Cunicoli e pertugi

     
 

RACCONTO BASATO SU AVVENTURE REALMENTE
VISSUTE DALL’AUTORE
 

PERUGIA MCMXCV

 

                                                             1

    Certo non avrei potuto immaginare che per una coincidenza avrebbe ripreso vita una parte di me che, già da tempo desueta, forse
    aspettava solamente il momento giusto per ricolorare le mie giornate.

    Era stato un caso; una serata diversa, una strada buia, un po’ di freddo preso durante la notte passata in una macchina ed un risveglio
    simile a molti altri, così Riccardo e Marcello avevano consumato la loro rara libertà. Al mattino erano arrivati con qualche osso deformato,
    qualche muscolo rattrappito, ma divertiti; rimaneva ancora qualche briciola di tempo prima di rientrare nel collegio che, pur malamente, li
    ospitava entrambi. Riccardo era già sceso dalla macchina, spinto da un comunissimo desiderio mattutino, e si era avvicinato ad un
    grande muraglione, uno dei tanti che a guisa di mura antiche cinge la città di Perugia sostenendo strade e palazzi; il sonno non era del
    tutto svanito, si era trasformato in confusione e lo sguardo era impreciso come pure i gesti e le parole:

    "Marcé, che è ‘sto buco?".

    Riccardo aveva visto un largo foro sulla parete del muro, coperto da un cartello stradale vecchio ed arrugginito; l’ apertura era abbastanza
    grande da potervi entrare. Così fecero lui e Marcello: dapprima poterono vedere ben poco, le loro pupille erano ancora troppo contratte a
    difesa dalla luce del mattino, ma la curiosità ed un po’ di timore li resero presto capaci di muoversi con sicurezza nel sotterraneo. L'
    ingresso non era disagevole, ma degli ammassamenti di terra costringevano a compiere movimenti misurati per non scivolare e cozzare
    contro oggetti metallici abbandonati: cartelli stradali, secchi, pali, frammenti di una carriola sbranata dal tempo. Non sarebbe stato
    possibile visitare il camminamento se Marcello non avesse avuto delle torce elettriche nella macchina, ma al caso si aggiunse il caso e le
    torce erano proprio li, ad attenderli dopo aver dormito per chissà quanto tempo. La luce svelava finalmente le fattezze del segreto: grandi
    stanze scavate nell’ argilla, le cui pareti erano rivestite fino ad una certa altezza da pietre tagliate a mano con lo scalpello; le sale erano
    collegate da stretti passaggi costruiti con mattoni rossi e compatti disposti con molta cura fino alla volta a tutto sesto. Qua e la pendeva
    qualche giovane concrezione calcarea o qualche vecchia radice. Ovunque, il silenzio.

    Era già sera quando incontrai Riccardo, ancora eccitato dalla vicenda appena vissuta; mi accorsi che c’ era qualcosa di diverso, che
    qualcosa di nuovo aveva rinfrescato l’ aria stagnante del collegio opprimente e monotono. Come un genitore che scorge i propri figli
    rallegrati da qualche misteriosa avventura ed ancora complici nel custodirne il segreto, così ero io: avrei voluto attingere alla fonte di
    quelle fresche novità, ma non le volevo inquinare imponendo la mia presenza estranea. Con sorpresa, non ebbi bisogno di decidere quale
    via percorrere perché rapidamente venni trasportato dal racconto in quel luogo affascinante. Ancora mi domando, di tanto in tanto, perché
    Riccardo e Marcello mi abbiano coinvolto in una avventura che forse molte altre persone avrebbero voluto gustare nell’ assoluto riserbo,
    tuttavia quella che pareva essere una fiammella nella notte mutò presto in Sole. Mentre le descrizioni si susseguivano sempre più accese,
    nasceva il desiderio di ritornare nel sotterraneo, di capirne il significato, di esplorare ogni suo centimetro e non ci volle molto tempo per
    progettare la nuova fuga verso la libertà.

    Partimmo il giorno seguente; eravamo in tanti: io, Riccardo, Marcello ed un altro ragazzo Matteo, detto Pino. Appena arrivai presso il
    grande muro e vidi la breccia, mi parve cosa da poco; sembrava un semplice canale di drenaggio: quando si edificano delle mura di
    contenimento o dei bastioni è necessario provvedere in modo che le acque di raccolta o quelle piovane defluiscano con facilità,
    diversamente le strutture si espanderebbero e ne conseguirebbe il crollo. Entrai comunque con grandissima curiosità, vidi quei mucchi di
    terra prossimi all’ ingresso, vidi i relitti di qualche vecchio cantiere stradale, vidi dei frammenti di un piatto di ceramica rotto, vidi un osso
    sopra uno dei mucchi di terra:

    "Pino, ma questo è un femore!".

    Nel dire ciò provavo un certo senso di vergogna perché le mie parole sembravano dettate più che da una seria analisi, da un giovanile
    desiderio di avventura e dalla bramosia del mistero. Avanzai quindi in silenzio lungo la prima sala, passai per lo stretto camminamento di
    mattoncini rossi che portava alla seconda stanza e così per altri ambienti, uno dopo l’ altro, con emozione crescente. Ad aspettare me e
    Pino nel fondo dell’ ultima sala c’ erano Marcello e Riccardo, fieri della loro scoperta, padroni generosi del mistero. Cercai di proporre la
    mia ipotesi circa la natura del sotterraneo e, forse perché era l’unica avanzata, si accettò la teoria, che pur ridimensionava l’intera
    vicenda. Negli occhi di Riccardo, per un istante brevissimo ma intenso, lessi il dispiacere provato: la magia stava svanendo, calava il
    sipario sullo splendido scenario. Tornammo sui nostri passi, con le scarpe infangate e qualche ragnatela fra i capelli; giunti presso
    l’uscita, ci fermammo tutti e volgemmo lo sguardo verso il buio profondo, come chi al risveglio ricordando un bel sogno non vuol levare il
    viso dal caldo guanciale. Ci apprestammo quindi ad uscire e venne naturale disporsi uno dietro l’altro in attesa del risveglio completo;
    ultimo rimaneva Pino, attardatosi nel riprendere con la macchina fotografica la prima e meno suggestiva sala. In realtà nessuno di noi era
    uscito, tanta era la voglia di assaporare ancora gli effetti del buio, dell’insolito silenzio, dell’umido pesante; cercavamo di procrastinare
    l’uscita in vario modo: apprezzando le poderose radici che gli alberi soprastanti avevano affondato per tanti metri nei sedimenti argillosi,
    discutendo sull’abbandono dei rottami vari nella prima sala, osservando le pareti illuminate dalle nostre torce:

    "Ragazzi, ma questo è un cranio?".

    Non appena Pino ebbe pronunciato la parola cranio, tutti noi gli eravamo attorno gonfi di speranza. Né molto dovemmo augurarci, ché le
    ossa della scatola cranica di un essere umano non sono equivoche.

    "Ne ero sicuro! Pino te l’avevo detto che qui c’erano ossa umane! Quello di prima era proprio un femore!"

    "Si, tu l’hai buttata lì, ma neanche ci credevi".

    Eh già, Pino aveva ragione, avrei voluto crederci, ma non ne ho avuto il coraggio, ma adesso nulla aveva maggiore importanza che
    scoprire la via misteriosa che aveva condotto in quel luogo le ossa di una persona.

    Cercammo subito altri reperti, altre ossa, ma ciò che più caricava di mistero la scoperta era la posizione del cranio rinvenuto: decine di
    metri lo separavano dal livello del terreno soprastante e per noi ogni centimetro diventava misura del tempo trascorso dalla sepoltura, se
    pure ve ne sia mai stata una. In cosa eravamo incappati? In un antico cimitero? Nelle ultime tracce di un omicidio? Nell’unico resto di uno
    sventurato deceduto per vecchiaia o per malattia fuori dalle mura della città umbra? Decidemmo comunemente di studiare il caso con
    successivi sopralluoghi: stava scendendo la sera e non saremmo potuti rimanere più a lungo senza patire le conseguenze del ritardo sugli
    orari del collegio. Tornammo quindi con calma, ma eravamo in due, io e Marcello; avevamo portato tutto ciò che ci pareva utile alla nostra
    ricerca: pennelli da barba per pulire dalla terra i frammenti del cranio, cucchiai per estrarre i resti dalla parete argillosa che li custodiva,
    lampade per illuminare al meglio l’ambiente di lavoro. Cominciammo a scavare, lentamente, con la maggiore perizia di cui eravamo
    capaci, intenti nell’estrazione del teschio.

    "Marcello, un altro! Qui cen’è un altro!"

    "Dai! Ma come, fa vedere...si! E’ un altro cranio! Ma quanti sono?"

    "Ah non ne ho la minima idea, ma qui le cose cambiano! Guarda, sono molto vicini. Cerchiamo in giro!"

    Cominciammo avidamente a scavare le pareti del sotterraneo laddove ci sembrava d’intravvedere qualcosa che non fosse terra e
    scoprimmo che le radici di un grande albero camminando alla ricerca dell’acqua avevano provocato il distacco di un blocco di argilla dalla
    volta in corrispondenza del piano di inumazione degli scheletri. Continuammo a lavorare con entusiasmo crescente; il numero dei crani
    era destinato ad aumentare; ad ogni cucchiaiata emergeva qualche osso: una falange, una tibia, un femore, denti e così via. Col passare
    del tempo, cresceva la nostra capacità di intuire la posizione di ulteriori resti e ciò poteva significare una cosa sola: in tutto ciò c’era una
    precisa logica. La distribuzione infatti non era casuale, ma ordinata secondo uno schema che tentavamo di comprendere; leggevamo le
    pareti, la volta, l’argilla crollata sul pavimento, come le pagine di un racconto per dipanarne la trama, nella speranza di giungere ad una
    conclusione certa. Così facendo, scoprimmo che i crani poggiavano per le mascelle sulle ossa lunghe dello scheletro, tibie, peroni, femori,
    radi, ulne, disposte parallelamente le une alle altre; con l’attenta osservazione avevamo pure riscontrato che ogni gruppo di ossa era
    racchiuso da un sistema di asticelle di legno tutte della stessa dimensione e parallele anche queste le une alle altre. La storia diventava
    sempre più interessante, ma anche complessa e misteriosa. Decisi di asportare in modo molto accurato un osso per poterne eseguire la
    datazione nella mia Facoltà Universitaria; speravo pure di poter identificare quale tipo di legno fosse stato utilizzato per lo strano rituale,
    ma presto scoprii che non era possibile giungere ad una buona conclusione senza destare pericolose curiosità nei miei colleghi presso
    gli studi di Botanica e Micropaleontologia. Mi accontentai di accertare che le ossa trovate erano state abbandonate dal legittimo
    proprietario circa settecento anni prima del nostro arrivo.

    Tentammo molte ipotesi, ma non cen’era alcuna che si presentasse più solida delle altre e tutte insieme potevano solo generare
    confusione; non sarebbe stato sicuramente possibile trarre alcuna valida conclusione se non ci fossimo adeguatamente documentati:
    dovevamo sapere cosa vi fosse in quei luoghi dal 1000 d.C. al 1400 d.C.; dovevamo scoprire a quale cultura appartenesse lo strano
    rituale di rienumazione che avevamo decodificato; avremmo dovuto seguire tutti i cambiamenti urbanistici della città per oltre sei secoli di
    storia. Presto capimmo quanto vani sarebbero stati i nostri sforzi.

    Erano trascorse tante settimane, quando pensai di ritornare nel regno del nostro mistero per proseguire con i rilevamenti, per calcolare
    l’effettiva profondità della zona di sepoltura: questo dato ci avrebbe potuto aiutare validamente nella nostra ricerca, dopo tutto, dal 1000
    d.C. al 1930 d.C. il nostro sotterraneo si sarebbe trovato in aperta campagna. Appena giunto al grande muro vidi e stetti in silenzio;
    provavo sentimenti contrastanti e poco definiti: il varco era stato solidamente murato, forse per l’ultima volta.
 
 
 

                                                  2

    Rientrato in collegio raccontai quanto era successo:

    "Riccardo, sai che il nostro buco è stato murato?"

    "Beh, forse è meglio così, almeno ciò che abbiamo trovato non potrà essere distrutto", mi rispose serenamente. Probabilmente aveva
    ragione; nella ricerca non saremmo andati avanti: mancavano troppi dati, di quel luogo e dei resti umani che conteneva non esisteva
    alcuna memoria, nulla.

    Nel tentativo di raccogliere qualche notizia, io e Riccardo ci eravamo recati al "tempio della sapienza" di Perugia: la biblioteca Augusta.
    Qui potemmo consultare varie pubblicazioni sulla città, carte storiche, documenti e non fummo sorpresi nello scoprire che tanta parte del
    sottosuolo della città fosse esplorabile; chissà quanti segreti avremmo potuto svelare. Accostati ai grandi schedari della biblioteca, con le
    dita che correvano veloci fra le innumerevoli cartelle e gli occhi avidi di mistero, scovammo diversi scritti dedicati ai sotterranei di Perugia;
    fra tutti spiccava una pubblicazione dal titolo "Cunicoli e sotterranei di Perugia" risalente al 1805. Lasciammo l’Augusta carichi di
    eccitazione e di progetti, presi in un vortice ipnotico che ci avrebbe sospinti lontano.

    Era già arrivata la primavera, con le giornate sempre più calde e lunghe, coi profumi della campagna; Riccardo, Marcello ed io avevamo
    formato un solido gruppo, accomunati e spinti dal desiderio di avventura, dalla voglia quasi incontrollabile di scoprire luoghi oscuri, di
    andare alla ricerca di cose arcane. Avevamo cominciato col collezionare notizie sull’Ordine dei Cavalieri del Tempio, giacché nulla ci
    parve più stimolante. Marcello ci portò un piccolo opuscolo nel quale era descritto il Canyon del Verdon, vicino a Carcassonne, nella
    Francia meridionale, quasi al confine con la Spagna. Una leggenda, solidamente confortata dalla storiografia, narra di immensi tesori qui
    nascosti dai Templari e mai completamente rinvenuti; molti studiosi hanno dedicato gran parte della vita alla loro ricerca, giungendo
    raramente a qualche piccolo ma significativo rinvenimento. Scoprimmo l’esistenza di codici ancora indecifrati, di incomprensibili
    inscrizioni graffite in antiche abbazie vicinissime a Carcassonne, di opere di un pittore francese, il Poussin, nelle quali erano tradotte
    alcune delle chiavi di un mistero che diventava sempre più grande ed affascinante. In uno dei quadri dell’artista seguace dei Templari, è
    raffigurato un sepolcro immerso in un fitto bosco; nel sarcofago si può leggere una ambigua scritta: " ET IN ARCADIA EGO". L’opera è
    oggi nota come "I pastori dell’Arcadia", ma quale significato si può attribuire ad una tale epigrafe? Ed io in Arcadia? Non sembra avere
    un senso compiuto. Uno degli anagrammi maggiormente accreditati recita: " I TEGO ARCANA DEI"; fuggi! Nascondo i misteri di Dio! La
    storia dei Cavalieri Templari è tutta permeata di una interessante polemica: Gesù non sarebbe morto e risorto, ma partito con la madre
    ed una delle Marie alla volta della Francia. Si tratta indubbiamente di una tesi complessa e difficile da provare, ma la versione della morte
    e resurrezione proposta dalla Chiesa non è certo più chiara.

    Ad ogni modo, ciò che maggiormente ci premeva era la possibilità di trascorrere qualche settimana, sprofondati nel Canyon francese, in
    qualche sua grotta, intenti nella più affascinante fra tutte le ricerche che avremmo potuto portare avanti, ma mancava ancora troppo tempo
    ed eravamo privi di esperienza.

    Ancora una volta, il caso ci spinse sulle poche tracce che i Cavalieri del Tempio avevano lasciato nella città che ci ospitava; infatti, per
    pura coincidenza il nostro amico Pino aveva saputo che alle porte di Perugia, vicino al vecchio cimitero, c’era una chiesa mai consacrata
    e dedicata alla memoria ed alle gesta di un frate eretico, fra Bevignate, un tempo frequentata dai Templari. La chiesa era in
    ristrutturazione da data immemorabile, ennesima vittima della "gigantoburocrazia" che tanto graziosamente caratterizza il nostro Bel
    Paese; dunque non avremmo potuto accedervi lecitamente, ma, al pari della breve distanza che separa il genio dalla follia, così ci si
    mostrò il divario tra concesso e negato. Era già tarda sera, quando decidemmo di fare un sopralluogo: raccogliemmo quanto ci sarebbe
    potuto servire, salutammo Pino, anche lui vittima di una non diversa burocrazia, quella del collegio, e via!

    Arrivammo eccitatissimi nel grande sterrato antistante l’ingresso frontale della chiesa, parcheggiammo la macchina di Marcello, una
    Citroen 2Cv Special che ci avrebbe presto condotto per strade così impercorribili che parevano scritte solo nella nostra fantasia, e
    restammo in contemplazione. La notte tinge di un cupo fascino tutte le cose ignote; l’edificio era imponente, la sua storia comunale era
    evidente: non una croce, non un’immagine sacra, solamente un vigoroso esoterismo scritto su ogni sua pietra. Delle impalcature erette
    dal suolo fino all’estrema sommità ingabbiavano il tempio silenzioso. Come avremmo potuto forzare il nostro scrigno gigantesco?

    "Proviamo a salire lungo i ponteggi fino al rosone, forse da li potremmo scendere nell’interno; vedete, non c’è vetro".

    Avevo ragione, non c’era nulla a chiudere la grande apertura sulla facciata, quindi cominciammo la salita. Le scalette che consentivano di
    passare da un livello all’altro erano sicuramente affidabili, ma le tavole che ci sostenevano erano appena poggiate alle strutture metalliche
    e non sembravano solide; l’oscurità che nasconde i pericoli ci consentiva di proseguire la nostra impresa sciagurata, ma allo stesso
    tempo ci infondeva un crescente terrore del vuoto. A chi legge sarà capitato in gioventù di trovarsi immerso nel buio profondo, magari in
    un lungo corridoio; non sorgono forse strani timori? Non s’immaginano forse orribili e voraci creature che s’avanzano dall’oscurità afona?
    Noi, io Riccardo e Marcello, eravamo inseguiti dall’immagine della nostra fine tremenda, ma ottimo antidoto alla paura fu la curiosità.
    Salimmo verso il rosone che, ormai vicino, si mostrava in tutta la sua grandezza: una bocca pronta ad inghiottire ogni raggio di luce
    soffiando in cambio un alito odoroso di tufo.

    Mi accostai all’apertura minacciosa sporgendomi leggermente dalle impalcature per scrutare verso l’interno alla ricerca di qualche
    struttura utilizzabile per la discesa nel ventre del santuario templare: c’era solamente un vuoto terrificante, né mai compresi così
    chiaramente quale altezza avessimo raggiunto come in quel momento e gli incubi divennero con nuova e maggiore forza padroni di me.
    Mi ritrassi dalla voragine afferrandomi alle impalcature come un bambino si stringe alle gambe del proprio genitore negli attimi di paura;
    respirai profondamente, pensai alla triste discesa che avremmo dovuto compiere, ma non c’erano alternative.

    "Ragazzi, di qui non si può entrare, c’è un baratro; bisogna scendere e cercare un’altra via".

    "Oddio! Ma ti rendi conto di dove siamo? A salire c’è voluto poco, ma per scendere...".

    Riccardo aveva ragione, ma ben sapevo quanto fossimo giunti in alto. Marcello rimaneva nel buio e nel silenzio, già rassegnato alla nuova
    e necessaria impresa. Intanto un cane abbaiava fastidioso dal basso lontano. Rimanemmo per un breve intervallo di tempo a raccogliere
    il coraggio che ci avrebbe dovuto assistere lungo la discesa al suolo, poi ci muovemmo, lentamente, attentamente, in silenzio.

    Infine, toccammo il suolo; guardammo verso l’alto e l’avventura appena compiuta ci sembrò meno drammatica di come l’avevamo vissuta,
    tuttavia non l’avremmo ripetuta. Era necessario trovare l’ingresso alla chiesa; girammo tutt’intorno, osservammo ogni finestra, ogni
    possibile apertura. Ci portammo sul retro, in corrispondenza dell’abside e qui notammo una piccola finestrella, accessibile anche questa
    dalle impalcature, ma posta ad una ragionevole altezza. La parte posteriore del tempio confina con un piccolo gruppo di case, tutte
    abitate e perfino servite da qualche bottega. Avremmo sicuramente destato dei sospetti, anche perché al posto delle tavole di legno, alle
    quali avevamo affidato la nostra vita nella precedente salita, erano disposte delle piastre metalliche, che avrebbero reagito
    rumorosamente alla nostra presenza. Desistere? Aspettare il cuore della notte? Trovato l’ingresso, eravamo disposti a rischiare la
    vergogna di una fuga dal luogo del reato, quindi salimmo; tuttavia non fummo neppure a mezza via che comparve un omino (tale ci
    appariva dall’alto) alquanto incuriosito dalla nostra equivoca presenza.

    "Marcello, sei un cretino! Non potevi farmi uno scherzo più idiota! Adesso ci sali tu qui sopra e mi cerchi il portafoglio che hai lanciato. Ma
    guarda che roba... e se non lo ritrovo?"

    Mi parve l’unica plausibile giustificazione per la nostra frequentazione dei ponteggi: cosa potevano fare tre ragazzi dall’apparenza un po’
    stolta sulle impalcature di una chiesa a tarda notte se non qualcosa di sciocco?

    "E dai che lo trovi! Mi sembra che sia finito un po’ più a destra, forse più in alto, prova a spostarti un po’"

    Evidentemente Marcello aveva raccolto prontamente il segnale come pure i miei insulti.

    "Marcé, sei proprio un idiota! E’ tardi! Guarda che se non lo troviamo gli rendi i soldi".

    "Si, col cavolo, e i documenti?".

    La recita sembrava piuttosto ben fatta, tanto che l’ "omino" si allontanò ed io e Riccardo ci tuffammo dentro la finestrella aspettando che
    l’oltraggiatissimo Marcello salisse per i tubi Dalmine e ci raggiungesse nel ventre del mostro sconfitto.

    Eravamo nella sacrestia; c’erano vecchi mobili rotti riversi sul pavimento; i muri, un tempo bianchi, erano sporchi e scrostati; la struttura
    originale era stata rovinosamente adattata ad esigenze incomprensibili: pareti sottili dividevano i grandi ambienti in piccoli vani malconci.

    Poi che fummo tutti nuovamente assieme, ci avviammo verso la navata della chiesa percorrendo un piccolo corridoio ingombro di detriti.
    Come un gruppo d’assetati che giunga ad una fresca oasi, così eravamo noi: avremmo potuto mitigare la bramosia del sapere; il respiro
    s’era fatto profondo, quasi per assorbire tutto ciò che ci circondasse.

    "Finalmente! Guarda, l’altare!"

    Riccardo ruppe il sacro silenzio che ci legava intimamente al luogo violato ma amico benevolo. Sembrava che ogni cosa fosse li ad
    aspettarci, pronta a svelare tutto il suo fascino; gli affreschi richiamavano il nostro sguardo gareggiando fra loro in bellezza; le pietre
    dell’altare chiedevano d’essere sfiorate; l’immensa navata voleva essere tutta percorsa; tutto acquistava senso con la nostra presenza. In
    ciascuno di noi cresceva via via un rapporto personale con il tempio, nascevano sensazioni che ci conducevano per strade diverse, attimi
    irripetibili, poi ci riunimmo, ognuno con un’esperienza da condividere. Pino ci aveva raccontato una storia interessante sulla chiesa di S.
    Bevignate: diversi documenti indicavano l’esistenza di un passaggio sotterraneo, forse una via di fuga, che un tempo univa l’edificio non
    consacrato con il vecchio cimitero; quella era la nostra nuova meta. Cominciammo a cercare ovunque; ci intrufolammo in un angusto
    cunicolo che ci avrebbe condotto sotto l’altare, nella cripta, dove erano ancora visibili i resti di una bara; tornati sui nostri passi,
    scrutammo gli affreschi alla ricerca di qualche misteriosa indicazione. Proprio dietro l’altare, in parte incassato nella parete absidale,
    c’era un pozzo di pietra, sul bordo erano evidenti le tracce lasciate dalle corde usate coi secchi per attingervi l’acqua trasparentissima. E’
    incredibile come quel buco che altrove avremmo disdegnato di qualsiasi cura in quel luogo diventava attraente e quasi sensuale.
    Cercammo delle corde che fossero affidabili, le trovammo e le fissammo con nodi sicuri a delle impalcature erette perché si potesse
    giungere in alto per pulire i dipinti sacri; dunque mi calai lentamente verso il fondo, certo di non correre alcun pericolo. Fu presto evidente
    che non c’era il passaggio né alcunché di misterioso: si trattava solamente di un pozzo e dovetti risalire con fatica, ma divertito, lasciando
    immerso nell’acqua, ahimè or ora me ne sfugge il motivo, un piccone.

    Continuammo la ricerca del segreto tastando il pavimento in attesa di qualche eco, sperando in qualche botola; nulla. Volgemmo allora la
    nostra attenzione alle pareti, prendendo a bussare ogni centimetro, in attesa di qualche risposta.

    "Senti! E’ vuoto! Qui suona vuoto!"

    Marcello era vicino a me e verificò immediatamente, con qualche pugno, che effettivamente in quello spazio della parete c’era qualcosa di
    diverso; Riccardo era lontano, nel buio, né molto dovemmo aspettare il suo arrivo, che era già pronto con arnesi vari alla profanazione
    totale: stavamo per sfondare una parete! Marcello con uno scalpello cominciò a scalfire l’intonaco, poi il cemento che univa i mattoni ed
    all’improvviso l’arnese venne inghiottito dalla parete: avevamo trovato una sala nascosta, il passaggio segreto; era giunta la nostra piena
    vittoria.

    Cercammo subito qualcosa di più lungo dello scalpello usato, per continuare l’opera di demolizione e Riccardo già imbracciava un tubo di
    acciaio lungo mezzo metro; lo conficcammo nella spaccatura prodotta e cercammo di fare leva, poi qualche altro colpo ed anche questo
    attrezzo venne risucchiato dal muro: nulla più trattenne Riccardo, profanatore furente, e la parete dovette arrendersi ai suoi violenti calci;
    dietro c’era il buio ed un fortissimo odore di decomposizione organica. Né io né Marcello fummo tentati dal sottrarre al prode vincitore la
    gloria d’essere capofila nella spedizione che stavamo per intraprendere, dunque, eccitato più che al primo suo incontro amoroso, entrò
    nella grotta fetente. Lo spazio era angusto, l’umido afoso rendeva malamente sopportabile il denso tanfo; la struttura era in parte assai
    vetusta, fatta di mattoni di fango impastato ed in parte appena costruita, con cemento compatto.

    "No, qui non c’è nulla; abbiamo trovato una fogna!"

    Il povero Riccardo, che era stato ben disposto a rinunciare alla salubrità dell’aria della grande navata della chiesa, si era immerso nei
    miasmi putrescenti che provenivano da una cloaca e che il piccolo ambiente aveva gelosamente custodito per lui da chissà quanto
    tempo. Continuammo, delusi, nella ricerca del passaggio segreto, muovendo verso ciò che ancora rimaneva inviolato: la torre
    campanaria. A nessuno di noi era sfuggito, percorrendo il corridoio che unisce la sacrestia al corpo centrale della chiesa, che una scala
    di legno conduceva ai livelli superiori della costruzione, ma, accecati dal desiderio di esplorare la parte più importante del complesso,
    avevamo soprasseduto dal sospingerci verso l’alto.

    Cominciammo la salita, scalino dopo scalino, sperando di giungere alla nostra meta, ma in cuor nostro, via via salendo, sentivamo di
    allontanarci dal pertugio agognato. Arrivammo fino al tetto della chiesa, vicinissimi alle campane di bronzo, tanto da poterle toccare, ma
    non trovammo alcunché di misterioso, potemmo solo constatare che vi era una grande apertura dalla quale saremmo potuti entrare senza
    destare sospetti, solamente se, giunti al rosone, avessimo camminato lungo le impalcature che abbracciavano il lato destro dell’edificio.
    Sconfitti, tornammo verso la navata della chiesa e, percorrendola in tutta la sua lunghezza, giungemmo presso il grande portale
    d’ingresso; lo aprimmo facilmente e quindi uscimmo a riveder la notte.
 
 

                                                  3

    Di quanto avevamo compiuto in precedenza, si cominciava a sentir rumoreggiare per i vari corridoi del collegio; si poteva avvertire un
    certo parlottare, molto simile ad un fastidioso rumore di fondo che intorbidisce chiari concetti.

    In fondo, a me, a Marcello ed a Riccardo, non importava un gran ché di qualche chiacchiera vagante, ma ciò che parve più preoccupante
    era il prospettarsi di una sgradita ipotesi: il nostro gruppo avrebbe dovuto pagare una tassa onerosa per ottenere il silenzio: dovevamo
    forse espandere il godimento della nostra libertà in favore di qualcun’ altro. Beh, si trattava proprio di una gran brutta ipotesi. Il primo
    esperimento di "reintegrazione nell’ambiente naturale" di uno dei tanti animali in cattività del collegio si potrebbe intitolare "progetto
    Fabbione", ma l’operazione, invero, nacque più da una unione di vecchia data con Marcello e Riccardo, che non dal timore di chiacchiere
    dannose.

    Decidemmo la meta della prossima esplorazione: saremmo entrati nel castello di Corbara.

    Partimmo in quattro nelle prime ore della mattina di una domenica; Fabbione pareva quasi eccitato più di noi, ma la cosa non deve
    sorprendere, sono pochissimi gli eventi durante i quali Fabbione non provi una qualche eccitazione. Arrivammo a destinazione dopo aver
    percorso decine e decine di chilometri per una via errata; un po’ stanchi, ma felici come sempre, ci addentrammo per i meandri di ciò che
    un tempo fu castello, poi azienda agricola, quindi ragioneria di una banca: i livelli sotterranei conservavano ancora il fascino
    castiglionesco, qualche metro al di sopra i grandi tini proponevano una versione strettamente rurale, ancora più in alto carte, registri
    documenti vari segnavano una vita confusa da problemi irreali, sofisticata, artificiale. Dopo aver visitato ciò che ci interessava meno, ci
    calammo verso il basso, da dove proveniva il familiare odore di muschio e di muffe. Il castello poggiava sul morbido tufo, che in tempi
    successivi venne scavato per ricavare nuovi ambienti adatti a ben poco, ma affascinanti; quando incontrammo gli abitanti di quei luoghi
    scoprimmo, piuttosto divertiti, il terrore che Riccardo nutriva per i pipistrelli. Diventò un vero spasso spaventare il poveretto in ogni buona
    occasione: una toccatina ai suoi capelli, un grido di allarme, l’abbassarsi improvvisamente; si, cen’era per ogni momento.

    Visitati con cura i sotterranei, riuscimmo all'aperto un po' accecati dalla luce forte del giorno; Marcello, Riccardo e Fabbione si diressero
    verso il lago di Corbara, a poche decine di metri dal castello, quasi alla ricerca di "solarità", di un clima più sereno ed allegro. Io li seguivo
    cercando di distrarre quella sete di tranquillità proponendo la visita a strane cavità scavate nel tufo ed utilizzate prevalentemente come
    cantine: ce n'erano parecchie, una più attraente dell'altra. Noi naturalmente decidemmo di visitare la più impervia, la più nascosta e quindi
    la più affascinante. Ci arrampicammo per una parete quasi verticale aiutandoci con radici sporgenti dal terreno, alberi, cespugli e
    finalmente arrivammo alla meta; decisamente deludente. La discesa invece ci regalò uno dei momenti migliori della giornata: Fabbione,
    stanco per le imprese, si fermò qualche minuto a riposare seduto alla base di un imponente leccio, con le gambotte penzoloni quasi
    cavalcando una forte radice contorta: il fatto interessante era la contemporanea presenza in un piccolo spazio del sederone di Fabbione,
    della grande radice del leccio e di un gigantesco nido di formiche rosse. Fu davvero entusiasmante scoprire la illimitabile agilità del
    povero amico, che in pochi secondi raggiunse la pianura e si mise a danzare muovendo perfino le braccia al cielo.
 
 

                                                  4

     Ancora una volta ci eravamo saziati ed eravamo soddisfatti per le nostre imprese, tuttavia la presenza di Fabbione non ci aveva
    consentito di esprimere al meglio la nostra follia e in molte circostanze avevamo abbandonato progetti che potevano essere troppo
    pericolosi per l'inesperto gnomo dei boschi. Nuovamente liberi Marcello, Riccardo ed io, decidemmo di estendere il territorio delle nostre
    avventure ben oltre l'Umbria, di fatti studiammo il modo di esplorare uno dei più misteriosi luoghi del Lazio. Un piccolo paese di nome
    Formello.

    Partiamo presto da Perugia, un sabato mattina, attrezzati con una tenda, qualche meravigliosa salsiccia da arrostire, torce elettriche,
    oggetti vari e tanta curiosità, come al solito. La Citroen rossa era stata equipaggiata con ruote praticamente da fuori strada, piove ma noi
    siamo contenti della libertà, dello stare assieme e di poterci mettere ancora nei guai. Io ero stato a Formello diverse volte quando ero più
    piccolo, portato li dai miei genitori e ricordavo un'abbazzia benedettina, ricordavo delle rovine romane, dei sotterranei, ma non sapevo
    esattamente collocarli sul territorio, quindi certamente li avremmo dovuti cercare. Arriviamo in un paese probabilmente vicino a Formello,
    ma, persi nella campagna romana, non riusciamo a trovare la strada giusta. Decidiamo di chiedere informazioni a qualche abitante
    locale. La prima scelta cade su di un signore apparentemente distinto, anziano, dotato di un buon portamento, petto in fuori, viso fiero;
    certamente è la persona ideale alla quale chiedere aiuto.

    "Scusi", gli dico un po' timidamente, "stiamo cercando di arrivare a Formello, potrebbe indicarci la strada?". Ma come potevo….come
    avrei potuto immaginare solamente quanto di li a poco sarebbe accaduto?

    " 'Mbè, ma che ce vò, a circa 'n chilommetro, ce stà 'n bivio, piji sta strada, fai così, così, giri de là, poi vai così, così così e poi t'aritrovi
    qua". Tutto sommato, se avessimo potuto visualizzare la sua "cartina stradale mentale" non avremmo certo avuto problemi, ma il fatto è
    che il distinto signore quella cartina ce la disegnava con il dito indice della sua mano destra per la fresca aria che lo circondava. A questo
    punto scoppiamo a ridere lasciando il gentile attonito e ripartiamo con la rossa due cavalli. Riccardo, il nostro portatore di handycam,
    aveva potuto riprendere la scena immortalando quell'episodio davvero divertente. Arriviamo in prossimità di un incrocio e vediamo una
    signora vestita elegantemente, con una pelliccia di taglio moderno, delle scarpe ben curate, una pettinatura che interpretava molto bene la
    forma della sua testa ed il lungo collo; decidiamo di riprovare. Apro il finestrino e chedo: "Scusi signora, stiamo cercando la strada per
    arrivare a Formello, potrebbe indicarcela?".

    E' stato un po' come domandare ad una deliziosa bambina bionda col faccino dolcissimo che nome avesse e sentirsi rispondere "UGO!".
    La signora gentilmente ci risponde: "Si, si, ce lo so! Vai sempre dritta, arivi allo stoppe e giri dellà!". Ora, già provati dal caso precedente
    Riccardo io e Marcello esplodiamo in una risata fragorosa quanto isterica; incapaci di ringraziare per le informazioni e altro non ci rimase
    che ripartire lasciando la signora dentro la sua pelliccia, ferma sul marciapiede, col sorriso sulle labbra e chissà quanti interrogativi da
    evadere. Con le lacrime agli occhi ci fermammo osservando che altro ci offriva quel paesello dagli abitanti tanto gentili e stravaganti.
    Decidiamo di voler ridere ancora a crepapelle e di riprendere bene la scena con la telecamera: poco avanti a noi c'era un muratore che
    stava aggiustando un marciapiede battendo del cemento fresco per renderlo perfettamente piano; sicuramente quella persona poteva
    regalarci davvero qualcosa di magico! Ripetemmo la nostra domanda al tipo e, inaspettatamente, questi ci diede dettagliate informazioni
    per raggiungere Formello, in un perfetto italiano vagamente abbellito da inflessioni romanesche. Finalmente raggiungemmo la nostra
    meta.

    Io cominciai ad orientarmi vagamente; in effetti quando un posto lo si vede da piccoli, tornandoci dopo anni ed anni, tutto pare più piccolo,
    più raccolto e manca piuttosto anche l'orientamento "destra - sinistra". Comunque, qualcosa di magico mi consente finalmente di guidare
    tutti noi verso la prima delle impresi formellesi: l'esplorazione dell'antica abbazia.

    Arriviamo per strade impervie, che ora però sapremmo ritrovare, in una splendida valle ed io intendo mostrarla a Riccardo e Marcello,
    così cominciamo a percorrere un bellissimo viottolo sul fondovalle, accompagnato da un fiume trasparentissimo, da cavalli liberi e da
    qualche bovino; in fondo alla strada sapevo avremmo trovato una fonte di acqua buona ed infatti fu così: la fonte c'era, l'acqua pure, ma
    certamente non era attraente, con tutti gli escrementi attorno. Comunque ci spingiamo a vedere una piccola diga costruita sul fiume, che
    ne fa un piccolo laghetto e con mia e nostra meraviglia notiamo che accanto alla diga si trovano le rovine di un vecchio mulino.
    Ovviamente discendiamo pericolosamente fin sotto la diga, entriamo dentro i canali che portavano l'acqua a far girare i meccanismi ed
    una volta dentro osserviamo tutti i particolari, le varie stanze ed anche il lavoro che l'acqua aveva fatto nei secoli: dove per tanto tempo era
    passata aveva reso liscia ogni superficie. Torniamo, un po' contorcendoci, sui nostri passi e finalmente muoviamo verso l'abbazia.

    Il percorso è davvero semplice, sembra che sia sempre stato percorso ed in effetti così è; arriviamo al cospetto delle grandi mura e
    cominciamo subito l'esplorazione dai sotterranei, grandissimi, direi immensi. Il solito fascino per il mistero ci rapisce e ci fa immaginare
    tante cose, ci domandiamo quale destino avessero quelle cavità, quei cunicoli. Perché sotto una costruzione tanto importante c'erano due
    piani di sotterranei intricatissimi ormai quasi del tutto interrati? Beh, le solite domande che non hanno risposte, almeno fin quando uno non
    le cerca con serietà. Visitati i sotterranei ci dedichiamo alle parti più recenti in fase di ristrutturazione. Complessivamente ci aspettavamo
    forse qualcosa di più, quindi passate un paio d'orette lasciamo quel luogo incantevole per l'ultima avventura formellese: l'esplorazione
    delle rovine romane.

    Credo la chiamino "villa di Tigellio", ma in realtà ci risulta difficile attribuire ai ruderi che ci troviamo di fronte qualcosa di romano, par più
    uno sfascio di edifici seicenteschi. Entriamo per qualche sotterraneo tufaceo ed uno in particolare ci affascina: una lunga discesa nel
    ventre della terra ci porta verso una sala a forma di ciambella, al centro della quale c'è un immensa colonna di tufo. Tutto era stato scavato
    nel tufo e l'odore di muffa era diffuso ovunque. Riguadagnamo la luce e scopriamo che è cominciata una fittissima pioggia che
    certamente ci creava non pochi problemi; in effetti ci troviamo praticamente avvolti da rovi quasi più grandi delle stesse rovine, erba alta,
    fango, ed a questo punto anche pioggia, tuttavia continuiamo a girare per i ruderi. Un rumore ci attira verso un fosso, quasi fosse una zona
    di frana; ci accorgiamo di una profonda spaccatura nel tufo che ci mostra un lago ed un fiume sotterraneo. Cosa da matti: col freddo, la
    pioggia e tutta la stanchezza che avevamo addosso, decidiamo (tutta colpa di Marcello!!!!!) di addentrarci ancora nelle viscere della terra.
    Ancora oggi posso solo riconoscere che lo spettacolo al quale stavamo assistendo era grandioso!

    Discendiamo usando una specie di scaletta di legno marcio verso un laghetto formato dal getto di una cascata d'acqua, a pochi passi
    sembra di scorgere una spiaggia, che sotto il nostro peso si rivela semplicemente finissimo fango; con ovvie fatiche io Marcello e
    Riccardo, perennemente dotato d'un sorriso confuso, riusciamo a raggiungere del terreno consistente, di tipo vulcanico. Continuiamo a
    camminare dentro un enorme tunnel alto almeno una decina di metri per forma delle pareti simile ad quello che dovrebbe essere un
    canale vulcanico scavato dalla lava: nella parete superiore vediamo disegni geometrici formati dall'erosione dell'acqua, poi
    improvvisamente… un secondo tunnel che forma una "T" col primo ci attira: questa nuova via entra nel buio della terra, mentre quella che
    stavamo già percorrendo mostrava l'uscita. Marcello comincia ad arrampicarsi, si perché bisognava raggiungere altezze superiori per
    entrare nel nuovo sotterraneo, dal quale sgorgava dell'acqua e proveniva un odore di zolfo. Con le nostre pile andiamo avanti, sempre più
    avanti, cercando di evitare le pozze d'acqua ed il fango, pullulante di giganteschi vermi. Proprio come vermi, ci accorgiamo che più
    andiamo avanti più il camminamento diventa stretto e basso, fino a bloccarci completamente. Ci troviamo in una sala in compagnia di
    qualche topo e realizziamo che non c'è altro da fare: dobbiamo tornare in dietro, sempre evitando le putride pozze piene di qualcosa che
    non potevamo non chiamare LA FERMENTAZIONE!

    Durante il percorso ci rilassiamo un po' e ci divertiamo a fantasticare circa l'origine di quella stranezza che ci aveva attratto; ad un tratto
    dobbiamo ridiscendere con attenzione un salto di un paio di metri: passa Riccardo, passo io e quindi viene la volta di Marcello. Il
    poveretto, che per il freddo si era coperto con un K Way, discende dando la schiena alla roccia, sistema esteticamente convincente,
    ma…. Ma l'amico non si accorge che il succo immondo della fermentazione, anche smosso dal nostro passaggio e quindi denso anche di
    vermi, viene inghiottito dalla manica del suo giacchetto di plastica, percorre la lunghezza del suo braccio ed infine riesce completamente
    depurato dal punto vita. Marcello non credeva a quanto gli stesse accadendo: ci guarda attonito, urla, urla, urla.

    Anche questa volta riusciamo a restringere le nostre pupille con la luce del giorno e, sotto la pioggia fittissima, ci dirigiamo alla macchina.