, un passaggio necessario nel processo di sviluppo delle forze produttive. La contrattazione sindacale, in particolare, doveva perciò limitarsi alla “semplice compensazione, attraverso le politiche salariali, e comunque distributive, degli ‘effetti sociali’ di un’organizzazione del lavoro (...) confusa con il ‘progresso tecnico’.” (p. 27) 1 .

Secondo Trentin neppure l’analisi del fordismo tentata da Gramsci nei suoi quaderni del carcere fuoriesce dallo schema ideologico dominante; Trentin infatti, pur riconoscendo la peculiare attenzione che Gramsci riservò sempre al momento della produzione, lo accusa tuttavia di aver conferito al processo di liberazione del lavoratore dall’oppressione un senso esclusivamente soggettivo e idealistico: nella concezione gramsciana, il sistema taylorista non verrebbe superato in concreto dalla classe operaia, ma quest’ultima si limiterebbe a riconoscerne la necessità, sottoponendosi ad esso volontariamente, mediante una forma di autocoercizione, motivata dall’assunto che, per tutta una fase storica, il sistema Taylor è destinato a rimanere la forma più razionale e adeguata di organizzazione delle forze produttive. Anziché lottare contro il taylorismo, l’operaio gramsciano lotta “fuori dei confini della fabbrica” (p. 167) per la sostituzione di una classe dirigente ad un’altra.

L’ideologia dominante nella sinistra fu invece spezzata, secondo Trentin, dalle lotte operaie della fine degli anni ’60, grazie anche a una nuova leva di sindacalisti influenzati dalla tradizione del personalismo cristiano, antistoricista e centrato sulla “difesa dell’integrità fisica e morale della persona umana” (p. 28).

Per Trentin, il ’68 operaio fu essenzialmente un movimento della società civile volto a porre in discussione il paradigma produttivo taylorista-fordista; una “volontà di massa”, espressione di “una fiducia di massa nella possibilità di cambiare il modo di lavorare” (p. 63); manifestazione di una “necessità di modificare un modello dominante di produzione, indipendentemente dall’ordinamento statuale della società e dalla titolarità della proprietà dei mezzi di produzione” (p. 59, corsivo mio); l’emergere di “nuove domande che fuoriuscivano dalle pure logiche del conflitto distributivo” (p. 58).

Queste nuove istanze vennero però, secondo Trentin, recepite con difficoltà o senz’altro fraintese dalla sinistra tradizionale d’ispirazione marxista. Trentin rivolge le critiche più aspre agli intellettuali della scuola operaista, all’epoca piuttosto influenti nel movimento operaio italiano, e in particolare ad Alberto Asor Rosa e a Mario Tronti.

Trentin accusa questi intellettuali di aver delineato una concezione della lotta di classe caratterizzata da un’accentuata scissione tra momento economico e momento politico. La lotta economica, in tale concezione, era costituita da un estremismo rivendicativo cieco e privo di progettualità, volto unicamente a destabilizzare il sistema capitalistico per mezzo di continue e sempre più aggressive vertenze salariali. La lotta politica era invece concepita, secondo uno schema di derivazione leninista, esclusivamente come lotta per la conquista del potere statale da parte del partito dei rivoluzionari di professione, finalizzata all’abbattimento dello Stato capitalistico. Da qui, secondo Trentin, nasceva il rifiuto da parte degli operaisti di prendere in considerazione ipotesi riformiste di semplice cambiamento dell’organizzazione del lavoro.

Trentin polemizza con gli operaisti, in quanto per loro a ridosso del ’68 “il nemico da battere diventa il tentativo del sindacato di mettere in questione, controllare e persino mutare l’organizzazione del lavoro. E, così, di mettere in questione i centri di potere che la determinano , senza con ciò negare la loro esistenza, la loro rilevanza; ma, nello stesso tempo, senza assumere la loro oggettività come un dato immutabile, organicamente connaturato con l’essenza del capitale ” (p. 66). L’incapacità degli operaisti di comprendere la reale natura delle lotte operaie di quel periodo è indice, secondo Trentin, della subalternità di questi intellettuali all’ideologia taylorista; subalternità che si manifesta nella loro esaltazione ingenua e acritica della figura dell’”operaio-massa”, l’operaio della catena di montaggio della fabbrica fordista-taylorista, incarnazione - secondo gli operaisti - del concetto marxiano di “lavoro astratto” (cfr. pp. 65-6).

Lo statalismo esasperato e l’indifferenza per i contenuti reali delle lotte condussero in seguito questi intellettuali, dopo aver abbandonato all’inizio degli anni ’80 ogni velleità rivoluzionaria, al “sostegno apologetico delle teorie del ‘neocorporativismo’, come forma compiuta di uno scambio politico fra le classi sociali in conflitto (ma politicamente subalterne), e lo Stato centrale” (p. 62) 1 bis , incontrando così la sinistra moderata sul terreno tecnocratico della “governabilità” priva di ogni progetto di riforma. Per questa sinistra, la “partecipazione al governo non essendo più (...) la condizione per avviare un cambiamento globale di sistema (...) tende a divenire (...) un obiettivo in sé” (p. 60), senza più alcuna idea di intervento sulla società. Questo è l’impasse nel quale, secondo Trentin, la sinistra è ancora oggi bloccata.

Per superare quest’impasse, Trentin propone di mettere al centro della teoria e della pratica della sinistra un progetto di “trasformazione e riforma della società civile” (p. 185) che parta da “un’ipotesi di superamento, anche graduale e parziale, della scissione fra governanti e governati nel rapporto di lavoro subordinato” (p. 186), scissione che, come abbiamo visto, era l’elemento essenziale dell’organizzazione tayloristica del lavoro e che oggi può essere superata grazie al “nuovo modo di lavorare” imposto dagli attuali metodi produttivi.

Tale progetto di riforma dovrà trasformare la struttura stessa del contratto di lavoro subordinato, per eliminare la contraddizione, propria di esso, “fra i diritti formali riconosciuti al cittadino nel governo della Città e i diritti formali negati al lavoratore salariato nel governo del proprio lavoro” (p. 225), che è poi la contraddizione fra il “lavoro astratto” oggetto del contratto e la “persona concreta” del lavoratore subordinato, sottoposto allo ”indiscriminato dominio” del suo datore di lavoro (p. 224).

Il nuovo tipo di contratto di lavoro, adeguato al nuovo paradigma produttivo post-taylorista e più rispettoso dei diritti inalienabili del lavoratore, che Trentin propone, dovrà definirsi

“...sulle basi di una codeterminazione dell’oggetto della prestazione, dell’oggetto del lavoro (e quindi delle sue modalità di affermazione, della durata della prestazione, delle competenze necessarie a conseguirne la realizzazione, degli spazi di autonomia decisionale che spettano reciprocamente al datore di lavoro e al prestatore d’opera); e, in secondo luogo, della regolamentazione e del finanziamento (al quale l’impresa, il lavoratore e la collettività devono concorrere) di un sistema di formazione e di aggiornamento continuo che consenta di sorreggere la continuità e la flessibilità dell’occupazione con una mobilità professionale del lavoratore e che assicuri la sua impiegabilità futura” (p. 243).

2. Critica

Abbiamo visto come, secondo Trentin, sopravviva ancora oggi nella sinistra una cultura “che identifica il capitalismo (...) con un determinato assetto proprietario e una determinata distribuzione dei redditi” (p. 25); mentre invece quello contro cui, per Trentin, la sinistra dovrebbe combattere oggi non è né la proprietà privata dei mezzi di produzione, né l’ineguaglianza nella distribuzione dei redditi, bensì il carattere parcellizzato ed eterodiretto del lavoro subordinato.

Trentin imposta cioè un’alternativa “fra il primato del superamento dello sfruttamento (come espropriazione di un plusprodotto di valore superiore al salario [sic]) 1 ter e il primato della contestazione di quell’alienazione concreta contenuta nel rapporto di oppressione che predetermina la qualità del lavoro” (p. 106, corsivi miei).

In questa distinzione tra sfruttamento e alienazione, Trentin si richiama a Simone Weil, la quale sosteneva appunto esserci “due problemi da distinguere: lo sfruttamento della classe operaia, che si definisce come profitto capitalistico e l’oppressione della classe operaia sul luogo di lavoro che si traduce in sofferenza prolungata per 48 o 40 ore settimanali, ma che possono prolungarsi anche al di là della fabbrica, nelle 24 ore della giornata 2 ”.

L’oppressione e l’alienazione del lavoratore sarebbero costituite precisamente dall’applicazione sistematica dei due principi dell’organizzazione del lavoro taylorista, nella quale il lavoratore è inserito in una rigida struttura gerarchica che lo costringe all’ubbidienza passiva ed è espropriato di ogni competenza ed abilità professionale da un ufficio di programmazione che predetermina ogni suo singolo gesto.

Occorre chiedersi innanzitutto: questa drastica distinzione concettuale fra l’oppressione/alienazione e lo sfruttamento è fondata? Si tratta di due concetti radicalmente diversi? O non è, invece, possibile affermare che il taylorismo (il quale, per Trentin, è l’epitome stessa dell’alienazione) altro non sia che un metodo volto ad aumentare lo sfruttamento della forza-lavoro?

Io credo che sia giusta qust'ultima affermazione. Il taylorismo venne adottato ai primi del ‘900 per contrastare la tendenza alla caduta del saggio di profitto; questo metodo di organizzazione del lavoro non può perciò essere considerato facendo astrazione dal capitalismo e dalla sua evoluzione, ma deve essere considerato come un momento della storia del rapporto di capitale3 .

Nei termini della teoria economica marxiana, il taylorismo può essere interpretato come un metodo volto ad aumentare il plusvalore relativo, sia mediante la maggiore produttività, sia mediante l’aumento dei ritmi di lavoro (ciò che Marx, nel fondamentale capitolo su Macchine e grande industria, chiama “intensificazione del lavoro” 4 ).

Se rileggiamo la definizione di taylorismo data da Trentin, ci rendiamo conto di come egli si sia dimenticato una delle caratteristiche essenziali di tale organizzazione del lavoro: l’accelerazione parossistica dei ritmi, così ben rappresentata da Charlie Chaplin nel suo film Tempi moderni. (Simone Weil, fra l’altro, cui Trentin fa continuamente riferimento, non ha certo trascurato questo aspetto del taylorismo: ella osserva come la preoccupazione che ossessionava l’ingegner Taylor fosse precisamente quella di “spingere sempre oltre la cadenza degli operai5 ”).

Non è casuale che Trentin abbia lasciato da parte questo fattore -  l’intensificazione del lavoro - perché questo era proprio l’elemento principale che poteva inficiare la sua contrapposizione manichea fra critica dell’alienazione/oppressione e critica dello sfruttamento: distinzione dalla quale discende la condanna sommaria del marxismo, considerato da Trentin come una teoria dello sfruttamento la quale avrebbe completamente tralasciato di indagare e di combattere l’alienazione/oppressione tayloristica.

Il marxismo contro cui polemizza Trentin è una teoria caratterizzata da un gretto economicismo 5 bis e da uno statalismo totalitario: è una teoria della lotta di classe intesa come mero “conflitto distributivo” (così Trentin intende la critica marxiana dello sfruttamento) ed è una tecnica politica volta alla conquista (mediante l’insurrezione) e al mantenimento a tutti i costi (mediante la dittatura) del potere statale.

Ma la concezione della teoria di Marx così delineata da Trentin è assai approssimativa. Non è vero che il Marx della maturità abbandonò l’indagine dell’ “alienazione” per concentrarsi solo sullo “sfruttamento”, né il concetto di sfruttamento ha per Marx il carattere grettamente economicistico e da “conflitto distributivo” che gli attribuisce Trentin 5 ter .

Come abbiamo accennato sopra, infatti, i fenomeni che Trentin racchiude nelle categorie dell’alienazione e dell’oppressione sul posto di lavoro sono studiati da Marx nella quarta sezione del libro primo del Capitale, dedicata alla produzione del plusvalore relativo, e in particolare nel capitolo tredicesimo, Macchine e grande industria.

E’ certamente vero (e qui la polemica di Trentin è parzialmente giustificata) che il movimento comunista non sempre giunse - non subito, non dappertutto e certamente mai nei paesi del cosiddetto “socialismo reale” - ad interpretare coerentemente il taylorismo nei termini della teoria marxiana dello sfruttamento. Ma non è esatto affermare che il marxismo, in tutte le sue espressioni storiche, abbia subito la “egemonia culturale” delle teorie tayloriste.

Proprio la scuola di pensiero tanto vituperata da Trentin, vale a dire l’operaismo, sviluppò con alcuni dei suoi esponenti una critica serrata della “organizzazione scientifica del lavoro” dell’ingegner Taylor. Il primo nome da citare è naturalmente quello di Raniero Panzieri (un autore che, anche qui non a caso, Trentin non menziona mai nel suo libro). Panzieri legò inscindibilmente critica dell’alienazione/oppressione e critica dello sfruttamento, e confutò ogni visione “neutra” della tecnica nel processo lavorativo, sottolineando come nella grande industria “è precisamente il dispotismo capitalistico che assume la forma della razionalità tecnologica” 6 . Panzieri rimase cioè lontanissimo da quella apologia tecnocratica del taylorismo (identificato con il “progresso tecnico”) che Trentin ritiene una costante del marxismo del Novecento.

Dopo Panzieri, anche il marxista francese Louis Althusser definisce i rapporti di produzione capitalistici come rapporti di sfruttamento, e precisa che “i rapporti di sfruttamento non si manifestano soltanto con l’estorsione del plusvalore”, ma che tali rapporti “determinano radicalmente tutti i rapporti apparentemente ‘tecnici’ della divisione e dell’organizzazione del lavoro” 7 . Althusser, su questa base, critica ogni concezione puramente giuridica dei rapporti di produzione, la quale pretenda di costruire il socialismo semplicemente trasferendo dai capitalisti allo Stato la proprietà dei mezzi di produzione senza curarsi di rivoluzionare anche i rapporti di produzione nel loro aspetto “tecnico”, falsamente oggettivo e “scientifico” 8 .

In proposito, Althusser introduce la nozione di “divisione sociale del lavoro”, intendendo con essa “l’effetto dei rapporti di produzione in quanto rapporti di sfruttamento all’interno dello stesso processo di produzione 9 ”, e afferma recisamente che, nel processo lavorativo capitalistico, ogni divisione “tecnica” del lavoro, ogni separazione tra superiori e sottoposti, dirigenti e diretti (governanti e governati, direbbe Trentin), è in realtà una divisione sociale del lavoro, e come tale fa parte del rapporto di sfruttamento.

Né per Panzieri né per Althusser la lotta di classe è riducibile a mero “conflitto distributivo”; ambedue mettono ampiamente in questione l’organizzazione del lavoro data; ma nessuno dei due, a differenza di quanto fa Trentin, nega o dimentica l’esistenza di un rapporto di sfruttamento capitalistico che determina e fonda i rapporti di alienazione/oppressione nel processo lavorativo.

In effetti, non è possibile comprendere nulla della “dura necessità” (Simone Weil) che costringe i proletari a sottoporsi sul luogo di lavoro ad un potere estraneo, alienante ed opprimente, se si prescinde dal fatto che essi sono appunto costretti, per poter vivere, a vendere la propria forza-lavoro a chi detiene i mezzi di produzione 10 . Nessuno accetterebbe di sottoporsi alle regole dell’organizzazione tayloristica del lavoro, o di altri metodi altrettanto alienanti ed oppressivi, se non fosse a ciò costretto dalla necessità di procurarsi un salario e dalla conseguente paura della disoccupazione 11 .

Quando Trentin nega ogni importanza alla questione salariale, o dichiara addirittura inesistente o irrilevante “nel lungo periodo” il problema della disoccupazione (pp. 233-4), oltre ad insultare i lavoratori precari e i disoccupati (il che è già grave per un sindacalista), si priva con ciò di ogni possibilità di comprendere realisticamente la genesi e la natura dei rapporti di dominio e di alienazione che tanto lo preoccupano.

Ciò che rimane, nella costruzione teorica di Trentin, è invece una sorta di romanzo d’appendice storico, secondo il quale una cricca di managers e di tecnocrati avrebbe imposto per quasi un secolo la propria nefasta egemonia culturale, inducendo capitalisti e lavoratori a realizzare o ad accettare un modello radicalmente “sbagliato” di organizzazione del lavoro.

Nonostante il suo antideterminismo, tuttavia, Trentin non rinuncia a cercare una base materiale al suo programma di lotta contro il “management taylorista”. Dove trova tale base? Nell’esigenza della “qualità totale”, che imporrebbe oggi un nuovo modo di lavorare incompatibile con il taylorismo. Trentin, cioè, dopo aver criticato l’idolatria del Progresso scientifico-tecnico e dell’inarrestabile sviluppo delle forze produttive, si aggrega di fatto agli apologeti del toyotismo e della lean production, del just in time e della qualità totale, nuovi metodi produttivi tutti questi, che schiuderebbero oggi ai lavoratori magnifiche e progressive opportunità di libertà e di realizzazione personale.

Le nuove forme di produzione post-taylorista di cui parla Trentin, in realtà, mettono sì in gioco la “persona” del lavoratore, le sue competenze tecniche, le sue capacità relazionali e comunicative, la sua iniziativa e il suo spirito di adattamento alle nuove situazioni, ma soltanto per subordinare totalmente tutte queste facoltà alla logica della valorizzazione e del profitto capitalistico.

E questo avviene anche quando il processo lavorativo non sia più organizzato con i metodi apertamente autoritari del vecchio taylorismo, e persino quando il lavoratore sia formalmente autonomo. E’ ancora e sempre la legge del valore ad imporsi12 , sotto forma degli imperativi del “mercato”, e a subordinare di fatto la persona e l’attività del lavoratore a regole non meno alienanti di quelle della vecchia catena di montaggio 12 bis .

Qui si vede quanto sia inadeguato il punto di vista di Trentin, che considera unicamente le tecniche e i processi di produzione dei valori d’uso, e trascura completamente il valore di scambio e il mercato, come se il capitalismo e persino l’economia monetaria non esistessero già più.

Trentin si oppone – in nome del suo programma di “riforma della società civile” basato sulla democrazia economica - proprio alle rivendicazioni che, nella situazione attuale, potrebbero più efficacemente contrastare la logica del profitto capitalistico: si oppone cioè tanto alla riduzione generalizzata dell’orario di lavoro, quanto alla richiesta del reddito di cittadinanza (cfr. pp. 234-5).

Sembra però difficile prospettare seriamente obiettivi quali il recupero da parte del lavoratore dei suoi “strumenti specifici (materiali e culturali) di produzione” (p. 177), oppure proporre la “codeterminazione (...) dell’oggetto del lavoro” fra capitalisti e lavoratori, quando si parte dal rifiuto di mettere in questione l’economia capitalistica 13 , e quando si trascurano gli ostacoli derivanti dal fatto che nel capitalismo mezzi e risultati della produzione non possono non essere subordinati all’imperativo del profitto.

La sistematica sottovalutazione della questione dello sfruttamento capitalistico non solo rende inane il proposito di Trentin di partire dalle contraddizioni “specifiche” (p. 136) del rapporto di lavoro subordinato (infatti Trentin abolisce per decreto la principale di queste contraddizioni), ma falsa in modo irrimediabile l’ottica dalla quale vengono considerate le lotte operaie del passato.

Non pare plausibile, infatti, ridurre le lotte operaie del 1968-69 al solo piano della contestazione di un determinato metodo di organizzazione del lavoro, tralasciandone il carattere anticapitalistico e sconfessandone taluni aspetti che a Trentin non piacciono, come ad es. l’egualitarismo salariale 13 bis .

L’atteggiamento di insistita polemica antimarxista assunto da Trentin appare assai schematico ed unilaterale anche nella sua valutazione del pensiero di Gramsci. Trentin non esita a riprendere (in modo spesso strumentale) alcuni degli argomenti antigramsciani di certo operaismo: Gramsci viene di volta in volta accusato di politicismo, statalismo, totalitarismo, idealismo, produttivismo, organicismo industrialista, e viene in ultima analisi assimilato agli altri comunisti della Terza internazionale nell’accusa di avere assimilato acriticamente l’ideologia taylorista, sotto forma di una religione delle forze produttive.

Si tratta di una rivisitazione critica “ingenerosa”, per ammissione dello stesso Trentin (p. 173), il quale sembra mosso più che altro dal proposito di mandare in soffitta una volta per tutte il pensiero marxista italiano, liquidandone l’esponente più prestigioso. Qualunque lettore anche superficiale di Gramsci può giudicare da sé quale forzatura costituisca il tentativo di Trentin di far passare Gramsci per un sostenitore dello stalinismo e della dittatura del partito sulle masse operaie13 ter .

Ma neanche lo sforzo trentiniano di trasformare Gramsci in un apologeta del taylorismo risulta convincente. Infatti, per il Gramsci dei Quaderni del carcere 13 quater (quali che siano i difetti e i limiti della sua analisi, dovuti anche alla mancata conoscenza diretta del fenomeno) il taylorismo non è una mera tecnica produttiva politicamente neutra, ma è invece uno degli aspetti della “rivoluzione passiva” capitalista, un modo con cui i capitalisti tentano di opporsi alla caduta tendenziale del saggio di profitto. Gramsci ritiene che tale tentativo sia destinato a fallire storicamente: quando osserva che il taylorismo induce nel lavoratore un “corso di pensieri poco conformisti 14 ” (lo spinge cioè alla ribellione), Gramsci non fa altro che individuare nel permanere di un irriducibile antagonismo di classe la possibilità politica del fallimento del tentativo capitalistico di evitare la crisi rivoluzionaria 15 .

Fu precisamente questo antagonismo di classe a manifestarsi nelle lotte operaie del periodo successivo al 1968; e si dovrà unicamente al ricostituirsi di tale antagonismo nell’attuale situazione storica – caratterizzata dalla tendenza alla sussunzione reale al capitalismo di tutti gli ambiti della vita sociale – se la presente debolezza delle classi lavoratrici sarà superata16 .



1 Trentin non nega l’utilità sul piano sindacale delle politiche redistributive, ma sostiene che esse debbano servire alla “promozione dell’esercizio di alcuni diritti fondamentali”, quali “il diritto all’informazione, alla conoscenza, alla formazione permanente, alla riqualificazione, alla mobilità professionale. In una parola, quei diritti che consentono di rompere il monopolio dell’informazione e del sapere” (p. 40). Le politiche redistributive non devono invece servire come “compensazione” per il mancato esercizio di tali diritti. Inoltre Trentin si oppone all’egualitarismo salariale, in quanto secondo lui le politiche salariali devono valorizzare la professionalità dei lavoratori (cfr. pp. 38 – 40).

1 bis Di natura prettamente neocorporativa fu, secondo Trentin, l’accordo sindacale del 14 febbraio 1984, il quale sanciva “ben più che il taglio di qualche punto di scala mobile, un sistema di contrattazione centralizzata e periodica del salario che stroncava l’azione collettiva nei luoghi di lavoro” (p. 83). Per contro, in uno dei passaggi più discutibili del suo libro, Trentin difende l’accordo del luglio ’93 (che confermò il blocco dei salari reali deciso l’anno precedente) in quanto avrebbe “finito per ripristinare l’agibilità della contrattazione collettiva nei luoghi di lavoro” (p. 88). In questi ultimi sette anni, in realtà, il principio della contrattazione articolata non sembra aver inciso favorevolmente (per i lavoratori) né sui salari reali, né sugli orari, né sull’organizzazione del lavoro.

1 ter La formulazione è gravemente scorretta. Nella teoria di Marx, infatti, lo sfruttamento è l’appropriazione del plusvalore (rappresentato dal “plusprodotto”) da parte del capitalista, indipendentemente dalla grandezza relativa di tale plusvalore rispetto al “salario” (capitale variabile).

2 Simone Weil, La condizione operaia, trad. di Franco Fortini, Mondadori, Milano 1990, p. 246.

3 Cfr. a tale proposito Lucio Villari, Sul taylorismo delle origini, in L’economia della crisi, Einaudi, Torino 1980, pp. 25 e 27-8. So bene che questo è precisamente il tipo di interpretazione “storicistica” che Trentin rifiuta. Cercherò in seguito di spiegare perché non ritengo affatto convincente lo “antistoricismo” di Trentin.

4 Cfr. Karl Marx, Il capitale, libro I, Editori Riuniti, Roma 1989, pp. 453-62.

5 S. Weil, op. cit., p. 251.

5 bis Per la sua critica a Marx, Trentin si riallaccia esplicitamente a Eduard Bernstein e alla sua confutazione della marxiana “fallace previsione dell’impoverimento assoluto della classe operaia” (p. 177). Di fatto, però, la presunta legge economica della pauperizzazione assoluta della classe operaia non appartiene al Marx maturo: cfr. Ernest Mandel, La formazione del pensiero economico di Karl Marx, Laterza, Bari 1971, pp. 62-3 e 166-70.

5 ter Fra l’altro, anche per il giovane Marx alienazione/dominio e sfruttamento erano concetti identici: cfr. la lettera ad Arnold Ruge del maggio 1843.

6 Citato in Nanni Balestrini – Primo Moroni, L’orda d’oro 1968 – 1977, Feltrinelli, Milano 1997, p. 42. La citazione è tratta da R. Panzieri, Lotte operaie nello sviluppo capitalistico, a cura di Sandro Mancini, Einaudi, Torino 1976.

7 Louis Althusser, Lo Stato e i suoi apparati, Editori Riuniti, Roma 1997, p. 39. Già Marx aveva dimostrato come “la produzione di plusvalore assoluto e relativo determina (...) l’intera configurazione sociale e tecnica del processo capitalistico di produzione” (Il capitale, libro II, trad. di R. Panzieri, Editori Riuniti, Roma 1989, p. 403).

8 Cfr. Althusser, op cit., pp. 49-50.

9 Ivi, p. 40.

10 Cfr. ivi, p. 46.

11 Simone Weil non manca di rilevarlo: “Ci si lamenta di un lavoro troppo duro o di una cadenza impossibile a seguire e ci si sente ricordare brutalmente che si sta occupando un posto ambito da centinaia di disoccupati” (La condizione operaia cit., p. 194; cfr. anche pp. 161, 165, 191, 193, 201-2). Sul capitalismo come sistema fondato sulla paura cfr. Paul M. Sweezy, Il marxismo e il futuro, Einaudi, Torino 1983, p. 99.

12 Ciò indipendentemente dalla questione della maggiore o minore razionalità sociale della legge del valore. Anche Antonio Negri, che contesta tale razionalità e considera il rapporto di valore “solamente la finzione che si stende sulla determinazione sociopolitica del conflitto di classe”, non nega la vigenza di tale legge, “vuota ma efficace”: A Negri, Marx oltre Marx, manifestolibri, Roma 1998, pp. 40 e 178-9.

12 bis Pietro Ingrao e Rossana Rossanda, Appuntamenti di fine secolo, manifestolibri, Roma 1995, pp. 14-16; Marco Revelli, Economia e modello sociale nel passaggio tra fordismo e toyotismo, Ivi, pp. 191-4; Idem, Le due destre, Bollati Boringhieri, Torino 1996, p. 78; Marco Bascetta, L’anima per un salario, in AA. VV., Nuove servitù, manifestolibri, 1994, pp. 10 e 14-15; Augusto Illuminati, La dipendenza personale nel lavoro astratto, Ivi, p. 73; Benedetto Vecchi, Un patriarcato targato Toyota, Ivi, p. 89; M. Bascetta, Oltre il bene comune, in AA.VV., Ai confini dello Stato sociale, manifestolibri, 1995; Christian Marazzi, Produzione di merci a mezzo di linguaggio, in AA. VV., Stato e diritti nel postfordismo, manifestolibri, 1996, pp. 11-12 e passim; Giuseppe Caccia e Luca Casarini, 144, il padrone della voce, Ivi, p. 41; M. Bascetta e Giuseppe Bronzini, Lo statuto che non c’è, Ivi, pp. 65-70; Aldo Bonomi, Il capitalismo molecolare, Einaudi, Torino 1997, pp. 33, 123 e 132; Romano Alquati, Lavoro e attività, manifestolibri, 1997, pp. 135-6, 153, 165-9 e passim. Esemplarmente Riccardo Bellofiore, Pensiero unico e il suo doppio, “la rivista del manifesto”, numero zero, nov. 1999, p. 39: “il superamento della separazione di concezione ed esecuzione del lavoro è (...) lo strumento di una maggiore intensificazione del lavoro e di una maggiore subordinazione alla valorizzazione”.

13 Sulla parola d’ordine della democrazia economica come escamotage concettuale volto ad evitare di porre in questione l’istituzione della proprietà privata, e sulla storica inefficacia di tale strategia per la sinistra, cfr. Perry Anderson, Norberto Bobbio e il socialismo liberale, in Socialismo liberale. Il dialogo con Bobbio oggi, supplemento a “l’Unità” del 9 novembre 1989, pp. 52-3. Bobbio (con la sua concezione della società civile) è uno dei punti di riferimento principali del libro di Trentin, che rivela una chiara ispirazione liberalsocialista.

13 bis Le rivendicazioni di questo ciclo di lotte “cercano deliberatamente di mettere in discussione il potere capitalistico nei suoi vari aspetti: ritmi, igiene e sicurezza, cottimo, qualifiche, aumenti salariali uguali per tutti, ecc.” (Georges Couffignal, I sindacati in Italia, Editori Riuniti, Roma 1979, p. 205; sull’atteggiamento di Trentin, contrario all’epoca all’egualitarismo salariale, cfr. p 225).

13 ter Mi limito a rinviare all’ormai classico studio di Massimo L. Salvadori Gramsci e il problema storico della democrazia, Einaudi, Torino 1973.

13 quater Circa la questione del taylorismo ne “l’Ordine Nuovo”, cfr. le osservazioni di Stefano Musso (Gli operai di Torino 1900-1920, Feltrinelli, Milano 1980, pp. 211-3), il quale rileva che gli ordinovisti, ipotizzando la possibilità di un uso operaio del taylorismo, non colsero adeguatamente l’essenza oppressiva di tale metodo; ma fa notare che loro intenzione espressa era di sottoporre comunque al responso della democrazia operaia ogni ipotesi d’innovazione tecnica nella produzione, e che questa loro posizione non era in alcun modo conciliabile con le pretese dei capitalisti.

14 Antonio Gramsci, Quaderno 22. Americanismo e fordismo, introd. di Franco De Felice, Einaudi, Torino 1978, p. 86.

15 Per questa interpretazione cfr. Gramsci, op. cit., il commento di Franco De Felice alle pp. XXIX-XXXII, 9-11, 87, 97-8, 107-8, 112-14. L’antagonismo si manifesta per Gramsci come auto-organizzazione della classe operaia “negli organismi che rappresentano la fabbrica come produttrice di oggetti reali e non di profitto” (Gramsci, Quaderni del carcere, Einaudi, Torino 1975, p. 1138; anche in Quaderno 22 cit., p. 31), cioè nei Consigli di fabbrica. Che Gramsci ponga l’accento sull’auto-organizzazione e sui bisogni delle masse, e non sulla “produzione di oggetti”, è dimostrato dalla sua polemica con i sostenitori della “qualità” della produzione, contro i quali Gramsci osserva che “la qualità dovrebbe essere attribuita agli uomini e non alle cose” (Quaderno 22 cit., pp. 57-8). Un’osservazione che si può ripetere agli odierni laudatori della "qualità totale" toyotista.

16 Alcune pertinenti indicazioni in questo senso nell’articolo di Dan Krasivyi Per la ricomposizione del lavoro sociale, “Riff Raff” n. 2, marzo 1994; una traduzione in inglese è disponibile in Internet. Circa il dibattito italiano sul postfordismo cfr. l’articolo di Steve Wright Confronting the crisis of fordism: Italian debates around social transition, “Reconstrution” n. 6, 1995.

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