DAGLI  ESERCITI  PREUNITARI  ALL’ESERCITO  ITALIANO

 

1.PREMESSA

 

Taluni esperti militari fanno risalire le origini dell’Esercito Italiano alle milizie paesane, istruite da Emanuele Filiberto duca di Savoia, con un editto del dicembre 1560, in base ai criteri enunciati da Niccolò Macchiavelli nel suo trattato “Dell’arte della Guerra”.

In effetto, gli atti ufficiali, relativi alla istituzione dell’Esercito Italiano, si identificano nei Regi Decreti 25 marzo 1960 e 23 marzo 1862 che sanzionano rispettivamente gli ordinamenti Fanti e Petitti. Tali decreti stabiliscono che i contingenti regolari e le formazioni volontarie delle regioni annesse al nuovo Regno d’Italia, vengano immesse nel precostituito Esercito sardo – piemontese. Questo, infatti, meglio si prestava ad assimilare unità di così diversa provenienza ed a favorire un processo di amalgama, necessario per rinvigorire nei giovani chiamati alle armi, il senso unitario della Nazione, contrastato in alcune regioni, dalla sopravvivenza di tradizioni, usi e costumi locali. Tutto questo anche in considerazione che l’Esercito sardo – piemontese possedeva già una salda organizzazione disciplinare e amministrativa, valide esperienze di guerra, maturate nelle precedenti campagne, incluse quelle di indipendenza nonché antiche, fulgide e gloriose tradizioni militari.

Ciò premesso, passo a trattare dei vari strumenti militari dell’Italia pre-unitaria, riferendomi a quelli degli Stati di maggiore importanza politica, militare ed economica. Il tempo a disposizione invero ristretto nonché la mutevole configurazione  politica dell’Italia nel corso dei secoli, consigliano di trattare degli eserciti pre – unitari, essenzialmente riferiti all’Italia pre – napoleonica anche nella considerazione, peraltro storicamente accertata, che proprio in questo periodo e precisamente alla fine del ‘700 venivano gettate le basi del successivo processo storico della unificazione d’Italia, in virtù di un vento nuovo portato dalla rivoluzione francese. Una eccezione può essere fatta per l’esercito pontificio il quale, legato eminentemente alla figura del Papa ed alle sorti del Papato, ha una storia molto più lunga.

 

 

 

 

2.L’ESERCITO PONTIFICIO

 Tratto da ACCADEMIA DEL WARGAME - L'ESERCITO PONTIFICIO di RICCARDO AFFINATI 
http://greyhawk.sincretech.it/www.treemme.org/netgamers/ACCADEMIA/Speciali.htm

 

a.    Premessa

 

Lo Stato Pontificio, nel corso dei periodi storici, ha sempre cercato di dotarsi di un mezzo per proteggere i suoi beni temporali e la sua autonomia religiosa. Il mezzo più semplice era quello di eleggere un campione delle sue ragioni ( in genere un sovrano di uno Stato vicino) che con le sue truppe difendesse o ristabilisse la volontà del Pontefice; in cambio riceveva onori, denaro ed una sorta di riconoscimento delle sue rivendicazioni. Ad ogni modo appena era possibile, lo Stato Pontificio cercava di costituire una propria piccola forza indipendente che per lo meno mettesse al riparo il Papa da eventuali rivolte locali, dalle razzie dei pirati barbareschi o dalle nefaste influenze delle nobili famiglie romane. L’arte della guerra, l’organizzazione, la logistica e le uniformi assumevano  i modelli dell’esercito alleato del momento.

Le Truppe mercenarie hanno avuto sempre una fortissima influenza nelle costituzione degli eserciti pontifici.

Il problema del comando dell’esercito era sempre un problema complesso: talvolta si aveva paura di affidare a persone native dello Stato, il comando delle Forze armate, anche se le famiglie romane degli Orsini e dei Colonna fornirono più di dodici dei maggiori Condottieri.

 

b.Medioevo

 

Ai suoi inizi, l’Esercito Pontificio poteva contare solamente sulle milizie armate dei singoli signori romani, non avendo la possibilità di mettere in campo un esercito ben equipaggiato e preparato per le battaglie campali. Le richieste di aiuto venivano rivolte a Bizantini, Longobardi, Franchi e Normanni. La tattica generale si basava sulle cariche dei cavalieri, più o meno protetti dalle fanterie. In sintesi, di Esercito pontificio vero e proprio si poteva parlare, solamente intorno al 1049 con l’ascesa al pontificato di Papa Leone IX e tale rimaneva fino al 1320 con caratteristiche, peraltro ben contraddistinte: un nucleo di cavalieri nobili e/o mercenari, da aliquote variabili di milizia romana (fanteria) e da una buona fanteria mercenaria, suddivisa in arcieri, balestrieri e fanti con lancia, scudo e cotte di cuoio  o maglia. A questo contingente più o meno permanente si aggiungeva tutta una serie di contingenti alleati, provenienti da varie città: Perugia, Ancona, Spoleto…

Tra le fila delle Armate pontificie nel 1072 facevano la loro apparizione i primi cavalieri mercenari tedeschi (Swabian), sostituiti nel 1250 da quelli francesi. Nel periodo dei Comuni, la cavalleria pontificia era formata da due corpi: il primo ottimamente equipaggiato, con pesanti corazze e gualdrappe per i cavalli; il secondo era dotato di corazze più leggere e generalmente con cavalcature prive di protezione. La strategia variava a seconda della dimensione e della diversità nella composizione. In particolare, le cavalleria pesante, di norma mercenaria puntava su una carica impetuosa per travolgere il nemico, talvolta con movimenti volti ad aggirarlo o coglierlo di sorpresa.

 

c.Rinascimento

 

Comparivano nelle file dell’Esercito pontificio le compagnie di ventura a fianco delle truppe mercenarie. Erano questi gli anni in cui i Papi da Avignone cercavano di recuperare il controllo effettivo degli Stati della Chiesa, ove per lunghi anni aveva dilagato l’anarchia; le compagnie di ventura si dimostravano, per la bisogna, ottimi strumenti.

La devastazione ed il saccheggio sistematico erano a tutti gli effetti operazioni di guerra  economica tremendamente efficaci che, per un piccolo stato potevano risultare più letali di una sconfitta sul campo. I mercenari pontifici si davano a tali massacri tra i civili che le loro tristi imprese costituiscono tuttora una macchia indelebile negli annali bellici italiani. Non tutti gli stati potevano permettersi di assoldarne due o tre contemporaneamente; lo Stato Pontificio ne aveva una comandata da Piero Gianpaolo Orsini su sei squadre per un totale di 800 cavalieri e 200 fanti. La configurazione dell’Esercito prevedeva una articolazione bipolare: da un lato c’erano le compagnie mercenarie dei condottieri e dall’altro un numero crescente di soldati di ogni tipo assunti singolarmente dallo stato stesso per compiti e periodi specifici. Vi erano cavalieri mercenari e nobili aristocratici, cavallerie leggere, balestrieri e archibugieri a cavallo, milizia civica e fanterie spagnole armate di coltellacci e scudi, archibugi e bombarde, picche lanzichenecchi e  romagnole. In sintesi un crogiolo militare, una macchina complessa ed articolata in apparenza confusionaria che solo una attenta ed esperta amministrazione poteva farla funzionare.  In questo periodo l’Esercito pontificio si manteneva su 8.000/ 10.000 unità, ben oltre il consentito dalla Lega Italica;l’eccellenza della fanteria pontificia dipendeva dal reclutamento operato in ottime zone quali le vallate  montane della Romagna, dell’Umbria e dell’Abruzzo.

Fino a tutto il settecento le sorti militari del  Papato passavano nelle mani della Spagna e venivano impiegati eserciti di massima costituiti da bande assoldate nei paesi tedeschi e negli stati di Casa d’Austria.

I reggimenti di fanteria avevano dieci compagnie di 120/150 combattenti che si disponevano su dieci righe, formazione questa pesante e massiccia, con uguale proporzione di piccheri e moschettieri della fanteria con picche lunghe 18 piedi e moschetti a miccia dalla lunghissima canna, adoperabili solo con supporto fisso, lenti al tiro che combattevano in ordine sparso per  coprire le unità di fanteria. I corazzieri, catafrattati nella antica foggia degli uomini d’arme, combattevano armati di spadone diritto e di due grosse pistole, disposti su 8/10 righe.

L’azione della cavalleria continuava ad essere quella tradizionale: fuoco ed eccezionalmente urto; quella leggera non aveva armi difensive, adoperava la spada e la pistola; quella croata, vera cavalleria leggera, adoperava anche una carabina.

Le Artiglierie campali - che avevano una portata media di 800 passi – potevano eseguire sia tiri radenti che curvi, per la presenza già di obici, mortai e pezzi per tiri a mitraglia.

L’arte della guerra, anno dopo anno anche per l’introduzione delle armi da fuoco, passava dalle massicce formazioni di fanti, armati di archibugi e picche, a snelle formazioni di linea armate di moschetti con eventuale baionetta innestata in grado di ribattere le cariche della cavalleria.

 

d.Da Napoleone al Risorgimento

 

L’ Esercito pontificio, che avrebbe dovuto difendere il Papa dalle mire di Napoleone, era allo sbando, a causa delle finanze dissestate. Inoltre nel corso di una dimostrazione repubblicana, il Generale francese Duphot, interponendosi tra milizie pontificie e dimostranti, veniva ucciso da queste ultime; per questo motivo il  Direttorio ordinava l’occupazione di Roma. Il Papa Pio VI lasciava Roma e si rifugiava prima in un convento a Siena e poi nella Certosa di Firenze.Difendevano il Papa il Corpo delle “Lance spezzate” così chiamati in ricordo degli antichi cavalieri che “spezzavano la lancia in onore della causa e/o del Signore che erano chiamati a difendere; essi traevano origine dai centum cives et nobilitate electi, SS Pontificis, perpetui custodes, creati da Paolo IV nel 1555. Il Corpo veniva sciolto all’avvento della Repubblica Romana.

L’esercito papalino aveva in realtà una fama peggiore di quella che meritasse. Nel 1848 la divisione regolare pontificia si era battuta valorosamente ed anche i reggimenti indigeni,passati alla Repubblica romana nel 1849 avevano data buona prova. In uno Stato profondamente disorganizzato, scriveva il Generale Mollinary, l’Esercito rappresentava l’unica sola forza ben organizzata. Al principio del 1860, Pio IX aveva aderito al progetto del belga Monsignor De Merode  di costituire un grosso esercito di crociati, provenienti da ogni parte d’Europa, per difendere lo Stato pontificio. Nel settembre il nuovo Esercito contava 15.000 uomini per due terzi stranieri, in prevalenza austriaci, francesi, belgi, irlandesi e di altri paesi, pervasi da sacro furore ma privi di un addestramento valido e credibile. Queste forze affrontavano i Piemontesi che in pochi giorni e senza troppo spargimento di sangue, occupavano le Marche e l’Umbria. Nel 1867, l’esercito pontificio disponeva di 10.000 soldati regolari al comando del Generale svizzero Kanzler (Zuavi, Carabinieri esteri, fanteria indigena, Legione d’Antibo, Dragoni, Artiglieri) truppe queste che a Mentana si battevano bene anche grazie alle Forze francesi venute in loro aiuto. Nella battaglia di Porta Pia (1970), l’organico saliva a 15.000 soldati, ma contro i 50.000 piemontesi non c’era nulla da fare.

Compiuta la conquista militare di Roma, un plebiscito nel Lazio ne sanciva l’unione al Regno quale nuova capitale.

Con la fine dello Stato Pontificio e lo scioglimento del suo esercito, l’esigenze militari erano limitate solo alla difesa del Papa e ad assicurare l’ordine nell’ambito dello Stato Città del Vaticano; per questo bastavano solo due Corpi: Corpo della Guardia Svizzera e Corpo di Vigilanza. Ma ciò esula dalla trattazione.

 

3.L’ARMATA SARDA

 

a.Comando

 

L’Esercito piemontese aderiva – come tutti gli altri eserciti nel corso dei millenni -  alle condizioni particolari dello Stato sabaudo che lo aveva espresso; e per condizioni intendo: la situazione locale ed estera; gli orientamenti politici; la posizione geo – topografica; le condizioni economiche; il potenziale umano.

Il comando dell’Armata sarda spettava al re, supportato da uno stato maggiore.Gli effettivi sulla carta raggiungevano nel 1774 circa 10.0000 uomini a fronte di un organico che ne prevedeva la metà. In realtà non essendo fissati limiti di età e congedi, molti rimanevano in servizio anche decrepiti e malati. Solo alla fine del ‘700 veniva regolamentata la durata del servizio. Il personale era inquadrato da 28 Ufficiali generali tutti nobili, mentre nei vari gradi delle armi di Fanteria e Cavalleria i “borghesi” erano appena il 20% (sempre di meno man mano che si saliva nei gradi), nelle armi dotte i nobili rappresentavano il 78%.

 

b.Le reali truppe

 

Fanteria:costituiva per l’Armata sarda la base dell’Esercito ed era molto variegata nella forma. Si divideva in Fanteria d’ordinanza nazionale; Legione leggera; Fanteria d’ordinanza estera; Fanteria provinciale e Legione degli accampamenti; Corpi franchi e Milizia territoriale.

L’Ordinamento variava da ternario a quaternario(3 Dipartimenti di 3 B. ciascuna su 3 btg. di 4 cp.) per assumere alla fine del ‘700 quello binario (2 Linee su 4D. 8 Ali su 16 B., 32 rgt. 64 btg.,128 centurie, 256 cp. 

 

Fanteria d’ordinanza nazionale: era costituita da personale ( fucilieri e granatieri) reclutato nel ducato di Savoia ed aveva una forza cangiante in relazione alle esigenze del momento. Normalmente si  aggirava intorno alle 20.000 unità, ma raggiungeva verso la fine del ‘700 circa 50.000 unità con la mobilitazione contro la Francia.

 

Legione Leggera: era una forza speciale, proposta nel 1759 e costituita nel 1774 con il compito di sorvegliare le frontiere e reprimere il contrabbando, la cui anzianità veniva attribuita  all’attuale Guardia di Finanza. Il Corpo, che si proponeva all’inizio di reclutare esclusivamente personale straniero per evitare connivenze con la popolazione locale, in realtà  si orientava su personale nazionale: La forza massima era di circa 2.100 unità.

 

Fanteria d’ordinanza estera: rappresentava oltre la metà della fanteria(15 su 29 btg.) ed arruolava francesi, svizzeri, valdesi, tedeschi, siciliani, lombardi. Anche queste forze erano soggette a variazione di volume organico in relazione alle esigenze. Il reggimento estero per antonomasia era quello costituito da francesi e italiani della forza organica di 1.270 effettivi.

 

Fanteria Provinciale: articolata in reggimenti, veniva costituita all’inizio del ‘700 in tempo di pace ed in posizione “quadro”, con ufficiali a paga ridotta. La truppa era reclutata per coscrizione in ragione del 3% dei “descritti”. La ferma era di 20 anni poi ridotti a 18 per la Savoia e 12 per il Nizzardo; i soldati godevano di un soldo al giorno e della razione viveri pari a quella dei soldati in servizio. Erano soggetti a due assemblee (campi d’arma) all’anno per 10 giorni nei mesi di maggio e settembre. Nel 1792 il contingente raggiungeva la forza di 20.774 uomini.

 

Corpi franchi: ad imitazione dei Freikorps di Cacciatori tedeschi, i corpi speciali era contraddistinti dal nome del Comandante e composti da fuoriusciti e disertori e personale con precedenti penali graziato, frammisti a partigiani. Raggiungevano una forza di 13 cp., con un organico di 2.133 effettivi.

 

Milizia Territoriale: costituita da volontari su base parrocchiale, comunale e baronale, operava in montagna a presidio delle batterie di posizione erette sulle Alpi ed in pianura a sorveglianza degli accampamenti. Espletavano un servizio molto gravoso e rischioso specialmente quando svolgevano compiti di esplorazione a favore delle unità regolari.

 

Armamento della fanteria: il principale era costituito dal fucile con baionetta innestata con bandoliere in cuoio nero e cinturone porta daga, da portare intrecciati a tracolla. Gli Ufficiali erano armati di spada e spuntone. Con la riduzione a retrocarica del fucile mod.52, attuata nel 1773, accrebbe moltissimo le potenzialità della fanteria che vedeva quintuplicata la cadenza di fuoco.

 

Addestramento della Fanteria: per migliorare le qualità operative dell’Arma, venivano approntato un sistema addestrativo – imitato da Francia e Germania – dei campi d’istruzione. Inizialmente veniva realizzato quello di Briga e poi altri due; in essi venivano effettuate esercitazioni a partiti contrapposti. Coordinava tale attività un Generale Ispettore.

 

La Cavalleria

Molto apprezzata per l’importante ruolo svolto nelle guerre precedenti ed in particolar modo in quella di successione spagnola, la cavalleria sarda era

interamente nazionale. La forza effettiva si aggirava intorno ai 2.420 cavalieri in pace che venivano raddoppiati in guerra. I sintesi l’Arma includeva 3 cp. di Guardie del Corpo (120 in pace e 260 in guerra) e 6 reggimenti. Tra questi molto famosi “Piemonte reale e Savoia Cavalleria

che hanno operato fino a pochi anni fa

I cavalieri erano armati, fin dal 1735, anche di carabina rigata per il tiro di precisione alle brevi distanze. I cavalli, importati dalla Germania, erano solo bai fra i 4 e 6 anni; di questi un 1/6 erano femmine, per una rimonta nazionale. In guerra i carabinieri costituivano speciali compagnie reggimentali mentre i dragoni erano armati di fucili lunghi con baionetta, pur conservando la sciabola.

 

L’Artiglieria

La brigata era l’unità base della artiglieria, dotata di 4/6 pezzi, assemblata all’atto della mobilitazione in un treno trascinato da 300 cavalli. Anche queste unità variavano nel numero a seconda delle esigenze; in media per 24 pezzi occorrevano 759 quadrupedi (450 cavalli, 300 muli, 44 buoi).

I pezzi di artiglieria erano classificati in pezzi: da campagna; da montagna (questi ridotti di lunghezza e peso) e da batteria (mortai e obici). L’orgoglio della artiglieria sarda era il sagro a retrocarica mod.704, impiegato fino al 1848 che sparava cartocci a palla mastra.

Le artiglierie sarde avevano cannoni di bronzo di due tipi: pesante (da piazza) e leggero da campagna. Nelle piazzeforti di montagna si impiegavano cannoni “lunghi”(colubrine da 16 e 32) per battere, a distanza molto grande, i punti di obbligato passaggio. Il caricamento delle polveri avveniva con la cucchiara cioè a volume non a peso.

L’Artiglieria d’ordinanza reclutava soprattutto nella provincia industriale di Biella, mentre 1/3 proveniva dal proletariato. In guerra l’artiglieria veniva assegnata alla fanteria ordinata in Brigate su 5 pezzi ed alla cavalleria in Brigate da 4 pezzi.

 

A seguito dell’armistizio di Gherasco (1796) e dopo la sfortunata resistenza opposta all’invasione delle truppe della rivoluzione francese, l’Armata Sarda veniva gradualmente smobilitata. Tale rimaneva per tutto il periodo della breve epopea napoleonica.

Alla restaurazione (1815) Vittorio Emanuele I provvedeva a ricostituire l’esercito piemontese su 10 Brigate di fanteria, rinforzate da unità di cavalleria, di artiglieria e genio, inquadrate  in 2 Corpi d’Armata ciascuno su 2 Divisioni, più una Divisione di riserva. Queste unità e reparti costituiranno lo strumento con il quale l’Esercito sardo – piemontese iniziava il ciclo delle guerre di indipendenza.

 

4. LE ARMATE NAPOLETANE

 

Con la cessazione del vassallaggio di Napoli dalla corte di Spagna, e per timore di rimanere isolato, re Carlo di Borbone progettava una nuova configurazione dell’Esercito di 50.000 fanti e 14.000 cavalieri, ritenuti sufficienti a presidiare le piazze e costituire l’Armata di campagna (30.000).L’ambizioso progetto elevava il regno delle due Sicilie al rango di grande potenza militare a tal punto da inquietare le diplomazie europee, tanto che si rendeva necessario rassicurarle sulle intenzioni pacifiche del regno. Ma di fatto il riarmo veniva sospeso a causa di una spaventosa carestia e di una disastrosa gestione delle risorse da parte del nuovo Segretario della Azienda di Guerra e Marina e veniva posto in essere un nuovo ordinamento, di fatto meno avveniristico.Sulla carta l’Esercito contava 16.800 fanti(20 rgt.); 4.272 svizzeri (3 rgt.); 3.248 cavalieri(18 sqd.); 780 artiglieri; 318 fucilieri da montagna( gendarmi anticontrabbando). Ma problemi di reclutamento nei reggimenti nazionali, legati alle cause dianzi evidenziate, inducevano il Consiglio di Reggenza a decidere segretamente  di completarli, arruolando una parte di mendicanti, vagabondi nonché parecchi con precedenti penali e criminali mediante il “truglio”, il patteggiamento giudiziario che consentiva di sostituire la pena con l’ingaggio militare. Per evidenziare ulteriormente la qualità del personale un fatto emblematico: nel 1772 veniva costituito un btg. speciale, denominato “Real Ferdinando” che aveva per Comandante titolare il Re, il quale provvedeva personalmente a reclutare il personale tra i suoi compagni di feste e bagordi; il reparto era inquadrato da cortigiani. Questo bizzarro btg. (9  cp. su 550 unità), odiato dalla regina, era in realtà una pittoresca comitiva personale di re Ferdinando che lo accompagnava nella caccia e nelle crociere nel golfo di Napoli, esibendosi in approssimative esercitazioni militari. I riordinamenti venivano di frequente vanificati da una serie di fenomeni, tra i quali la diserzione dovuta essenzialmente all’impatto con la disciplina ed i metodi molto severi degli istruttori francesi; a quella che si verificava durante i trasferimenti di sede per la precarietà del controllo; alle epidemie; alle malattie; alle condizioni igienico – sanitarie catastrofiche degli accampamenti che mietevano più vittime degli stessi combattimenti. Bisognava attendere il 1778 per una radicale ristrutturazione dell’Esercito borbonico, attuata dall’Ufficiale francese John Acton, mediante un aumento del 50% del volume della spese militari e la soppressione delle componenti più obsolete dello strumento.

 

La Fanteria: quella nazionale veniva  riordinata su 5 D., 10 B. e 20 rgt.. Ogni rgt. aveva un ordinamento misto su fucilieri e granatieri. La B. era articolata su 6 btg. anch’essi misti su 4 btg. di fucilieri, 1 di granatieri ed 1 di guarnigione per un totale di 27.296 uomini in tempo di pace e di 29.850 in tempo di guerra.

La fanteria estera comprendeva 2 rgt. ”macedoni” o “illirici” e 2 rgt. di varia provenienza, per un totale di 6.824 in pace e di 7.464 in guerra.

 

La Cavalleria: prevedeva sulla carta 5.388 effettivi ordinati su 8 rgt. e 3 B. più una B.”modello” con i rgt. Re e Regina. Essa operava armata di carabina e montata su cavalli calabresi.

 

Le Armi dotte: venivano raddoppiate e portate a 1.996 unità.

Completavano la struttura dell’Esercito borbonico una Forza di Sicurezza costituita da ausiliari volontari, analoga alla Milizia generale piemontese (38.000 u.) ed alle Bande toscane (12.000 u.), che si arruolavano per sottrarsi alla coscrizione obbligatoria.In caso di mobilitazione venivano impiegati nelle guarnigioni ed ai confini del Regno.

 

Il Corpo reale di Artiglieria e genio: ispirato al modello francese, l’ordinamento di tutti gli organismi di artiglieria e genio era riunito sotto un unico Corpo reale, al comando di un Tenente Generale. La dotazione organica prevedeva la presenza di 1.996 artiglieri e genieri , aumentabili a 2.914 in caso di mobilitazione. Il reggimento costituiva l’unità base della Real Artiglieria e contava 16 cp.

Alla fine del ‘700 erano in servizio due sistemi di artiglierie: di antico metodo: con cannoni da 24, 16,12 da assedio e da fortezza, di lunghezza e calibro 155/20, 135/22, 117/23; di nuovo metodo: cannoni da campagna e da montagna di spessore ridotto e molto più corti, molto leggeri e manovrabili, dei veri e propri obici.

Per l’innescamento si usavano gli imbutini, cannelli di latta, riempiti di polvere oltre a stoppini e micce.In sintesi l’Artiglieria borbonica aveva: 4 classi di cannoni (da 24 per assedio, da 16 per la difesa, da 12 corti e da 4 da 4 di campagna); 2 di obici( da 8 di posizione, da 6 campali); 3 di mortai e 4 tipi speciali. All’addestramento del personale provvedevano tre scuole di artiglieria: “ scuole metodiche”, “scuole sublimi”, “scuole di chimica e mineralogia”, scuole di matematica ed una scuola pratica a Napoli e due più piccole in Sicilia e sull’Adriatico. In quanto a scuole, un cenno alla Reale Accademia Militare della Nunziatella, tuttora in attività. Dalla fondazione reclutava ragazzi dai 9 ai 12 anni per corsi di 10 anni e li preparava all’arte della guerra nelle varie armi. Nel 1787 l’Accademia, dotata di biblioteca, gabinetti di scienze e specola astronomica, veniva trasferita a Pizzofalcone, nell’edificio adiacente alla chiesa della Nunziatella, ove si trova tuttora.

 

5.LE ARMI GRANDUCALI TOSCANE

 

Già dal 1760, soprattutto per le carestie ed il dissesto finanziario, più che per l’antimilitarismo e la filantropia del Granduca Pietro Leopoldo, il granducato di Toscana, aveva provveduto al disarmo unilaterale. Il Granducato era diventato uno stato cuscinetto, a sovranità limitata e mentalità disarmata, subordinato alla grande politica austriaca.

All’inizio del ‘700 le truppe medicee erano stimate a circa 2.500 fanti e 13.364 miliziotti scelti, aumentati due anni dopo a 2.966 fanti ( per lo più toscani e qualche svizzero), 8.0000 ausiliari delle milizie di banda, con compiti eminentemente territoriali e presidiari, 946 pezzi di artiglieria, 9.507 fucili. La piazza più importante era Livorno, ove era dislocato il 45% dell’intero esercito del Granducato, seguito da Portoferraio.

Le Bande, da tempo meramente nominali, erano ordinate in tre “Terzi” (Romagna, Lunigiana e Maremma) per un totale di 36 bande di fanteria, 22 a cavallo (16 di carabinieri e 6 granatieri). Infatti completato il trasferimento alla Francia della sovranità del Granducato di Lorena,truppe lorenesi  si trasferivano in Toscana e veniva attuato così un nuovo ordinamento della fanteria su due rgt.: uno lorenese delle Guardie(1 btg.fuc. e 1cp.gran.) e uno di Toscana (13 cp.) che comprendeva la vecchia fanteria medicea. La convivenza tra le due aliquote era alquanto difficile e dava adito a screzi e duelli tra Ufficiali lorenesi e toscani.

Nel 1741 la Toscana fu scelta come base di operazioni del Corpo di spedizione spagnolo in Italia per invadere la Lombardia. Non avendo forza sufficiente per impedire il passo alle suddette truppe, doveva cederlo ma nel contempo si rendeva necessario mantenere una forza che sorvegliasse i passaggi ed impedisse sconfinamenti. Tale compito veniva assegnato ad una nuova Milizia Nazionale Toscana, ordinata su 1 rgt di corazzieri (1.008 cav.) e 3 di fanteria  presidiarla (6.539 fanti), analoghi ai vecchi “Terzi delle Bande ( Romagna, Maremma, Lunigiana). Tale ripristino della milizia suscitava un forte malcontento del clero e della aristocrazia dissidente, sicchè qualche anno dopo venivano “disattivati” 3 rgt. e ridimensionato il numero dei granatieri e fucilieri. Ciò anche per potenziare il porto di Livorno che costituiva un punto nodale di grande interesse.

La politica di non belligeranza del Granducato, garantita peraltro dall’Austria, veniva disattesa per l’ultima volta in occasione della guerra dei sette anni con la richiesta di un contingente imperiale di 3.000 sudditi toscani pari ai 4/1000 della popolazione. Veniva costituito un rgt. su 24 btg.( 6 di granatieri e 18 di fucilieri), di qualità scadente e formalmente molto scarsi, tanto da subire, combattendo sul fronte boemo, molte perdite ed essere sciolto subito dopo. In sintesi alla fine del ‘700 la forza quasi nominale dell’Esercito del Granducato di Toscana prevedeva: 48 Guardie a cavallo e 156 a piedi; 2.531 fanti del Real Toscano; 300 dragoni; 177 artiglieri; 21 addetti alle fortificazioni; 777 fanti delle cp. autonome.

Per quanto riguarda alla gestione dell’Artiglieria (unico comandante), questa non era mai stata impiegata in maniera unitaria in virtù della politica militare di carattere eminentemente difensivo praticata dal Granducato, ma distribuita presso le principali piazze (Livorno, Portoferraio, Firenze, Arezzo) per proteggerle.

 

6. LE ARMI PARMENSI

 

Il ducato inglobava le città di Parma, Piacenza e Guastalla e le sue truppe si riducevano all’incirca alla forza del rgt.”Parma”, inquadrato nel corpo di spedizione spagnolo nell’Italia centrale, durante la guerra di successione austriaca. Il rgt. era ordinato su 2 btg. ai quali se ne aggiungeva un 3°; questi btg. prevedevano 1 cp. granatieri e 8 fucilieri su circa 30 Ufficiali e 500 uomini.Ma qualche anno dopo il duca Ferdinando, su esempio del Granduca di Toscana Pietro, ridusse ulteriormente la fanteria a 2 soli btg..

Il comando era affidato ad un Generale, supportato da un fantomatico SM che contava 24 Ufficiali. Unico reparto permanente era la Compagnia delle Real Guardie del Corpo con 157 effettivi, ridotti dopo alcuni anni a 37, aumentati poi a 90 e portati infine a 54. Una consistente forza, peraltro destinata a soli compiti presidiari, era costituita dalle Milizie Foresi o Provinciali.Queste  (12.000 unità su una popolazione di 12.0000 abitanti), organizzate in 43 cp. con forza variabile, si erano opposte alle requisizioni ed ai saccheggi delle truppe francesi, come le bande armate di contadini lo avevano fatto nel parmigiano contro gli austriaci e nel piacentino contro i galloispani.

In sintesi alla fine del ‘700 le forze del Granducato, nominali più che reali, consistevano in 11 “Terzi suburbani”: 6 parmensi, 4 piacentini ed 1 di Guastalla per un totale di 11.700 fanti, 540 carabinieri, 130 bombardieri (artiglieri).

 

7. LE ARMI ESTENSI

 

Interessavano i ducati di Modena, Reggio e Mirandola. Considerata la funzione strategica del territorio e la sua potenzialità logistica, i suddetti ducati non potevano non essere coinvolti nelle guerre di successione settecentesche.Il piano generale militare estense prevedeva un esercito di 2.500 regolari e 3.100 miliziotti, completo di supporti di comando e logistici. Le truppe regolari nel 1870 comprendevano i seguenti corpi: 103 guardie del Corpo; 170 corazzieri; 161 dragoni; 706 guardie appiedate; 1.213 svizzeri e 133 artiglieri. Quest’ultimi con appena 56 cannoni e 3 mortai di bronzo, aumentati qualche anno dopo a 53 cannoni da campagna e di difesa e 69 da batteria (30 grossi e 39 medi).Forze queste che non consentivano di far fronte ad eventuali attacchi. Tanto era vero che per resistere all’invasione austro – sarda, il Granduca Francesco III si impegnava segretamente di mettere in campo, con sussidi spagnoli, 4.320 fanti, 360 cavalieri e 120 artiglieri e reclutava un 2° rgt. di Guardie svizzere. Ma l’esito della campagna era oltremodo negativo in quanto le truppe estensi disertavano in massa e gli svizzeri passavano all’Esercito austriaco. Lo stesso Granduca si rifugiava prima a Venezia e poi nelle Marche. Considerata l’importanza del ruolo che il Granducato di Modena e Reggio avevano per l’equilibrio italiano, la Casa d’Este veniva reintegrata nei suoi domini e consentito di ricostituire i dragoni con compiti di gendarmeria, l’artiglieria  e 2 rgt. uno di Guardie  a Modena e uno di alemanni a Reggio. Venivano poi richiamati alle armi i 5 rgt. nazionali reclutati su base volontaria e trasformati in permanenti. Di questi una parte, per accordi stipulati con l’Austria, venivano impiegati in Lombardia, in sostituzione  del Contingente austriaco mobilitato per la guerra con la Prussia.

Per tenere a numero i rgt. si rendeva necessario ricorrere alla leva obbligatoria con personale dai 18 ai40 anni – eccettuati quelli residenti nelle due grandi città, Modena e Reggio – con preferenza ai più alti, agli scapoli di famiglie benestanti e numerose. Agli esenti e non prescelti, veniva accordato l’arruolamento volontario di 6 anni. Terminata l’esigenza, come peraltro avveniva in altri stati, per recuperare risorse finanziarie, si provvedeva alla smobilitazione di reparti ed unità. Alla fine del ‘700 con il Granduca Ercole III, l’esercito assumeva la denominazione di “Legione estense” con una nuova ulteriore riconfigurazione: Comandante: il Mag. Gen. marchese Montecuccoli; 6 Divisioni (ciascuna su 1.400 fanti, 70 cavalieri, 60 cannonieri) di cui una sola permanente, formata da personale straniero, una costituita da truppe urbane(volontari di Modena e Reggio), le altre 4 di truppe provinciali.

L’artiglieria era acquartierata presso la cittadella di Modena, con annesso arsenale, fonderie e personale. I pezzi (72) venivano fusi presso la cittadella stessa, con il calibri dei cannoni francesi(24 – 16 – 12- 8 – 4 – 2).

 

Questa era la situazione degli eserciti pre – unitari degli stati più importanti. Una costante per tutti: continue ristrutturazioni dovute alle cangianti disponibilità economiche; numerosa presenza di personale straniero; altissima percentuale di disertori, personale questo che non sentiva come giusta la causa del combattere; situazioni igieniche molto precarie; addestramento e professionalità per le truppe nazionali pressoché nulli.

 

7. L’ESERCITO ITALIANO

 

Come avevo in precedenza evidenziato, le origini dell’Esercito italiano potevano essere fatte risalire alle “milizie paesane” di Emanuele Filiberto di Savoia. Come pure è possibile connotare di italianità quelle forze che sotto la bandiera sardo – piemontese, iniziavano e portavano a termine l’epopea risorgimentale.Gli esempi più probanti si hanno, esaminando nel dettaglio le Forze.Tra queste la B.”Granatieri di Sardegna” (1°,2°,3° rgt.), la B.”Aosta(5° 6° rgt.), la B.”Regina” (9°10° rgt.), la B.”Pinerolo” (13° 14° rgt.), la B.”Aqui”(17° 18° rgt.). I reggimenti di cavalleria: Piemonte reale, Savoia, Genova, Nizza, Novara, alcune tuttora in organico nell’Esercito italiano ed altre recentemente sciolte.

Il periodo napoleonico, anche se non tutti concordano, toccava molto da vicino anche l’Italia, fornendole, in quegli anni roventi, una spinta ed una preparazione alla guerra prima impensate. Più tardi apparivano i primi scritti militari (Bianco, Mazzini, Zimbelli, Pepe, Durando ed altri) che al di là dell’intrinseco valore, riuscivano a rivitalizzare le forze popolari della nazione in vista di una guerra di liberazione. L’Esercito sardo-piemontese, avvicinandosi al modello prussiano, preferiva la “forza numero” alla “forza qualità” : 150.000 uomini di cui 16.000 di mestiere e 115.000 reclute o riservisti. Appena accettabile la fanteria e la cavalleria, buona l’artiglieria (anche se poco mobile) genio e servizi sanitari scarsi, la logistica e la sussistenza scadentissime. Con queste unità venivano condotte le guerre di indipendenza. Finiti male i moti del 1821, l’Esercito sardo – piemontese iniziava la 1^ Guerra d’indipendenza(1848 – 49) e già ad esso si affiancavano: una divisione regolare lombarda; la formazione di volontari toscani (btg. studenti), lombardi, valtellinesi, veneti, tridentini, nonché i contingenti regolari dei ducati di Parma, Piacenza, Modena, il tutto inquadrato in 5 rgt. di fanteria (dal 19° al 23°).

Le sorti avverse della campagna non prostravano il morale dell’Esercito né intaccavano il prestigio che comunque rimaneva intatto.Nel decennio tra la 1^ e 2^ guerra di indipendenza, lo strumento militare veniva potenziato ed ammodernato. Il Capo di SM Alfonso La Marmora poneva mano all’ assetto dell’Esercito, ne riordinava la logistica e la sanità, curava la preparazione dei Quadri, modificava la cavalleria e la fanteria e la modalità di reclutamento, strutturandolo sull’esempio francese: personale a lunga ferma, pochi riservisti e tutti alloggiati in caserma.

All’inizio della 2^ guerra d’indipendenza, l’esercito migliorato nella qualità e costituito dalle stesse 20 B. iniziali, veniva ulteriormente potenziato con l’aggiunta di 10 btg. bersaglieri(I-X), 3 B. di cavalleria, 4 B. di artiglieria, il tutto su 5 Divisioni di fanteria e cavalleria. Operavano a parte i “Cacciatori delle Alpi”, al comando del Gen.Garibaldi.

Questa guerra terminata in maniera che si potrebbe definire assurda,aveva all’inizio suscitato l’entusiasmo delle popolazione dell’Italia centrale: la Toscana cacciava il Granduca; si univano ad essa Modena, Parma, Bologna e davano vita all’Esercito dell’Italia centrale al quale avevano aderito, dopo l’armistizio di Villafranca, molti volontari garibaldini. Ne era a capo il Gen. Manfredo Fanti che riusciva, tra l’ottobre del ’59 e gennaio del ’60 ad inserire queste forze( 3 D. lombarde, 2 D. emiliane, 2 D. toscane, 1 D. Cacciatori delle Alpi) sul vecchio troncone sabaudo.

Si formavano così: le B. “Brescia”, “Cremona”, “Como”, “Bergamo” con contingenti lombardi; successivamente - procedendo i plebisciti e le relative annessioni al regno – le B. toscane “Pisa”, “Siena”, “Livorno”, “Pistoia” con contingenti toscani; le B. “Ravenna”, “Bologna”, “Modena”, ”Forlì”, “Reggio”, “Ferrara”, “Parma” e “Alpi” (Cacciatori garibaldini) con contingenti romagnoli ed emiliani.

Completavano il quadro, al termine della campagna ’60-’61, l’immissione delle forze borboniche e garibaldine che davano vita alle 6 B.di fanteria: “Napoli”, “Umbria”; “Marche”, “Abruzzi”, “Calabria” e “Sicilia”.

L’Esercito sardo – piemontese era di fatto diventato Esercito italiano ed Esercito degli Italiani. Quando nel ’66 riprendevano le ostilità per completare l’unità d’Italia, l’Esercito disponeva di 20 D.(ciascuna su 2 B. di fanteria, 1 o 2 btg. Bersaglieri - in tutto 27- 2 –4 batterie di artiglieria) e 1 D. di cavalleria (su 2 B.). Il tutto su 4 corpi d’Armata di cui uno di riserva (su 8 D. di fanteria, 2B. di cavalleria ed una massa di Artiglieria).

Era questo italiano uno strumento poderoso ma scarsamente coeso perché risentiva della eterogeneità delle provenienze dei Quadri e della Truppa; dei differenti modi di reclutamento, di preparazione e di addestramento; di  mentalità e modi di vivere ed operare differenti; ma soprattutto della mancanza di una dottrina unica che convogliasse e disciplinasse le intelligenze dei Quadri.

Dopo il 1866 e fino al 1914, l’Esercito italiano si adeguava gradualmente alla politica della Nazione. Molte varianti agli organici venivano apportate dagli ordinamenti: Rigotti (1870-75) che riduceva la ferma militare da 5 a 4 e poi a 3 anni; Bertole –Viale (1887-88) che creava l’artiglieria alpina (7 rgt.); Casana – Spingardi (1908-13)  tra le più importanti poiché adottava la ferma biennale, provvedeva all’organizzazione difensiva territoriale;  introduceva il traino meccanico e l’ordinamento delle artiglierie e sue specialità; la costituzione di 12 btg. ciclisti ed il Corpo di Commissariato.

Lo scoppio della 1^ guerra mondiale sorprese lo strumento militare in crisi di rifornimento dei magazzini in parte depauperati dalla mobilitazione parziale relativa alla guerra italo - turca (1911 – 12) e dalle successive operazioni di penetrazione in Tripolitania ed in Cirenaica. Ma l’intensa preparazione, intercorsa dal settembre 1914 e il maggio 1915, faceva sì che al momento del nostro intervento (24.5.1915) la forza complessiva dell’Esercito era di: 23.039 Ufficiali, 852.217 militari di Truppa, 9.163 civili assimilati, 144.522 quadrupedi. Ma nel prosieguo del conflitto veniva espresso uno sforzo immane: duplicando il numero delle Grandi Unità e triplicando quello degli Ufficiali e dei soldati di Truppa, unitamente al quantitativo degli armamenti, mezzi e materiali fino a raggiungere nel novembre 1918 quasi tre milioni di uomini alle armi. Per una più esatta comprensione dello sforzo compiuto, occorreva aggiungere che le perdite subite ascesero a oltre 600.000 morti, 271.000 mutilati, 1.051.000 feriti. Un bilancio catastrofico se si considera che tutte le guerre di indipendenza, tra il 1848 e 1870, costavano al Paese 6.262 morti, 20.000 feriti. La mobilitazione aveva interessato 5.903.140 uomini pari al 16% dell’intera popolazione italiana a fronte del 14% di Austria, 11,9% di Germania, 10% di Francia, 6% di Russia, 2,1% di Inghilterra.

Ad armistizio concluso e nonostante l’euforia conseguente alla vittoria, come quasi sempre accade dopo una guerra dall’esito più o meno fortunato, il Paese veniva sopraffatto da una ondata di pacifismo  che portava ad una graduale smobilitazione che provocava non poche discussioni sull’ordinamento da dare all’Esercito. C’era chi propendeva per la soluzione di avere uno strumento piccolo ma di qualità detto “scudo e lancia”, ritenendosi con ciò che doveva comporsi di unità bene armate ed al completo di organici, di prontissimo impiego, tali da prevenire l’aggressione mediante una rapida controffensiva.

Altri  sostenevano uno strumento a grande intelaiatura così da avere in sé          gli elementi di base (comandi, unità sdoppiabili e servizi ecc.) per garantire la copertura alle frontiere ed acquisire il tempo necessario per compiere in sicurezza la mobilitazione. Si optava per una soluzione di transizione in attesa che gli studi in corso portassero ad una soluzione. Si avevano gli ordinamenti Albricci (1919, Bonomi (1920), Diaz (1023) e Mussolini (1920-30) che prevedeva: 4 Cdi designati di Armata, 11 Cdi di Corpo d’Armata e i 2 Cdi militari della Sicilia e della Sardegna, 29 Divisioni di fanteria, 3 Divisioni celeri e 30 Ispettorati di mobilitazione. Su queste basi e nella prospettiva di un prolungato periodo di pace, gli Organi centrali andavano faticosamente ricostruendo la struttura di fondo dell’Esercito (magazzini di mobilitazione, aggiornamento degli armamenti, costruzione di prototipi da sperimentare per poi passare alla fabbricazione in serie.Ma a distogliere i responsabili della ricostruzione dello strumento, sopravvenivano le operazioni per la conquista dell’Africa Orientale (1935-36), sicchè il piano di ricostruzione - già rallentato in conseguenza delle grandi operazioni di polizia militare tra il 1922 e 1930 che portavano alla totale occupazione della Libia e del Fezzan – subiva un ulteriore rallentamento. A completare il quadro concorreva anche la guerra di Spagna (1937-38) e l’occupazione dell’Albania (1939). Non c’era quindi da meravigliarsi se lo scoppio della 2^ Guerra mondiale coglieva l’Esercito impreparato a sostenere il peso enorme del conflitto.

I Quadri Ufficiali erano al 50% e quelli giovani erano professionalmente impreparati, avendo compiuto la loro educazione al comando con corsi affrettati d’istruzione.

Le unità erano in piena crisi di passaggio dall’ordinamento ternario a quello binario secondo la nuova dottrina della “Guerra di rapido corso”, che le prevedeva più snelle e manovriere.

La meccanizzazione e la motorizzazione, presupposto di questa dottrina erano ben lungi dal divenire realtà.

L’armamento, ancora quello della 1^Guerra Mondiale, era il più antiquato e più scarso di quello in distribuzione negli altri eserciti europei. Mancavano mezzi c/aeri e c/carr;i, i carri armati, in tutto 400 erano armati di mitragliatrici ed obsoleti, non superavano le 11 ton. A fronte delle migliaia degli altri eserciti, tutti armati di cannone e cosi fortemente corazzati da pesare tra le 15 e 35 ton.

Il materiale del genio, da quello di ponte a quello delle trasmissioni, era scarso ed antiquato; il poco disponibile era logorato dall’uso.

In sintesi, la preparazione dell’Italia alla guerra toccava in percentuale il limite massimo del 40%, bene inteso che si trattasse di conflitto della durata massima di 2, 3 mesi.

La situazione poco meno che tragica, prospettata nella sua crudezza al governo, provocava da un lato la provvidenziale dichiarazione di non belligeranza, dall’altro l’affannoso tentativo di correre ai ripari. Vano tentativo poiché, se era possibile rifornire l’Esercito di materiale umano sempre disponibile, impossibile era rifornirlo delle armi, dei materiali dell’equipaggiamento e dei mezzi indispensabili, innanzitutto perché la trasformazione dell’industria di pace in quella di guerra, oltre che lenta di per sé, richiedeva una attrezzatura di materiali e l’urgente rifornimento di materie prime di cui erano tributarie le potenze anglo – sassoni ormai belligeranti e diffidenti nei nostri confronti. Comunque qualcosa si faceva tra settembre del 1939 e giugno del 1940: delle 126 Divisioni, previste dal piano di mobilitazione si riusciva a mobilitarne 73, inquadrate nel seguente Ordine di Battaglia: 3 Cdi di Gruppi di Armate; 9 Cdi di Armata; 26 Corpi d’Armata ( di cui 1 Alpino, 1 autotrasportato, 1 celere, 1 corazzato); 43 Divisioni (2 rgt. di fanteria, 1 legione camicie nere, 1 rgt. di artiglieria da campagna, 1 btg. genio), 5 Divisioni Alpine, 3 Divisioni corazzate( 1 rgt. carri, 1 rgt. bersaglieri autocarrato o motociclisti, 1 rgt. di artiglieria a cavallo o meccanizzata ), 12 Divisioni autotrasportabili ( ma alcune senza autocarri), 2 Divisioni motorizzate (2 rgt. di fanteria e 1 rgt. bersaglieri), 2 Divisioni libiche e 3 Divisioni Camice nere. Un totale di 1.634.000 uomini, escluse le forze dislocate in Africa orientale in gran parte indigeni e 35.000 fra carabinieri, Guardie di Finanza, Aeronautica,Marina.

 Delle 73 Divisioni, 24 erano dislocate oltremare e 49 sul territorio metropolitano; 19 erano al completo di uomini e materiali; 34,comprese quelle libiche erano efficienti; 20 erano incomplete; l’efficienza che in fatto di personale si aggirava fra il 60 %  ed il 100 %, in fatto di materiali oscillava fra il 40 % ed il 75 %. Si trattava in effetto di una situazione giudicata dagli addetti ai lavori, così deficitaria da richiedere per la messa a punto non meno di 3, 4 anni di intensa preparazione.

Ciononostante nel giugno 1940, prevalendo le esigenze politiche su quelle militari negative, si aveva l’ingresso in guerra dell’Italia.

Tuttavia l’Esercito italiano, con sacrifici ed eroismi, in condizioni di estremo disagio dovuto alle carenze dianzi evidenziate sapeva resistere su tutti i fronti per oltre 3 anni. Con l’invasione della Sicilia e della Calabria, come sempre sensibilissimo alle reazioni del Paese, subiva il collasso. Lo smarrimento non durava a lungo. Ad attestare la volontà di riscossa dell’Esercito stavano: il sacrificio della Divisione “Aqui” a Cefalonia;  le migliaia e migliaia di Ufficiali, Sottufficiali e Militari di Truppa che, per non venir meno al giuramento di fedeltà alla Patria, accettavano deliberatamente l’internamento in Germania; le migliaia e migliaia di Ufficiali, Sottufficiali e Militari di Truppa che su tutti i fronti si davano alla lotta partigiana; e poi  il raggruppamento motorizzato, i gruppi di combattimento “Friuli”, “Cremona”, “Folgore” e alcune Grandi Unità logistiche, che, ricostituiti nell’Italia meridionale e affiancati agli Alleati, davano un validissimo apporto del loro sacrificio e del loro valore alla liberazione d’Italia.

Fin qui la Storia, il resto è cronaca.