La pagina letteraria di Salvatore Talia

CENTRI DI PERMANENZA TEMPORANEA:
UNA VERGOGNA DA CANCELLARE SUBITO


1. Detenuti senza giudizio. Introduzione

Sul settimanale "L'Espresso", n. 40 del 13 ottobre 2005, Fabrizio Gatti, un giornalista coraggioso, ha messo sotto gli occhi dell'opinione pubblica la realtà della violenza, degli abusi, delle prevaricazioni di cui i migranti sono vittime all'interno del Centro di Permanenza Temporanea di Lampedusa.

Ma cosa sono i Centri di Permanenza Temporanea? Il loro nome, piuttosto vago e auto-contraddittorio, non spiega molto, e più che altro fa venire in mente l'ultimo capitolo di 1984, dove Orwell riporta gli slogan dello Stato totalitario da lui immaginato: la libertà è schiavitù, la guerra è pace... Dai giornali e dalla televisione sappiamo qualcosa di più preciso: i CPT sono quei luoghi dove vengono rinchiusi i "clandestini" in attesa di espulsione. I Centri di Permanenza Temporanea sono, quindi, dei luoghi di detenzione.

A questo punto, fermiamoci un attimo e ricordiamo che la detenzione, nel nostro ordinamento, rientra nell'ambito del diritto penale: può essere una pena irrogata dal giudice a chi è stato condannato in via definitiva per aver commesso determinati reati; oppure può essere una misura cautelare coercitiva, disposta sempre dal giudice nei confronti di chi è gravemente indiziato di aver commesso reati di particolare gravità, quando sussistono pericoli di fuga, di inquinamento delle prove o di ripetizione del reato.

In ogni caso la detenzione di un cittadino non può essere disposta senza le particolari garanzie che, in uno Stato di diritto, sono proprie del procedimento penale. E' il fondamentale principio della libertà personale, detto anche habeas corpus, sancito dalla Costituzione: "La libertà personale è inviolabile. Non è ammessa forma alcuna di detenzione [...] né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell'autorità giudiziaria, e nei soli casi e modi previsti dalla legge [...]. La legge stabilisce i limiti massimi della carcerazione preventiva (art. 13). L'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva (art. 27)".

Le cose stanno diversamente per quanto riguarda gli stranieri extracomunitari, ai quali può accadere di essere detenuti in un CPT. Per capire più in dettaglio, a termini di legge, cosa sono i CPT, cercheremo innanzitutto di spiegare chi sono coloro che vi vengono rinchiusi.

2. Gente da cacciare via. Chi è soggetto ad espulsione

I Centri di Permanenza Temporanea sono strutture istituite con la legge 6 marzo 1998, n. 40 (la cosiddetta legge Turco-Napolitano); il relativo articolo è entrato a far parte del Testo Unico sull'Immigrazione, decreto legislativo 25 luglio 1998 n. 286, art. 14, ed è stato successivamente modificato dalla legge 30 luglio 2002, n. 189 (cosiddetta legge Bossi-Fini). L'art. 14 del Testo Unico si occupa della "esecuzione dell'espulsione" dei cittadini stranieri extracomunitari privi di un valido titolo di permanenza sul territorio italiano.

Il Testo Unico prevede che, di regola, gli stranieri extracomunitari privi del visto d'ingresso vengano respinti alla frontiera (cioè si impedisce fisicamente il loro ingresso nel territorio nazionale); mentre è prevista l'espulsione amministrativa con decreto del Prefetto nei confronti degli stranieri extracomunitari che:
a) sono entrati nel territorio dello Stato eludendo i controlli alla frontiera,
b) oppure sono entrati con regolare visto d'ingresso ma non hanno chiesto nei termini il permesso di soggiorno,
c) oppure hanno il permesso di soggiorno scaduto e non ne hanno chiesto il rinnovo,
d) oppure ancora, appartengono a categorie di persone soggette all'applicazione di misure di prevenzione, in quanto ritenute (fra poco vedremo come e da chi) socialmente pericolose, perché dedite ad attività delittuose, a traffici delittuosi, alla commissione di reati che offendono la sicurezza pubblica, o perché appartenenti alla criminalità organizzata.

Il Testo Unico prevede inoltre che l'espulsione possa essere disposta dal Ministro dell'Interno per motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello Stato; e prevede alcune altre ipotesi di espulsione nei confronti degli stranieri già condannati penalmente. Qui non ci occuperemo di queste ipotesi ma soltanto della cosiddetta espulsione amministrativa, che abbiamo menzionato sopra.

Vediamo subito che l'insieme degli stranieri soggetti ad espulsione amministrativa è eterogeneo e ricomprende sia gli stranieri sprovvisti, anche senza loro colpa, del visto d'ingresso e/o del permesso di soggiorno (i cosiddetti "clandestini"), sia gli stranieri provvisti di tali titoli, ma ritenuti dalla Polizia, e più precisamente dal Questore, pericolosi per la sicurezza o l'ordine pubblico.
 
La categoria degli stranieri socialmente pericolosi è definita nel Testo Unico mediante il riferimento a una legge (l. 27 dicembre 1956, n. 1423, sulle misure di prevenzione), già di per sé discutibile, che si applica anche ai cittadini italiani. Solo che, per i cittadini italiani, la legge 1423/56 prevede una varietà di misure preventive, delle quali la meno grave è il semplice avviso orale - con cui, in parole povere, il Questore avverte un soggetto che la Polizia lo sta tenendo d'occhio e lo invita a "rigare dritto"; mentre per gli stranieri, la "misura" prevista dal Testo Unico è sempre l'espulsione.

Si ha così una omogeneità di trattamento, e quindi una equiparazione sancita per legge, fra "clandestino" e presunto delinquente.

In più, la "presunzione di delinquenza" (che già di per sé è un'aberrazione, essendo il contrario della presunzione di innocenza che dovrebbe valere come principio generale) è completamente scollegata da qualsiasi procedimento penale in corso: gli extracomunitari, in quanto siano ritenuti "socialmente pericolosi", sono soggetti ad espulsione sulla base di semplici sospetti da parte della Polizia. E non necessariamente devono essere sospetti di reati particolarmente gravi: come commenta il sociologo Alessandro Dal Lago, questa normativa permette l'espulsione anche di "un ambulante abusivo che vende oggetti su una spiaggia" (A. Dal Lago, Non-persone. L'esclusione dei migranti in una società globale, Milano 2004, pag. 40).

3. Rinchiudere, sorvegliare, deportare. Come si prevede che avvenga l'espulsione

Ad eccezione degli stranieri il cui permesso di soggiorno è scaduto (ai quali il Prefetto, di regola, intima di lasciare il territorio nazionale entro 15 giorni), in tutti gli altri casi il Testo Unico prevede che l'espulsione venga effettuata mediante l'"accompagnamento" alla frontiera a mezzo della forza pubblica.

E' a questo punto che appaiono i Centri di Permanenza Temporanea. L'art. 14 del Testo Unico sull'immigrazione, al comma primo, stabilisce infatti quanto segue:

"Quando non è possibile eseguire con immediatezza l'espulsione mediante l'accompagnamento alla frontiera ovvero mediante il respingimento, perché occorre procedere al soccorso dello straniero, ad accertamenti supplementari in ordine alla sua identità o nazionalità, ovvero all'acquisizione di documenti per il viaggio, ovvero per l'indisponibilità di vettore o altro mezzo di trasporto idoneo, il questore dispone che lo straniero sia trattenuto per il tempo strettamente necessario presso il centro di permanenza temporanea e assistenza più vicino, tra quelli individuati o costituiti con decreto del Ministro dell'interno (...)."

La norma è contorta, mal scritta e poco leggibile, comunque la situazione ivi prevista è la seguente: c'è uno straniero che deve essere respinto o espulso dal territorio nazionale (perché appartiene a una delle categorie che abbiamo visto sopra, al paragrafo 2). Ma non è possibile eseguire subito l'espulsione, perché:
a) lo straniero deve prima essere soccorso, perché ad esempio è stato trovato in mare ed era in fin di vita, oppure:
b) la sua identità è incerta e occorre accertarla con più precisione, oppure:
c) l'aereo per l'espulsione non è pronto o non sono pronti i documenti per il viaggio.
In tutti questi casi, il Questore dispone che lo straniero sia "trattenuto" (ma l'espressione giusta sarebbe internato o recluso) in un CPT.
Che si tratti di una forma di reclusione è confermato dal comma 6 dello stesso art. 14: "Il questore, avvalendosi della forza pubblica, adotta efficaci misure di vigilanza affinché lo straniero non si allontani indebitamente dal centro e provvede a ripristinare senza ritardo la misura nel caso questa venga violata".

Anche qui, quando si tratta di definire i casi in cui è previsto l'internamento nel CPT, vediamo che le fattispecie previste dal Testo Unico sono eterogenee, e vanno dalle esigenze di carattere umanitario alle semplici difficoltà tecniche o burocratiche che ostacolano l'espulsione immediata. Si ha l'impressione che la legge non sia granché interessata alla diversità delle condizioni concrete dei singoli individui: questi ultimi sono considerati in blocco, sottilizzare è superfluo, vanno espulsi e basta; e per rendere più pratica la procedura d'espulsione, li si ammassa tutti assieme in uno stesso luogo recintato e presidiato dalla polizia.

Il Testo Unico stabilisce poi che l'ordine di internamento nel CPT emesso dal Questore dev'essere inviato al Giudice entro 48 ore e deve essere convalidato dal Giudice entro le 48 ore successive.
La convalida del Giudice comporta la "permanenza" dello straniero nel CPT per un periodo di trenta giorni, prorogabili per altri trenta; durante questi sessanta giorni l'espulsione può essere eseguita in qualsiasi momento. Allo scadere del termine, se l'espulsione non è stata eseguita, "il questore ordina allo straniero di lasciare il territorio dello Stato entro il termine di cinque giorni. L’ordine è dato con provvedimento scritto, recante l’indicazione delle conseguenze penali della sua trasgressione" (art. 14, comma 5-bis). Lo straniero può proporre ricorso alla Corte di Cassazione contro i decreti di convalida e di proroga. Ma questo ricorso non sospende l'esecuzione della misura. (L'inosservanza volontaria, da parte dello straniero, dell'ordine di lasciare il territorio dello Stato è ora punita con sanzioni penali, introdotte dalla legge Bossi-Fini; ricordiamoci però che queste sanzioni riguardano dei soggetti, che hanno già subìto un periodo di detenzione nei CPT senza essere accusati di aver commesso alcun reato).

L'intervento obbligatorio del Giudice per la convalida, e quello eventuale della Corte di Cassazione, sono evidentemente stati introdotti in questa normativa per evitare il rischio che la stessa venisse subito dichiarata contraria alla Costituzione. Difatti, la Costituzione stabilisce che tutti i provvedimenti restrittivi della libertà personale adottati dall'autorità di PS devono essere comunicati entro 48 ore all'autorità giudiziaria e convalidati da questa entro le successive 48 ore; e che contro i provvedimenti giurisdizionali sulla libertà personale è sempre ammesso il ricorso in Cassazione per violazione di legge.

Ma il controllo giudiziario, così come è previsto nel Testo Unico sull'immigrazione, è quasi solamente formale. Infatti, la convalida del provvedimento con cui il Questore dispone l'internamento nel CPT avviene, sentito l'interessato, "nelle forme previste dall'art. 737 e seguenti del codice di procedura civile", cioè mediante il cosiddetto procedimento in camera di consiglio: un tipo di procedimento caratterizzato da rapidità, sommarietà e formalismo, che è previsto dal codice di procedura civile per materie nelle quali non è in gioco la tutela di diritti personali e per le quali di solito il Giudice decide sulla base della sola documentazione cartacea. Nel nostro caso è previsto che il Giudice debba almeno "sentire" lo straniero colpito dall'ordine di internamento nel CPT: ma siamo ben lontani dalle garanzie di difesa che il codice di procedura penale prevede minuziosamente per chi appunto è sottoposto a procedimenti penali. Eppure la reclusione in un CPT (fino a sessanta giorni!) e la susseguente espulsione sono misure che incidono gravemente sulla libertà di una persona.

Osserviamo, in particolare, l'incongruità di uno dei casi in cui, a norma di legge, uno straniero può essere internato anche per due mesi in un CPT: "quando occorre procedere ... ad accertamenti supplementari in ordine alla sua identità". Se confrontiamo questa ipotesi con una analoga prevista per i cittadini italiani, il cosiddetto fermo di identificazione (previsto dal D.L. 21 marzo 1978 n. 59), ci accorgiamo dell'ingiustificata disparità di trattamento: gli agenti e gli ufficiali di PS possono accompagnare nei propri uffici chiunque rifiuta di dichiarare le proprie generalità, o fornisce generalità false, e trattenerlo per il tempo strettamente necessario ai soli fini dell'identificazione e comunque per non oltre 24 ore. Quali "accertamenti supplementari" possono ragionevolmente consentire di tenere una persona prigioniera anche per 60 giorni?

Uno dei paradossi della normativa che stiamo esaminando è che gli stranieri sottoposti a procedimento penale perché accusati di aver commesso dei reati, godono (almeno sulla carta) di garanzie e tutele maggiori di quelle riservate ai cosiddetti "clandestini". I primi, infatti, hanno (sulla carta) lo stesso trattamento riservato ai cittadini italiani che si trovano nella medesima situazione; i secondi invece non vengono quasi considerati dei soggetti di diritti: la legge sembra considerarli piuttosto come materiale umano nocivo, di cui liberarsi al più presto tramite l'espulsione.

4. Quello che la legge non dice. Discrepanze tra diritto e fatti nei CPT

Tutto quello che ho detto finora si basa sul solo esame della legge. In realtà, come sappiamo dal reportage di Fabrizio Gatti che ho citato all'inizio e da altre fonti giornalistiche, la situazione di fatto nei CPT è anche peggiore.

La legge dice: "lo straniero è trattenuto nel centro con modalità tali da assicurare la necessaria assistenza ed il pieno rispetto della sua dignità." Ma nel CPT di Lampedusa Fabrizio Gatti è stato costretto a dormire fra i liquami, ha assistito a pestaggi e ad ogni sorta di violenza fisica e psicologica nei confronti degli altri internati. La legge dice: "è assicurata in ogni caso la libertà di corrispondenza anche telefonica con l'esterno", ma nel CPT di Lampedusa a chi chiede di comprare una scheda telefonica neanche si risponde. La legge parla di "convalida" giudiziaria del provvedimento di trattenimento nel CPT, ma Fabrizio Gatti è stato otto giorni a Lampedusa senza mai essere condotto davanti a un giudice. E così via.

Tutto ciò, però, non dipende dalla difettosa esecuzione di una norma "giusta", ma piuttosto dalla coerente applicazione dei princìpi ispiratori della norma stessa, al di là della sua formulazione letterale che in alcuni punti suona ipocrita: quale "dignità" si pretende di assicurare a chi è detenuto ingiustamente, a chi è costretto a vivere in una condizione di radicale desoggettivazione?

Qualcuno potrebbe essere abbastanza cinico da obbiettare quanto segue: "i clandestini sono per definizione delle persone che la nostra società ha deciso di non accettare, che ha destinato all'espulsione; non c'è da stupirsi che siano trattate senza troppi riguardi; in altre società e in altri contesti storici, agli indesiderati era riservata una sorte ben più dura; noi, che siamo civili e democratici, ci limitiamo tutto sommato ad internarli per qualche settimana per poi riportarli con la forza da dove sono venuti".

Non ho ancora visto nessuno articolare esplicitamente un ragionamento come quello che ho appena esposto, anche se non mi stupirei di vederlo prima o poi sulle pagine di qualche giornale di centro-destra. Tuttavia, una simile argomentazione, apparentemente "realista" fino alla brutalità, non corrisponderebbe alla verità dei fatti. Torniamo al reportage di Fabrizio Gatti, al momento in cui le autorità competenti gli annunciano che la sua "permanenza" nel CPT sta per terminare. "Rachid, 31 anni, marocchino, sbarcato ieri sera, gli spiega come funziona: 'Ti danno un foglio di via. Tu per cinque giorni lo tieni e ti sposti fin dove devi arrivare. Poi lo butti. Io farò così, a Padova da mio cugino ho già un lavoro che mi aspetta. Modi diversi di entrare in Italia non ce ne sono.'" ("L'Espresso", num. cit., pag. 49, corsivo mio).

La procedura "regolare" per l'ingresso e la permanenza in Italia è infatti così macchinosa, burocratica ed escludente (già troppo rigida nella legge Turco-Napolitano, è stata resa ancora più restrittiva dalla Bossi-Fini), da risultare praticamente impossibile da seguire per tanti migranti, per i quali la condizione di "clandestinità", con il conseguente passaggio attraverso il CPT, diventa dunque una strada obbligata per venire a lavorare nel nostro paese.

A riprova di quanto ho appena detto, cito il seguente passo da un articolo di Elvio Pasca pubblicato su "Il Sole-24 Ore" di lunedì 28 novembre 2005, pag. 18: "... fino a oggi la programmazione dei flussi d'ingresso non è riuscita a far fronte alle richieste di imprese e famiglie. Per meno di 100mila ingressi extraUe (stagionali compresi) autorizzati per il 2005, a fine giugno erano già state presentate [dai datori di lavoro] quasi 240mila domande: 150mila sono quindi cadute nel vuoto. Non è un mistero, poi, che la stragrande maggioranza dei lavoratori stranieri per i quali si presenta domanda è già in Italia senza un permesso di soggiorno, e utilizza i flussi d'ingresso per regolarizzare la loro posizione" (corsivo mio).

D'altra parte, gli stranieri internati nei CPT sono molti e sono in continuo aumento: circa 25.000 presenze annue nel 2005, mentre nel 2003 erano 16.924 (cfr. articolo di Livio Pepino in "Fuoriluogo", supplemento mensile de "il manifesto", n. 11 del 25 novembre 2005, pag. 6). Al di là di ogni considerazione di carattere morale, sarebbe materialmente molto difficile espellere forzatamente tutte queste persone, a meno di non mettere in piedi tutta una struttura organizzativa appositamente preordinata alla deportazione (evito di tracciare paralleli con altri avvenimenti storici).

Allora, sempre sospendendo il giudizio morale, ci si potrebbe chiedere: se i CPT non servono alla loro finalità dichiarata (identificare e trattenere i "clandestini" da espellere), a cosa servono?

5. Imparare chi comanda. La reale funzione dei CPT

Ricapitoliamo. I Centri di Permanenza Temporanea sono di fatto delle prigioni, dove vengono rinchiusi gli stranieri in attesa di espulsione. Ma la fattispecie degli stranieri soggetti ad espulsione è definita dalla legge in modo del tutto iniquo; parimenti iniqua è la disciplina che la stessa legge contempla per essi, disciplina che fra l'altro prevede un lungo periodo di detenzione senza accusa di reato e senza processo. Se poi dal diritto si passa al fatto, si scopre che nei CPT regnano la violenza e l'abuso nei confronti degli "ospiti", e che d'altra parte non è sempre vero che i CPT siano l'anticamera dell'espulsione. Per molti extracomunitari che rimangono a lavorare in Italia, il CPT è solo un passaggio obbligato, il primo impatto con il nostro territorio e le nostre leggi. Questo primo impatto è dunque caratterizzato dall'ingiustizia e dalla prevaricazione.

Se il CPT non sempre risponde alla sua funzione manifesta e dichiarata, che consisterebbe nell'essere una fase del procedimento di espulsione, esso risponde sempre a una più importante funzione latente, non dichiarata ma non per questo meno reale ed efficace.

Tale funzione consiste in questo: il migrante arrivato in Italia, una volta entrato in un CPT capisce infallibilmente la sua posizione nella scala sociale (al gradino più basso), il suo ruolo (subalterno), il grado dei suoi diritti e delle sue tutele (zero), e infine cosa potrà attendersi dalle istituzioni (solo repressione). In altre parole il CPT ha la funzione di "creare" socialmente una figura di lavoratore senza diritti, corvéable à merci, ricattabile in quanto perennemente sottoposto alla minaccia dell'espulsione, sfruttato senza possibilità di riscatto.

E' necessaria una riforma della normativa sulla condizione giuridica dello straniero, che assicuri la fine della discriminazione dei migranti e la loro parità di trattamento rispetto ai cittadini italiani. Come primo, necessario passo in questa direzione, non si può non chiedere la chiusura immediata di tutti i CPT: si tratta di istituzioni concentrazionarie non suscettibili di "riforma" e di "miglioramento" ma da abolire senz'altro, sia perché ingiuste in sé, sia per il loro nefasto significato simbolico che costituisce un intollerabile sfregio inferto alla democrazia e allo stato di diritto.  

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