La pagina letteraria di Salvatore Talia

Miscellanea di recensioni

Queste recensioni sono state pubblicate originariamente su Ciao.com (che ne possiede i diritti di diffusione). Chi volesse leggere le altre mie recensioni presenti su quel sito, non avrebbe che da seguire il link precedente.

Indice degli autori

Aragon, Louis
Balzac, Honoré de
Benjamin, Walter

Bradbury, Ray
Campanella
, Tommaso
D'Annunzio, Gabriele
Eliot, Thomas Stearns

Kerouac, Jack
Kraus
, Karl
MacDonald, Ian (sui Beatles)
Mila, Massimo

Negri, Toni
Pasolini, Pier Paolo
Pavese, Cesare


Louis Aragon, L'ira e l'amore, a cura di Gilberto Finzi, Oscar Mondadori 1999, pp. 287, £ 15.000.

Louis Aragon (1897-1982) era un poeta surrealista francese, contemporaneo di Breton, di Eluard e di Prévert. Ha scritto alcune delle poesie d'amore più intense che io conosca, dedicate tutte alla sua compagna, Elsa Triolet (sorella di Lilia Brik, che era la donna del poeta russo Majakovskij).
E' particolarmente commovente, nei suoi versi, l'espressione del suo sentimento di riconoscenza e di devozione profonda nei confronti di una donna alla quale il poeta sente di dovere tutto: "Tu vins au coeur du désarroi / pour chasser les mauvaises fièvres / et j'ai flambé comme un genièvre / à la Noel entre tes doigts / Je suis né vraiment de ta lèvre / Ma vie est à partir de toi" ("Nel cuore del caos sei venuta / le febbri maligne a cacciare / come ginepro a Natale / mi sono acceso fra le tue dita / sono nato davvero dalle tue labbra / la mia vita esiste a partire da te", pp. 210-213).
Interessanti anche le sue poesie d'ispirazione politica: Aragon aderì al Partito comunista e, durante la seconda guerra mondiale, partecipò alla Resistenza antinazista con poesie che esprimono, oltre ai suoi aneliti di giustizia sociale, anche il suo patriottismo radicato nella tradizione del progressismo francese, e che non rinunciano però all'espressione autobiografica del suo amore per Elsa. E' proprio il suo forte senso di adesione sentimentale e poetica alla tradizione letteraria francese a caratterizzare Aragon fra gli altri poeti del surrealismo.
La sua produzione poetica piuttosto ampia spesso non sfugge al rischio di un'eccessiva "facilità" e scade a volte in un certo retorico sentimentalismo. Tuttavia le sue poesie migliori, una volta lette, sono difficili da dimenticare. Se avete già letto Prévert e vi è piaciuto, potete rivolgervi ad Aragon con una certa fiducia.
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Honoré de Balzac, La ricerca dell'assoluto, trad. di Andrea Zanzotto, introduzione di Ferdinando Camon, Garzanti, pp. xxiv - 184, £ 12.000.

Questo romanzo del grande scrittore francese (1799 - 1850), padre del moderno realismo, pubblicato nel 1834, è la storia di un'ossessione: il protagonista, Balthazar Claes, discendente di un'antica e facoltosa famiglia della borghesia fiamminga, dilapida in pochi anni quasi tutto il suo patrimonio in costosi esperimenti di chimica, inseguendo la chimera di scoprire l'essenza ultima della materia ("L'Assoluto"). La moglie di Balthazar, Joséphine, che lo ama perdutamente, muore di dolore osservando l'inarrestabile progredire della sua follia.
La storia si svolge all'epoca delle guerre napoleoniche, e può essere letta come una metafora del fallimento delle smisurate ambizioni dell'imperatore francese.
Balzac indaga il contrasto fra lo slancio romantico e prometeico dell'uomo di genio e la tranquilla, idillica vita patriarcale della provincia (rappresentata dalla buona e devota Joséphine): da questo punto di vista, il romanzo può essere accostato al Faust di Goethe e anche al Frankenstein di Mary Shelley (rimanendo, come valore letterario, più vicino al primo che al secondo).
Al livello più superficiale, è possibile anche una lettura in chiave autobiografica (e non sfugga l'assonanza fra il nome del protagonista e il cognome dello scrittore): Balzac si identificava forse con lo sfortunato Balthazar, come sembrano suggerire, nel testo, certe scoraggiate osservazioni sull'incompatibilità fra il genio e una felice vita sentimentale.
L'analisi del rapporto fra Balthazar e la moglie è molto sottile: il conservatore Balzac vi ottiene fra l'altro il risultato (certo involontario) di porre in discussione la concezione tradizionale della vita familiare, basata sulla totale subordinazione della moglie e dei figli al volere del capofamiglia. L'eccessiva abnegazione di Joséphine, che non osa opporsi alla funesta ossessione di suo marito (il quale d'altronde l'ama e accetterebbe di rinunciare ai suoi esperimenti se lei glie lo chiedesse seriamente), rischia infatti di provocare la rovina della casa.
E' nota l'ammirazione di Marx ed Engels per il realismo balzacchiano, meno noto (lo racconta Paul Lafargue) che Marx rimase molto impressionato da un racconto di Balzac intitolato Le chef-d'oeuvre inconnu, tematicamente affine a La ricerca dell'assoluto in quanto anch'esso narra delle ossessioni di un uomo di genio. La mescolanza inestricabile di realismo e romanticismo in Balzac non può mancare di affascinare ogni lettore.
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Walter Benjamin, L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, trad. di E. Filippini, introd. di C. Cases, nota di P. Pullega, Einaudi 2000 (1.a ed. 1966), pp. 184, £ 26.000.

Questo volume raccoglie una serie di brevi saggi di critica artistica e letteraria, scritti da W. Benjamin fra il 1931 e il 1939.
Lo scritto, assai celebre, che apre il libro e gli dà il titolo fu pubblicato nel 1936 ed è un'indagine sui mutamenti indotti nella produzione e nella fruizione dell'arte dalle nuove tecniche di riproduzione e diffusione di massa, introdotte nei primi decenni del '900. Queste tecniche permettono di diffondere riproduzioni assai fedeli di opere d'arte del passato, oppure di creare opere subito disponibili in migliaia d'esemplari identici (si pensi al cinema, alle fotografie o ai dischi). Nel secondo caso, le nuove tecniche sono in grado di porre in questione lo stesso concetto di autenticità dell'opera: mentre, ad es., riguardo alla riproduzione di un dipinto del Rinascimento ha senso distinguere fra l'originale e la copia, e la fruizione dell'originale è qualitativamente diversa da quella della copia, questa distinzione perde di significato riguardo a un film, che viene proiettato contemporaneamente in centinaia di sale e davanti a migliaia di spettatori, nessuno dei quali dispone di una fruizione privilegiata rispetto agli altri.
Secondo Benjamin, l'effetto principale della diffusione in serie delle opere d'arte o delle loro riproduzioni è costituito dalla "perdita dell'aura", cioè dalla scomparsa di quel particolare alone di sacralità e di trascendenza che sembrava circondare l'esemplare originale e autentico d'un opera d'arte. Nell'analisi di Benjamin, l'aura dell'opera ha la sua lontana origine nel carattere di culto religioso che avevano le prime manifestazioni artistiche (Benjamin cita quale esempio le pitture rupestri). Minacciata già nell'Ottocento dal sorgere della cultura di massa, l'aura trovò momentaneo rifugio nell'estetismo decadente e nella teoria dell'"arte per l'arte". Caratteristica delle avanguardie del '900 è, secondo Benjamin, di avere recepito nella propria prassi artistica la scomparsa dell'aura: tramite l'uso provocatorio di materiali degradati, già il dadaismo mirava ad escludere l'atteggiamento tradizionale di rapimento contemplativo di fronte all'opera d'arte, così anticipando il cinema, il quale, con il movimento continuo delle immagini, rende impossibile ogni contemplazione. Per Benjamin, al carattere "cultuale" dell'opera si sostituisce oggi un nuovo carattere, politico in senso lato, in quanto l'arte si propone ora di influire sul comportamento delle masse (qui è impossibile non pensare alla pubblicità, benché Benjamin non ne tratti espressamente). Tale influenza può anche esercitarsi in senso reazionario: il fascismo, secondo Benjamin, non è altro che il tentativo di subornare le masse, proponendo loro, con le nuove tecniche, gli antichi valori sacrali mistificati, allo scopo di organizzarle sotto forma di folla adorante un Capo supremo. "Il fascismo tende [...] a un'estetizzazione della vita politica. Alla violenza esercitata sulle masse, che vengono schiacciate nel culto di un duce, corrisponde la violenza da parte di un'apparecchiatura, di cui esso si serve per la produzione di valori cultuali" (pag. 46). Benjamin contrappone, all'estetizzazione della politica operata dal fascismo, la politicizzazione dell'arte tentata dalle avanguardie marxiste; nella prassi delle avanguardie, la politicizzazione e la democratizzazione dell'arte conducono alla riduzione della distanza fra artista e pubblico, e tendenzialmente alla fine della distinzione fra i due ruoli. Benjamin propone come modelli positivi, in questo senso, il cinema di Eizenstein e il teatro epico di Brecht. Proprio l'opera di Bertolt Brecht è l'oggetto dei due saggi conclusivi di questo libro, uno dei quali è una fine e pionieristica analisi di alcune poesie del drammaturgo tedesco. (Quando, nel 1940, Benjamin si suicidò per non cadere prigioniero dei nazisti, Brecht, che era suo amico, gli dedicò un breve e sconsolato epicedio).
Il saggio di Benjamin sull'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica ha avuto una grande influenza nel pensiero estetico contemporaneo, aprendo la via alle principali analisi sull'arte e sulla cultura di massa, in particolare quelle della scuola di Francoforte: ma, mentre queste ultime pervengono a un giudizio interamente negativo e di condanna, l'atteggiamento di Benjamin è più aperto e tende a cogliere, delle nuove forme culturali, tanto i rischi quanto le potenzialità di emancipazione, anticipando da questo punto di vista il pensiero postmoderno. La drastica alternativa, nel saggio di Benjamin, fra uso fascista e uso comunista delle nuove tecniche può apparire oggi troppo rigida (bisogna tenere conto del momento storico in cui il saggio fu scritto), ma all'interno di essa l'autore trova modo d'inserire tutta una serie di osservazioni e di spunti assai felici e fecondi: oltre che sul cinema e sulla fotografia, anche sulla fruizione artistica dell'architettura, o sui nuovi effetti dati dalla "ricezione nella distrazione" (pp. 45-6). Molte di queste osservazioni suonano profetiche (ad es. la seguente: "ogni uomo contemporaneo può avanzare la pretesa di venir filmato", p. 35). In conclusione, si tratta di un testo fondamentale del '900 e di una lettura assai stimolante per chiunque s'interessi d'arte. Consiglio vivamente il libro anche a tutti coloro che volessero accostarsi per la prima volta al pensiero di Benjamin, anche perché è di molto più agevole comprensione rispetto ai saggi compresi nell'altra storica antologia Angelus Novus (Einaudi 1962; la riedizione più recente è del '95), la quale introdusse in Italia questo importante autore.
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Ray Bradbury, Fahrenheit 451 - Cronache marziane, trad. di Giorgio Monicelli, I Miti Mondadori, £ 7.900.

Questo libro comprende i due testi più noti dello scrittore americano Ray Bradbury (nato nel 1920): Fahrenheit 451 è un romanzo pubblicato nel 1953, Cronache marziane una raccolta di racconti pubblicati in volume nel 1950.
Il romanzo, da cui il regista François Truffaut trasse nel 1966 un film altrettanto famoso, è ambientato in una società futura nella quale possedere libri è un crimine, e un corpo specializzato di "vigili del fuoco" ha il compito di bruciarli. Uno di questi vigili, Guy Montag, ha una crisi di coscienza e finisce per unirsi a un gruppo di "intellettuali dissidenti", ridotti a vivere alla macchia come vagabondi, che si sono assunti il compito di imparare a memoria i classici della letteratura per tramandarli alle generazioni a venire.
Il romanzo è influenzato chiaramente da 1984 di George Orwell, ma, a differenza di questo, non descrive uno Stato retto da un terribile regime dittatoriale, bensì una società formalmente democratica nella quale però il consumismo, la massificazione e il continuo lavaggio del cervello operato dai mass-media hanno condotto alla scomparsa della cultura e dello spirito critico nella quasi totalità della popolazione; una società dove gli artisti e gli intellettuali sono, per comune consenso, considerati dei pericolosi asociali da neutralizzare.
Bradbury si oppone alla società di massa in nome dei valori minacciati dell'Arte, della Cultura e della Poesia, e lo fa con argomenti in fondo non troppo dissimili da quelli dei sociologi della scuola di Francoforte (Adorno, Horkheimer, Marcuse), suoi contemporanei. Il guaio è che, sulla base di queste idee, il romanziere Bradbury si ritiene obbligato a scrivere in modo "artistico" e "poetico", e così le sue pagine, gonfie di lirismo, sono zeppe di immagini e di metafore "poetiche" il più delle volte superflue e fuori luogo. Ad esempio: Montag, per sfuggire a due suoi colleghi che lo vogliono arrestare, li mette fuori combattimento facendone cozzare le teste l'una con l'altra: i due cadono con "il fruscio di una sola foglia di autunno". Poche pagine più in là, la gamba ferita di Montag era "come un pezzo di pino bruciato che egli si portasse appresso come penitenza di non si sa quale oscuro peccato" (dove non è chiaro se sia un'usanza quella di trascinarsi appresso per penitenza pezzi di pini bruciati). E potrei continuare a lungo: il libro è scritto tutto così.
La "poeticità" della scrittura, cercata in modo così programmatico e insistente, finisce per ridursi a una sorta di funzione specializzata, data una volta per tutte, reificata come la società che Bradbury vuole criticare. E il romanzo finisce per assumere una funzione consolatoria: il lettore, per il solo fatto di tenere in mano un libro (quali che siano i suoi contenuti), è indotto a sentirsi anche lui un coraggioso intellettuale dissidente, superiore alla massa dei consumatori passivi e amorfi.
Tutto questo è un peccato, perché Bradbury ha comunque un certo talento narrativo e il suo romanzo, una volta che si decide di sorvolare sulle metafore di dubbio gusto, si legge con piacere. E, in fondo, tutti possono rendersi conto che la società descritta da Bradbury è quella in cui viviamo noi oggi.
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Tommaso Campanella, La città del sole e altri scritti, a cura di Franco Mollia, Oscar Mondadori, 1991, pp. 179, £ 11.000.

Questa antologia di scritti di Tommaso Campanella (1568 - 1639) comprende:
1. il dialogo La città del sole (1602), che è una delle più celebri opere politiche del Rinascimento italiano, un'utopia che prende spunto da Platone e da Tommaso Moro per delineare un ideale di società razionalistico-teocratica;
2. una scelta delle poesie, che sono perlopiù composizioni di metrica petrarchista (canzoni, sonetti: alcune composizioni però abbandonano gli schemi petrarchisti e precorrono la metrica barbara di Carducci) e di contenuto filosofico-dottrinale;
3. una scelta delle lettere.
Il volume si apre con un'introduzione del curatore che fornisce ragguagli sul pensiero e sulla vita tormentata del filosofo calabrese, il quale rimase in carcere ventisette anni, accusato di eresia e di aver tentato di organizzare un'insurrezione contro gli Spagnoli, che all'epoca dominavano il regno di Napoli.
L'idea di rieditare in edizione economica, assieme alla Città del sole di Campanella, anche opere interessanti e di scarsa circolazione come le sue poesie e le sue lettere, è senz'altro apprezzabile, ma va detto che l'apparato critico di questa edizione è troppo succinto. Non tutti i passi di più difficile comprensione per il lettore moderno sono spiegati adeguatamente nelle note al testo; soprattutto le lettere richiederebbero un apparato di note più corposo e puntuale. Si desidererebbe un'introduzione maggiormente focalizzata sull'esposizione del pensiero di Campanella. Nel testo, poi, ricorre più volte il simbolo tipografico [...] che di solito indica l'omissione di parole o frasi: ma se è così, non è spiegato chi abbia effettuato questi "tagli" (Franco Mollia oppure i curatori delle edizioni precedenti di cui Mollia si è servito?) e con quali criteri.
Della sola Città del sole preferisco tutto sommato la vecchia edizione a cura di Adriano Seroni (ora nell'Universale Economica Feltrinelli), meno piacevole come veste tipografica ma dotata di un apparato critico più soddisfacente.
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Gabriele D'Annunzio, La figlia di Iorio, introduzione di Giovanni Antonucci, Newton Compton, pp. 95, £ 1.000.

Questa "tragedia pastorale" in tre atti, in versi, di Gabriele D'Annunzio (1863 - 1938) fu rappresentata la prima volta al Teatro Lirico di Milano nel 1904, con Lyda Borelli nella parte di Ornella e Irma Gramatica nella parte di Mila di Codro, la "figlia di Iorio" (si pronuncia Iòrio, con l'accento sulla prima o).
La tragedia è ambientata nel Medioevo, nelle campagne abruzzesi. Il pastore Aligi s'innamora di Mila, una donna di pessima reputazione, sospetta di stregoneria, ma in realtà d'animo nobile e puro; prossimo alle nozze, Aligi abbandona la sua promessa sposa ed inizia a convivere con Mila, fra la disapprovazione della sua famiglia e dei suoi compaesani. Un giorno, il padre di Aligi, uomo brutale e violento, tenta di stuprare Mila: Aligi è costretto ad ucciderlo e Mila, per salvare Aligi dalla punizione, lo discolpa, sostenendo di essere stata lei ad indurlo ad uccidere, mediante un sortilegio. Mila viene condannata al rogo, e soltanto l'angelica sorella di Aligi, Ornella, comprende che Mila è innocente; mentre Mila viene trascinata al rogo dal popolo in tumulto, Ornella la benedice e le preannuncia il paradiso.
Trovo Gabriele D'Annunzio uno scrittore detestabile: tronfio, ampolloso, vacuo, superficiale, narcisista, una sorta di "parvenu" della letteratura decadente, che tanto più si rivela triviale e di cattivo gusto quanto più pretende di apparire raffinato e prezioso. Anche nella Figlia di Iorio non mancano le consuete smaccate volgarità da prosseneta d'alto bordo, che hanno fatto la fortuna di questo autore presso la piccola borghesia italiana (si vedano ad es. le grossolane allusioni a sfondo erotico a spese della protagonista, nella scena V del primo atto, degne di certi film con Lando Buzzanca, oppure le insolenze del padre di Aligi nella scena III dell'atto secondo). A tratti irritante è poi il "pastiche" linguistico, ispirato a Francesco d'Assisi e a Jacopone da Todi (!), e artificioso il clima pseudo-sacrale del dramma, con il quale D'Annunzio pretenderebbe di far rivivere la tragedia greca.
Nonostante tutto questo, devo ammettere che questa tragedia di D'Annunzio non manca di efficacia drammatica e che il personaggio di Mila di Codro, la "strega" che soccombe coraggiosamente dopo aver sfidato l'ordine patriarcale della società contadina (troppo in anticipo sui tempi: anche oggigiorno la "coppia di fatto" Aligi - Mila incontrerebbe la disapprovazione di qualcuno), raggiunge una sua indubbia grandezza, soprattutto nelle ultime scene. Tutto sommato, questa è forse una delle meno illeggibili fra le opere di D'Annunzio.
Questa edizione supereconomica è preceduta dall'introduzione di G. Antonucci, uno studioso di teatro, dannunziano di stretta osservanza, che difende il "suo" autore con competenza e tenacia degne di miglior causa.
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Thomas Stearns Eliot, Quattro quartetti, trad. di Filippo Donini, Garzanti, Milano 1976, pp. 115.

T. S. Eliot (1888 - 1965), il poeta americano naturalizzato inglese autore fra l'altro de La terra desolata (1922) e di Assassinio nella cattedrale (1935), scrisse i Quattro quartetti fra il 1936 e il 1942.
La crisi spirituale che Eliot aveva espresso potentemente nelle sue poesie degli anni '10 e '20 trovò uno sbocco nel 1927, allorché il poeta si convertì alla Chiesa anglicana. Dalla conversione in poi, l'esperienza religiosa divenne centrale nella poesia di Eliot, come si vede in Mercoledì delle ceneri (1930) e per l'appunto in questi Quattro quartetti.
I Quartetti si possono considerare come una meditazione solenne sul tempo e sull'eternità, e sui modi attraverso cui nella vita individuale è possibile avere una percezione di ciò che eternamente è: di Dio, cioè, ma anche del senso della Storia, del nostro posto in essa, del fatto che noi siamo il momento attuale di una Tradizione che ci precede e che continuerà dopo di noi. Eliot tenta di evocare questa consapevolezza nel lettore, servendosi a volte di un linguaggio concettualmente denso, filosofico, a volte invece di immagini vivide ed immediate.
E' una poesia nobile, complessa e non facilmente accessibile e devo confessare che molti passi per me rimangono oscuri. Alcuni luoghi risultano familiari a chi conosce la precedente produzione poetica di Eliot, come ad es. la descrizione della folla in metropolitana nella terza sezione del primo quartetto, oppure il bel passo dantesco nella seconda sezione dell'ultimo quartetto. Ci sono anche dei riferimenti alla Seconda guerra mondiale, che Eliot sembra interpretare in termini religiosi come una prova e un'espiazione, un'ulteriore occasione per elevare l'anima a Dio attraverso la sofferenza.
Se devo essere sincero, preferisco l'Eliot della fase antecedente alla conversione. La soluzione mistico-religiosa che Eliot propone nelle sue ultime poesie può forse non risultare così universalmente valida e convincente quanto la denuncia della alienazione contemporanea contenuta nella Terra desolata. Non c'è bisogno di dire che, in ogni caso, è un poeta importante la cui conoscenza vale la pena di approfondire.
Che io sappia, questa di Donini è l'unica traduzione italiana dei Quattro quartetti ed è arricchita di utili note al testo a cura dello stesso traduttore.
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Jack Kerouac, Sulla strada (titolo or. On The Road), trad. di Magda De Cristofaro, I Miti Mondadori 1995, £ 5.900

Pubblicato per la prima volta negli Stati Uniti nel 1957 e in Italia nel 1959, è probabilmente uno dei libri più sopravvalutati del XX secolo. Continuamente citato ancora oggi dai giornali, dalla televisione (le rare volte che la televisione si occupa di libri) e soprattutto dalla pubblicità come il capolavoro della scuola beat - a scapito di altre opere molto più importanti come Urlo di Allen Ginsberg, Il pasto nudo di William Burroughs o Bomb di Gregory Corso -, Sulla strada è in realtà un catalogo superficiale e mal scritto di finte trasgressioni, finte rivelazioni mistiche e finte "mitiche" rivoluzioni, una specie di innocuo vademecum per giovanotti del ceto medio che, prima di mettersi definitivamente la cravatta, vogliano divertirsi un po'. Monotona la sua prosa, di derivazione hemingwayana, ma senza un milligrammo del nitore formale e del senso tragico dell'esistenza propri di Hemingway; stucchevole e artificioso l'entusiasmo con cui l'autore narra le noiosissime presunte trasgressioni dei suoi personaggi - esperienze quanto mai ordinarie, banali e alla portata di tutti, come alzare un po' il gomito, correre con la macchina oppure aspirare marijuana, che vengono gabellate per eccezionali e uniche.
Alla fine della lettura ci si rende conto come non uno solo dei capisaldi ideologici dell'America maccartista sia stato realmente messo in discussione in questo romanzo: non il razzismo, non il militarismo, non l'omofobia o il consumismo o la discriminazione di genere o il perbenismo. I messicani e i neri sono figure puramente folcloristiche e pittoresche. Il ruolo della donna?... Vale la pena di riportare la seguente battuta del personaggio di Dean, che potrebbe essere tratta pari pari da una puntata de "Gli antenati":
"Ecco, vedi, amico, quella sì che sarebbe una vera donna per te. Mai una parola dura, mai una lamentela o un cambiamento d'umore; il suo uomo può venire a casa con chicchessia e a qualunque ora della notte e far quattro chiacchiere in cucina e bere birra e andarsene ogni volta che gli pare. Questo è un uomo, e quello è il suo castello" (pp. 297-8).
Yabba-dabba-dù!
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Karl Kraus, La terza notte di Valpurga, trad. di Paola Sorge, Editori Riuniti, Roma 1996, pp. 270, £ 22.000.
Questa recensione ha vinto il secondo premio del concorso indetto da Ciao.com e www.pickwick.it per la migliore recensione letteraria su Ciao.com scritta nel mese di novembre 2000.

Karl Kraus (1874 - 1936), lo scrittore e critico austriaco autore del dramma Gli ultimi giorni dell'umanità (1922), direttore della rivista "Die Fackel", autore di molti degli aforismi più indovinati e pungenti del XX secolo (una scelta dei quali è stata tradotta in italiano da Roberto Calasso nel volume Detti e contraddetti, Adelphi 1972), scrisse La terza notte di Valpurga nel 1933. Il libro è un violento, angosciato pamphlet contro il nazismo. Kraus riporta e commenta meticolosamente tutte le notizie dei giornali tedeschi che documentano i primi crimini dei nazisti, denuncia la viltà e l'opportunismo degli intellettuali che si sono subito messi al servizio del nascente regime, e descrive con costernata indignazione un quadro di stupidità e brutalità impressionanti. Lo sforzo dello scrittore è quello di mantenere viva, in una situazione storica disperata, la voce dell'intelligenza, di non soccombere di fronte alla barbarie totale. Ma è una lotta impari, e lo stesso Kraus si rende conto che le armi della critica e della denuncia, dell'ironia e del sarcasmo, da sole, sono tragicamente insufficienti a contrastare una tale aberrazione. Tutto il libro è un tentativo di reagire al senso di scoramento e d'impotenza suscitato dalla visione dell'orrore nazista trionfante. Memorabile l'inizio: "Su Hitler non mi viene in mente nulla".
Questo libro di Kraus, eroico esempio di resistenza umana di un intellettuale contro l'idiozia dominante, ha atteso a lungo prima di essere tradotto in italiano. Il che è comprensibile, perché la densissima prosa di Kraus non dev'essere per niente facile da tradurre. A questo proposito mi permetto di segnalare una svista. Il "Birnamwald" di cui parla Kraus a p. 254 non è altro che il "bosco di Birnan": questo importante riferimento all'ultimo atto del Macbeth di Shakespeare (in cui il tiranno viene finalmente sconfitto: ed è forse l'unico barlume di speranza nel libro di Kraus) sembra essere sfuggito alla traduttrice.
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Ian MacDonald, The Beatles. L'opera completa, ed. italiana a cura di F. Zanetti, Oscar Mondadori 1997, pp. 484, £ 15.000 (titolo or. Revolution in the Head, 1994)

Un libro indispensabile per i fan dei Beatles e interessante per tutti coloro a cui piace la musica pop. L'autore è un musicologo britannico che ha preso veramente sul serio l'oggetto del suo libro: le canzoni dei Beatles sono analizzate cronologicamente una per una, nell'ordine di registrazione, dal n. 1 Love me do del 1962 fino al n. 186 I, me, mine del 1970, con dovizia di dettagli tecnici, ampia messe d'informazioni storiche sulla loro genesi e sul contesto in cui nacquero (l'autore sfoggia una conoscenza profonda del repertorio rock e pop degli anni '60) e grande onestà di giudizio. Alcune canzoni, giudicate minori da MacDonald, sono liquidate in poche righe, ad altre sono dedicate sei o sette pagine di analisi; ma, benché si possa non essere sempre d'accordo con le valutazioni dell'autore, queste non appaiono mai arbitrarie o superficiali.
MacDonald non nasconde una sincera antipatia per l'hard rock (il che lo induce a stroncare canzoni che a mio parere non lo meritano, come Helter Skelter o While my guitar gently weeps) e una certa disapprovazione nei confronti del consumo di droghe a fini creativi (ciò che forse gli fa valutare in modo poco equanime Across the universe o Glass onion). McCartney gli sta visibilmente più simpatico di Lennon. Ma tutto questo non gli impedisce di scrivere pagine assai fini e penetranti su capolavori come Julia, Tomorrow never knows, Strawberry Fields forever e tanti altri. L'introduzione al volume, che tenta di delinare una interpretazione storico-critica del decennio 1960/70, è troppo ambiziosa e denota un certo moderatismo ideologico. Complessivamente un ottimo libro.
In Gran Bretagna ne è uscita un'edizione aggiornata, che comprende anche l'analisi delle canzoni contenute nei 3 doppi album della "Beatles Anthology". Si spera in una prossima traduzione italiana di questa nuova edizione.
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Massimo Mila, Breve storia della musica, Einaudi.

Massimo Mila (1910 - 1988) è stato uno dei più importanti musicologi italiani del '900. La musica di cui tratta il libro è quella impropriamente detta "classica" o "colta", che va dall'antichità greca, passando per Monteverdi, Bach, Mozart, Beethoven, Verdi, Wagner, Debussy, Stravinskij, fino a Stockhausen e Berio, e ad esclusione quindi del jazz, del rock, del pop, del folk, delle varie musiche etniche europee ed extraeuropee.
La prima edizione di questo testo risale al 1963: si tratta di un libro "classico" sotto molti aspetti, consultato e letto da generazioni di studenti e di appassionati, per i quali i giudizi espressi nel testo hanno costituito un imprescindibile punto di riferimento. Molte delle valutazioni di Mila risultano oggi superate: ad es. i giudizi limitativi su musicisti come Schumann, Schubert, Ciaikovskij, Bruckner, o la vera e propria stroncatura di Richard Strauss (particolarmente stridente con la rinnovata fortuna critica, fors'anche eccessiva, di cui questo musicista da vari anni gode). Mila è fondamentalmente un classicista e l'estetica musicale romantica e post-romantica gli è poco congeniale. Tuttavia, le sue riflessioni sul romanticismo musicale e sulla musica del '900 sono ancora oggi interessanti e stimolanti. Mila è maestro nel caratterizzare efficacemente ciascuno dei musicisti di cui parla; le sue classificazioni e i suoi giudizi non si dimenticano anche quando non si condividono. Un'opera irrinunciabile per tutti i musicofili.
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Toni Negri, Pipe-line. Lettere da Rebibbia, Einaudi, Torino 1983 (fuori catalogo).

Il filosofo italiano, arrestato nel 1979, condannato con una sentenza che è stata molto discussa, ancora oggi in carcere (dopo un periodo di latitanza a Parigi e dopo il suo rientro in Italia nel 1997), scrisse questo libro nel 1982, costruendolo come una serie di 20 lettere ad un interlocutore francese, nelle quali l'autore racconta il proprio percorso umano e politico: dapprima come militante del movimento cattolico veneto negli anni '50, poi a fianco degli operai di Porto Marghera e come collaboratore dei "Quaderni Rossi", poi come principale teorico di "Potere Operaio" e dell'area dell'autonomia, fino all'arresto e alla detenzione.
Il libro presuppone già una certa conoscenza della storia della sinistra extraparlamentare di quegli anni e non è adatto a fungere da introduzione a queste problematiche. Ciò soprattutto a causa del linguaggio ellittico, obliquo e spesso oscuro adoperato da Negri, il quale scrive all'interno di tutto un sistema di riferimenti e di allusioni storico-culturali che possono essere compresi solo da chi abbia già una certa conoscenza della materia. Negri inoltre si lascia andare a divagazioni lirico-autobiografiche non sempre perspicue. Diciamo che il libro è utile soprattutto a chi desideri approfondire le problematiche del movimento operaio degli anni '70 e voglia conoscere il punto di vista di uno dei protagonisti dei movimenti di quell'epoca: ma la forma letteraria piuttosto involuta, oltre ad ostacolare la lettura, induce persino a dubitare della serietà del progetto politico di cui Negri si fece promotore.
Toni Negri è comunque un intellettuale e un pensatore di un certo interesse, i cui libri sono tradotti in tutte le lingue (fra quelli ancora reperibili nelle librerie italiane segnalo Il lavoro di Dioniso, in collaborazione con M. Hardt, manifestolibri 1995, Marx oltre Marx, manifestolibri 1998, e Impero, Rizzoli 2000); la sua prigionia è probabilmente ingiustificata.
Pipe-line vuol dire oleodotto: il titolo vorrebbe evocare l'energia, la forza materiale del movimento operaio.
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Pier Paolo Pasolini, Teorema, Garzanti, Milano 1999, pp. 206, £ 19.000.

Ultimamente va di moda parlare male dei romanzi di P. P. Pasolini (1922-1975). Ogni qual volta un rotocalco propone il solito gioco "della torre", chiedendo a vari letterati quali classici "oggi" siano da conservare e quali da rifiutare, non manca mai il critico o lo scrittore che, in modo drastico e perentorio e con l'aria di chi si decide a dire finalmente le cose come stanno, dichiara "ormai illeggibile" questo o quel romanzo di Pasolini, quando non tutta la sua opera narrativa.
Il romanzo Teorema uscì nel 1968, contemporaneamente al film omonimo; la storia è la stessa ed è molto lineare: un giovane bellissimo, misterioso e taciturno, sconvolge la vita di una famiglia dell'alta borghesia, capitando in casa loro come ospite e letteralmente seducendo uno dopo l'altro tutti i membri della famiglia: padre, madre, figlio, figlia e anche la cameriera. Di essi, i primi quattro dopo quest'esperienza piombano nella follia o nella nevrosi: il padre, in particolare, dona la sua fabbrica ai suoi operai e comincia a vagare nudo e disperato per il mondo. La cameriera, invece, torna al suo paese natale e inizia ad operare prodigi; infine si fa seppellire viva e si tramuta in una fonte di acqua miracolosa.
Il significato dell'apologo è del tutto esplicito: mentre il popolo possiede ancora il sentimento del sacro, la borghesia è del tutto incapace di entrare in rapporto con l'irrazionale, con il religioso, con l'altro da sé. Questo costituisce la sua vera condanna.
La prosa di Teorema è anch'essa molto semplice, pianamente descrittiva; le parti narrative sono inframmezzate da alcune sezioni in versi.
Teorema è un brutto romanzo? Non direi. Certo, è molto schematico; ma (a parte il fatto che si tratta di una didascalicità voluta dall'autore e dichiarata sin dal titolo) la tesi che lo sorregge è originale, forte e veramente provocatoria. Questo è già qualcosa in un periodo come l'attuale, quando non si può dire che i romanzi trabocchino d'idee. Vista la situazione, non so se ci si possa permettere di proclamare "illeggibili" libri come Teorema (o come gli altri romanzi di Pasolini), per poi magari applaudire entusiasti di fronte all'ultimo prodotto narrativo "trendy" imposto dall'industria culturale.
Questa edizione è del tutto priva di apparato critico: il che è strano, essendo ormai Pasolini un classico del Novecento.
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Cesare Pavese, Dialoghi con Leucò, Einaudi Tascabili 1999, pp. 226, £ 15.000.

Cesare Pavese (1908 - 1950) pubblicò quest'opera nel 1947, nella collana "Saggi" dell'editore Einaudi. Ma non si tratta di scritti di carattere saggistico: sono ventisei dialoghetti poetico-filosofici, di un genere affatto peculiare (si possono accostare alle Operette morali di Leopardi). Dialogano fra loro personaggi della mitologia dell'antica Grecia, noti e meno noti: Edipo, Orfeo, Giasone, Circe, Odisseo, Endimione, Achille... Il titolo del libro si riferisce all'unico personaggio che compare in più di un dialogo, la ninfa Leucotea.
Il critico Eugenio Corsini divide i Dialoghi in tre gruppi: i dialoghi "della terra", "degli dèi" e "degli uomini". I dialoghi della terra corrispondono alla sfera del caotico, del primordiale e dell'irrazionale, della violenza primigenia, delle forze scatenate della natura e degli istinti; i dialoghi degli dèi trattano del "cosmo sereno dell'ordine, dell'armonia e della pace", della legge razionale che si oppone al caos; la condizione umana è dolorosamente lacerata, tesa fra questi due estremi, e il mito e la poesia sono per Pavese gli strumenti attraverso i quali gli esseri umani possono comprendere e riscattare in qualche modo la pena e la colpa delle origini.
Quella di Pavese è una concezione fondamentalmente tragica, che però in questi dialoghi si esprime spesso in forma ellittica ed ironicamente allusiva. Molti di essi sono dei veri e propri poemetti in prosa e vi si possono riconoscere stilemi e movenze ritmiche che richiamano subito alla mente le più famose poesie di Pavese. La scrittura è sempre suggestiva, raffinata, anche se a volte un po' artificiosa nella sua ostentata colloquialità. C'è qualche fastidioso influsso dannunziano. Uno dei dialoghi che mi hanno impressionato di più ad una prima lettura è senz'altro La belva, che esprime potentemente una concezione della donna caratterizzata dall'ossessione romantico-decadente di sesso e morte. Molto bello il dialogo tra Edipo e Tiresia (I ciechi), che si svolge prima che abbiano inizio le vicende narrate da Sofocle, in un clima di ironia tragica rarefatta e composta che mi ricorda certi racconti di Borges.
Questa edizione è preceduta da un' interessante introduzione del filosofo Sergio Givone, ed è seguita, fra l'altro, da note filologiche al testo e da un'utile e abbastanza estesa antologia della critica. Un'edizione tascabile ben fatta di un classico della nostra letteratura: non saprei individuare nessuna particolare categoria di lettori a cui consigliarlo, si tratta di un libro che forse non è fra i più fortunati di Pavese ma che tutti gli amanti della buona letteratura secondo me dovrebbero conoscere.
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